28 Ottobre 2017 | Si può fare
Parlare di innovazione, come questa rubrica si propone di fare, significa spostarsi nel tempo. Tentare di non perdersi nel presente e nei limiti che oggi sembrano invalicabili, per sforzarsi di immaginare che domani ci sarà una soluzione.
Per parlare di innovazione è necessario porre l’attenzione su chi è, per definizione, proiettato nel futuro. Occorre, e non succede spesso, parlare di scuola e di formazione.
In queste settimane in realtà, gli studenti delle scuole superiori hanno cercato di far parlare di sè. Venerdì 13 ottobre, in molte piazze italiane, hanno manifestato per opporsi all’Alternanza Scuola Lavoro. Introdotta dalla legge 170 del 2015 (“La buona scuola”), questa nuova proposta formativa sta creando una serie di spaccature, soprattutto tra i diretti interessati. Abbiamo fatto loro qualche domanda, per comprendere le motivazioni e le difficoltà che stanno incontrando.
In particolare ci siamo concentrati su coloro per i quali l’alternanza rappresenta la novità più evidente: gli studenti liceali. Non ce ne vogliano gli alunni degli istituti tecnici e professionali: non sono stati intervistati in quanto, nei loro percorsi di studio, i periodi di tirocini e stage formativi sul campo sono previsti da prima del 2015. I loro colleghi liceali, invece, hanno vissuto l’idea di affiancare momenti di lavoro a versioni di latino e integrali come una piccola rivoluzione.
«Già il fatto di doverci prendere ulteriori impegni dopo 9 mesi sui libri per noi è pesante (non frequentiamo certo una scuola leggera) e se poi dobbiamo anche svolgere compiti che assolutamente non c’entrano nulla con il nostro percorso formativo allora il disappunto raddoppia.»
Andrea, al quarto anno del Liceo Classico Maffei di Riva del Garda (Tn), mi ha raccontato della sua esperienza, di fatto molto positiva, e di quella di alcuni compagni, che non sono stati altrettanto fortunati.
«Le testimonianze si sono dimostrate negative sia per le mansioni svolte, sia per l’organizzazione non proprio impeccabile. E nemmeno c’era stata grande chiarezza sui compiti che sarebbero stati svolti.»
Una serie di criticità legate all’organizzazione dell’alternanza e alla difficoltà di conciliare questo percorso con gli impegni scolastici sono emerse anche dalle parole di alcuni studenti del Liceo Peano – Pellico di Cuneo. Anche il fatto che le mansioni affidate agli studenti siano poco attinenti ai percorsi di studio è stato sottolineato.
Di fatto però, i licei sono scuole che non prevedono competenze tecniche, quindi è difficile pensare di organizzare un’alternanza con lavori specifici. “Lavare i piatti non è formazione”, si legge in alcuni dei cartelli delle manifestazioni. «A volte sembra che il nostro lavoro “faccia comodo”», ha ribadito Andrea. E c’è chi obietta che, indipendentemente dalla mansione, un’esperienza lavorativa sia formativa in quanto tale, perché implica una serie di capacità e consapevolezze trasversali e necessarie per qualunque lavoro.
Alcuni degli studenti con cui abbiamo chiacchierato sono d’accordo, e riconoscono la positività di un’esperienza simile, pur facendo notare che l’organizzazione dei periodi lavorativi sembra non essere pensata per agevolarli.
Altri invece, ed è il caso di chi è sceso in piazza venerdì scorso, si oppongono al concetto stesso di alternanza scuola lavoro. In particolare per chi ha scelto una scuola che prevede, nella maggior parte dei casi, di proseguire gli studi dopo il diploma, il mondo del lavoro è forse un orizzonte troppo lontano per vedere un’utilità concreta in questa prima esperienza. In molti suggeriscono che forse, almeno in questa fase del percorso scolastico, sarebbe più costruttivo far “assaggiare” agli studenti alcuni dei lavori a cui potrebbe portarli la scuola che stanno frequentando. In questo modo potrebbero vedere concretamente a cosa stanno andando incontro, e sperimentare sul campo gli argomenti che li appassionano.
Si tratta di una questione complessa, che di certo non può essere risolta in poche righe. Ma forse gli Istituti hanno una possibilità, talvolta sottovalutata, per rendere questo percorso utile e formativo. Tener conto delle impressioni, delle esigenze e delle esperienze degli studenti. Tentando di creare un dialogo in cui abbiano peso le voci dei protagonisti della formazione.
(Con la collaborazione di Simone Arciuolo)
30 Settembre 2017 | Si può fare
Fatico a rimanere ottimista sul nostro futuro. Siamo entrati nella quarta rivoluzione industriale senza nemmeno accorgercene, come non ci si renderà conto che oggi le ore di luce saranno uguali a quelle notturne. Probabilmente non interessa a nessuno, inoltre sarebbe proprio uno spreco di tempo stare lì a compararle; tuttavia non è uno spreco spendere due parole per comprendere la portata di questa rivoluzione. A dire la verità, come Riccardo Staglianò, nel suo ultimo romanzo Al posto tuo. Cosi Web e robot ci stanno rubando il lavoro, edito da Einaudi, racconta non si deve andar troppo lontano per vederne gli effetti: basta andare in stazione a Cuneo a comprare il biglietto del treno alle macchinette (che non prendono i contanti, ma perché non prendono i contanti?). Gli sportellisti verranno sostituiti dalle macchine, gli operai verranno sostituiti dalle macchine, i call center verranno sostituiti dalle macchine. Verrà il momento in cui anche i cani saranno dei veri robot cosi almeno i bambini non saranno traumatizzati dalla loro morte.
I colossi dell’informatica puntano tutti sulla AI, intelligenza artificiale, così da poter dire di essere stati i primi a crearla e venderla a tutte le società come segretaria instancabile. Se pensate che questa idea sia ancora lontana, ricordo due fatti, di cui uno della mia infanzia: dalla pen-drive che funzionava da lettore musicale all’attuale smartphone sono passati solo 14 anni, neanche un lustro; durante la puntata di Report del 25 ottobre 2015 dal titolo rivoluzione 4.0, una società di programmazione aveva testato per 15 anni una AI capace di apprendere autonomamente dai propri errori, il quale, durante una chiamata reale con un utente, non è stato riconosciuto come programma, bensì come persona. Ora, senza fare i catastrofisti, non significa che il mondo si trasformerà in un Io robot dove il Will Smith di turno capeggerà una rivolta contro le macchine, bensì ci sarà il Will Smith di turno che capeggerà una rivolta contro il governo di turno, etichettato come incapace di prevedere ed attuare norme per contrastare questa rivoluzione. Il copione è sempre lo stesso, una nuova tecnologia entra in circolazione sostituendo personale umano, destabilizzazione sociale e rincorsa ad una nuova occupazione, si trova un equilibrio riscoprendo un lavoro che quella tecnologia non è in grado di sostituire o si crea una nuova esigenza nel mercato e la si soddisfa.
Dal momento che la macchina è in grado di fare lavori da operaio, c’è una rincorsa alla creatività e alla personalizzazione per poter sopravvivere. Le startup sono più improntate verso la risoluzione high-tech di problemi quotidiani che portano uno stipendio ad un numero minore di persone rispetto ad una fabbrica vera e propria, ma questo è naturale dato che per creare una azienda fisica bisogna avere capitali enormi con spese ammortizzabili dopo anni di attività sempre in positivo. Senza contare che se non si produce un prodotto nuovo e migliore rispetto alla concorrenza il positivo non si raggiunge, ma per far ciò ci vogliono conoscenze, anni di sperimentazione, il tutto concentrato in pochi anni poiché con la velocità e gli strumenti a disposizione tutti possono arrivare alle stesse conclusioni. Una lotta costante contro il tempo e contro tutti per il semplice pane quotidiano. Homo homini lupus direte voi, sarà sempre così, ma siamo arrivati al punto dove inizi a dire homo e già il lupus ti ha mangiato. Che fare di fronte a tutto ciò? Ti coalizzi, ovviamente, da soli non si può far nulla. Ecco il coworking che nasce, come le cooperative e le unioni aziendali. Queste sono le risposte che i miei occhi hanno visto crescere in questa epoca di transizione della quarta rivoluzione industriale. Come il telelavoro o lo smartworking. Comunque ciò che viene chiesto attualmente nel mondo del lavoro è avere competenze tecniche altamente specializzate che coprano più ruoli, così da prendere due piccioni con una fava. La vera risposta alla rivoluzione 4.0 è lo studio, sapere il più possibile. Inevitabilmente, però, a me sorge un dubbio: dato che il mercato del lavoro chiede sempre più tecnici specializzati per costruire e migliorare quelle macchine che andranno a sostituire i cosi detti “colletti bianchi”, chi non studia cosa andrà a fare? L’ennesima domanda da un milione di dollari a cui non so rispondere.
20 Settembre 2017 | Si può fare
In un’epoca in cui continuamente nascono imprese, start up e prodotti rivoluzionari, sembra che ognuno di noi possa sfondare con un progetto innovativo. Ma come nascono queste grandi idee?
“Avevo una studentessa di nome Jihae, che venne da me e disse: «Le idee più creative mi vengono quando procrastino.» E io: «Che cosa carina, dove sono i quattro saggi che mi devi consegnare?»”
Lo psicologo americano Adam Grant ha raccontato questo aneddoto durante il suo discorso in una conferenza Ted. Con l’obiettivo di dimostrare il fatto che non sempre chi ha idee originali e fonda imprese di successo è come ce lo immaginiamo.
Durante il discorso e nel suo libro Originals: how non-conformists move the world, l’autore illustra i risultati del suo studio, da cui sono emerse le principali caratteristiche delle persone innovative e creative. E forse non sono quelle che ci si aspetta, ma “a volte è grazie, e non malgrado quelle qualità, che hanno successo”.
Se credete di aver avuto una buona idea, ma di non essere la persona giusta per farla fruttare, forse è il momento di ripensarci.
La prima, appunto, è la tendenza a procrastinare. Gli “Originals”, racconta Grant, sono persone che iniziano in fretta, ma sono lente a finire. Quando abbiamo un’idea o iniziamo un progetto, il fatto di interrompere e rimandare crea una sorta di “incubatrice”. I pensieri restano attivi nel sottofondo della nostra mente, e ci diamo il tempo di valutare opzioni alternative, nuove, e potenzialmente migliori. E non pensiate che questo significhi per forza rischiare di perdere delle occasioni: è dimostrato che le imprese che propongono un prodotto nuovo, mai visto prima, hanno molta più probabilità di fallire rispetto a quelle che introducono un miglioramento di qualcosa che già c’è. Quanti di voi sono iscritti a MySpace, o a Friendster? Sono social network nati prima di Facebook. Eppure.
“Non hai bisogno di essere il primo, devi solo essere diverso, e migliore”. Diamo alle nostre idee il tempo di migliorare.
E diamoci il tempo di criticarle. La seconda caratteristica dei creativi sembra essere proprio il dubbio nei confronti della propria idea, nella sua accezione di spinta al miglioramento e alla ricerca. Durante lo studio dello psicologo è emerso che le persone che usano Firefox e Chrome hanno mediamente più idee originali di quelli che usano Safari o Internet Explorer. Pare assurdo, ma è questione di dubitare delle impostazioni che si trovano di default in un dispositivo, e cercare delle soluzioni alternative.
E se si può fare con il browser del computer, perché non con i propri progetti?
Dubitare, mettersi in discussione, ma mai sentirsi al capolinea. Il terzo aspetto che accomuna gli “Originals” sono i numerosi tentativi falliti. Statisticamente, in effetti, più carte si giocano, più è probabile che ce ne sia una vincente. Questa regola non vale sempre, ma sembra funzionare nel caso delle idee innovative.
Grant cita Thomas Edison e la lampadina, la sua rivoluzionaria invenzione nata dopo una serie infinita di pessime idee. “I più grandi creativi sono quelli che falliscono di più perché, in effetti, sono quelli che tentano di più.”
Se credete di aver avuto una buona idea, ma di non essere la persona giusta per farla fruttare, forse è il momento di ripensarci. Di smettere di ascoltare chi vi dice che studiando 200 pagine negli ultimi due giorni prima dell’esame non imparerete mai. O che non decidervi e modificare ancora quel progetto non vi porterà mai ad una conclusione. O che dopo tutti quei fallimenti, è ora di mollare. Mostrate loro questo video, e date spazio e tempo alla vostra originalità.
5 Luglio 2017 | Si può fare
“Tutte le rivoluzioni non si fanno a rischio zero”, Concita de Gregorio, durante l’intervista per la programmazione del servizio su Cuneo di Fuori Roma, non va per mezzi termini e ci dice subito le cose come stanno. ” Ciò che mi pare di aver compreso di voi cuneesi è che siete radicalmente legati alla prudenza, vivete in una isola felice e tendete a farla rimanere tale”. Non ha tutti i torti, le sue parole sono un bel fulmine a ciel sereno. Alla domanda ” raccontatemi un episodio della vostra vita nel quale avete rischiato per qualcosa” a dirla tutta non sapevo cosa rispondere. Beh, fondare un giornale cartaceo assieme ai miei amici a quanto pare non è abbastanza rischioso, quindi sono rimasto muto. Ho 22 anni, non ho ancora finito gli studi, per cosa devo rischiare? Devo dire, però, che questo fulmine ha fatto dei danni dentro di me. Ha innescato un continuo fluire di archi elettrici tra stomaco e cervello, uno dice all’altro”a stare fermi non si ottiene nulla”. Per cui immedesimato nello standard renziano di elettore del si mi sono fatto prendere dall’entusiasmo del momento e ho deciso di intraprendere il progetto di una mini-pala eolica. Ho scaricato diversi testi per completare la mia formazione sull’argomento e studi permettendo, cercherò di arrivare ad un progetto dettagliato. In tutto questa raccolta dati non è mai mancato il senso pratico e puntualmente, dando una prima occhiata ai titoli dei testi, la stessa domanda bussava alla porta: ma come la faccio diventare realtà? Ecco che compresi gli enormi ostacoli alla realizzazione, il peso grave delle moli di lavoro future. E se la mia idea fosse utile o rendesse più semplice la vita di qualcheduno? Cosa dovrei fare per saperlo? Dedico questo articolo a chi ha dei sogni nel cassetto, a chi si deve reinventare o creare poiché non ha ancora fatto nulla, sperando che vi sia utile almeno per comprendere quali sono i primi passi da compiere. Vestendo i panni di chi ha un progetto tra le mani, mi sono rivolto agli stessi promotori di questa rubrica, Ping, intervistando uno dei soci, Domenico Giraudo, proprio come se dovessi proporre loro il mio progetto di pala eolica. ( per chi non conoscesse Ping vi invito a leggere l’articolo di Anna Mondino sempre sul nostro sito)
Domenico Giraudo
Facciamo finta che questa sia la prima volta che ci siamo conosciuti e mi presento a te come una persona qualunque che ha una idea in mente. Saltando i convenevoli, ti presento la mia idea di pala eolica e ti chiedo come faccio a realizzarla. Tu cosa risponderesti?
Tutto dipende da che genere di idea si ha. Tutti credono che la propria sia la migliore in assoluto ma dimenticano che il mondo ha un passato e che siamo ,attualmente sulla Terra, circa 7 miliardi di persone. Ogni giorno vengono sfornate migliaia di progetti e centinaia di brevetti, le probabilità che altri abbiamo avuto la stessa intuizione sono alte come quelle che l’abbiano già realizzata. Per cui, innanzi tutto, si effettua una ricerca sui database dei brevetti nazionali e internazionali per capire l’orizzonte e lo sviluppo dell’ idea. Per farti capire vado a vedere tutte le pale di turbina o eoliche e verifico che la tua non sia già stata coperta da brevetto. Da ciò si può trarre due conclusioni, la prima è che se non ci sono riscontri sul database significa che o si ha avuto l’idea del secolo, o la propria idea non è realizzabile; la seconda riguarda la commerciabilità e l’esigenza del mercato, dato che, se sono pochi i brevetti, implica un ambito di nicchia e poca ricerca su quel campo. Sta di fatto che bisogna valutare la validità del progetto; appena valutato si può procedere nei passaggi successivi..
E quali sarebbero?
Beh, se la valutazione è positiva, la pala eolica diventa il centro di un business plan, in altri termini, non si può andare alla cieca senza avere in mente dove si vuole arrivare, quanto costa realizzare un prototipo, i fondi necessari per la produzione ecc. Si deve costruire la via da percorrere e purtroppo la sua pavimentazione è composta da denaro e conoscenze. Conoscenze che comunque bisogna pagare. O si è nel campo della progettazione e si conosce in primis tutte normative di sicurezza e di dimensioni, oppure si ha bisogno di un tecnico; a livello legale è necessario far riconoscere la propria idea e partire già con una deposizione di brevetto nelle situazioni che lo richiedono. L’iter è lungo, ma esistono luoghi come Ping, che sono in grado di dare una mano per costruire questo percorso.
Essere una startup agevola questo iter?
Essere una startup implica essere una impresa, ma non necessariamente è la via da percorrere. Concorrendo ai bandi europei e vincendoli ( per vincerli è necessario comunque un qualcuno che sappia interpretarli) si possono ottenere fondi e riconoscimenti a livello internazionale. Inoltre passare da acceleratori di impresa come noi significa andare in un luogo dove si può essere indirizzati a persone interessate di fronte a qualsiasi idea si voglia proporre, ma anche essere fermati prima che si spenda soldi inutilmente su progetti campati per aria. Chiunque voglia aprire una impresa, un locale, un emporio oggi va considerato come startup, non per forza deve essere associata solo alla tecnologia. Qui dentro accogliamo chiunque voglia fare un qualcosa e ha bisogno di una mano per partire. Ovviamente questo è un centro che offre un servizio, bisogna spendere e soprattutto rischiare per arrivare ad un risultato, ma questo non significa che siamo freddi nei confronti di chi ci chiede aiuto. Si può concordare una partecipazione nel caso l’idea piaccia, oppure ricevere finanziamenti dalla banca che ci supporta. Noi vorremmo aiutare, siamo nati per questo, ciò non toglie che sia necessario un auto sostentamento per poter continuare a dare una mano.
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Davide Ghisolfi
13 Giugno 2017 | Si può fare
Il duro lavoro ripaga sempre. Lo sanno bene, e ne stanno già raccogliendo i frutti, Alberto Dalmasso, Dario Brignone e Samuele Pinta, cuneesi di nascita, che lavorando per lungo tempo su una loro idea, sono riusciti a realizzarla grazie al loro carisma e talento. Di che idea sto parlando? Parlo di Satyspay, oramai S.p.A che si offre come nuovo metodo di pagamento elettronico, anche tra privati.
Mi sono sempre chiesto i motivi del loro successo, e ho deciso così di contattarli per un’intervista, che ho svolto a Milano nei loro nuovissimi uffici, dove sono arrivato carico di aspettative e felice come un bambino davanti ad un nuovo giocattolo. Appena entrato mi è tornato in mente il film Gli Stagisti con Owen Wilson e Vince Vaughn. Purtroppo, mancavano le poltrone-letto che tanto avrei voluto provare, date le poche ore di sonno. Tuttavia l’atmosfera di dinamicità e innovazione che mi ha trasmesso quel film l’ho rivissuta già dall’atrio. Davanti a me ho trovato una ventina di giovani al computer, che digitavano e nel frattempo mi scrutavano, tutto nello stesso momento.
Massimiliano Scrigner, che si occupa di Marketing & Business Intelligence nell’azienda e che ringraziamo per la sua cordialità e gentilezza, ha rotto subito il ghiaccio con un buon caffè, scortando me e Gabriele verso una delle salette riunioni. Ed è così che è iniziata questa intervista, con un caffè in mano e la sensazione di essere un pesce fuor d’acqua.
Mi imbarazza un po’ venire fin qui a Milano nella vostra sede per dirti che non ho ancora scaricato l’applicazione di Satispay. Per cui colgo l’occasione e ti propongo questa sfida, convincimi che sono in errore e devo rimediare al più presto.
Pensa a quando devi condividere una spesa con i tuoi coinquilini o devi fare un regalo in comune con i tuoi amici per un compleanno o una laurea. Raccogliere i soldi giusti è sempre difficile e finisce che pagano tutto in pochi per poi rincorrere i debitori. Con Satispay le cose diventano più semplici, dal cellulare puoi inviare i soldi in pochi secondi e non paghi la transazione. Non so, vai a fare aperitivo in un locale e, se è abilitato, puoi pagare comodamente da seduto senza il tramite di carte o codici da inserire. Inoltre non hai paura che non ti accetti il pagamento, diversamente dalle prepagate o carte di credito. Satispay è davvero comodo sulle piccole transizioni monetarie quotidiane, sei tu a fissare il limite massimo di soldi che puoi avere a disposizione ed ogni settimana automaticamente effettua un versamento o preleva dal tuo conto per ritornare alla soglia scelta. Lo troveresti tanto semplice quanto utile, soprattutto a Cuneo dove abbiamo una ottima collaborazione con il comune.
Attualmente non siete gli unici in Europa a portare avanti questi nuovi metodi di pagamento in moneta virtuale, cosa vi rende più competitivi rispetto alle altre start up?
Molte start up prendono le carte di credito, tolgono il supporto fisico e traferiscono il servizio sul cellulare. Secondo noi sbagliano poiché non c’è nulla di innovativo in tutto ciò. Il circuito in cui si muovono resta lo stesso delle carte ed è ancora quello vecchio degli anni ’50 che si porta dietro il retaggio dei costi e delle commissioni che non riesce a smaltire da sé, e che di conseguenza ricadono sull’esercente e sull’utilizzatore finale. Non c’è alcuna innovazione, inoltre se al bar prima non accettavano pagamenti con carta, anche se è sul cellulare il circuito è lo stesso, dove sarebbero i vantaggi? I fondatori di Satyspay hanno lavorato 2 anni per pensare al sistema di trasferimento di denaro in un circuito diverso da quello delle carte, che utilizza direttamente il proprio conto e codice IBAN per i trasferimenti. Non vi è alcun costo sull’utente, mentre l’esercente per i pagamenti dell’utente sopra i 10 € paga una commissione di venti centesimi. Inoltre anche l’attivazione per entrambi è gratuita e rimarrà tale per tutte le realtà a cui andremo incontro durante la nostra evoluzione. Questo ci permette di essere competitivi sul mercato.
Quindi siete convinti di potervi fare strada anche in Europa, giusto?
Lo spostamento della nostra sede legale (da Milano a Londra ndr) parla chiaro, l’internazionalizzazione è uno dei nostri obiettivi. Lo abbiamo fatto per avere gli strumenti per entrare nel mercato europeo per rientrare negli standard legislativi richiesti. Per cui è nato Satispay Limited, istituto di moneta elettronica con licenza concessa dalla FCA (Financial Conduct Authority, ente che ha il compito di regolamentare i mercati finanziari, fornendo servizi ai consumatori e vigilando sui mercati finanziari britannici) che ci permette di essere riconosciuti negli stati membri come metodo di pagamento sicuro. Anche se abbiamo fatto i compiti a casa, per quest’anno punteremo ancora sull’Italia, vogliamo essere presenti in più esercizi su tutta la penisola. Dopo di che si potrà già seriamente pensare di introdurci in Germania e Francia, paesi molto più simili al nostro per quanto riguarda la mentalità in fatto di moneta.
La comodità per i piccoli locali commerciali, come bar e ristoranti è fuori discussione. Per diventare un metodo di pagamento universale è necessario, però, interfacciarsi anche con i grandi Brand, le multinazionali e in generale grandi catene. Come affronterete il problema?
Ci stiamo già lavorando. Innanzitutto, l’esperienza della promozione di Satispay nei piccoli esercenti ci ha permesso di sviluppare e comprendere le esigenze dei clienti. Il problema principale delle grandi catene è che, avendo dovuto sviluppare casse standard da dare in dotazione ai propri esercizi per questioni fiscali e di contabilità, l’utilizzo della sola applicazione su cellulare non risultava efficiente. Abbiamo così iniziato a sviluppare interfacce software anche per i loro sistemi informatici, in modo che risultasse comoda l’acquisizione di denaro dalla vendita. Ora siamo in grado di poter offrire i nostri servizi per l’80 % dei sistemi di cassa principali sul mercato. Inoltre, ci stiamo muovendo anche nell’e-commerce, dove lasciando semplicemente il numero di cellulare sui siti convenzionati, il pagamento potrà essere svolto senza inserire codici di carte o passare da Paypal. Basterà dare conferma dall’applicazione e il gioco è fatto. Si potrà anche pagare i parcheggi direttamente dal cellulare o le corse in taxi. Il nostro sistema è talmente versatile che è adattabile a tutte le richieste.
Prossimamente sarà possibile effettuare le ricariche telefoniche con qualche click, direttamente dall’applicazione, tramite la piattaforma Paymat.
Avete mai avuto pressioni da parte di banche o colossi finanziari a causa della vostra idea? Data la vostra competitività starete rubando una buona fetta di mercato.
In verità no, non hanno alcun appiglio legale per impedirci di svilupparci. All’inizio le banche pensavano di poter elaborare un metodo innovativo per loro conto, basandosi sulla loro esperienza invece che sulla tecnologia. Dato che non ci sono riuscite, ora stanno facendo molta attenzione al nostro operato, contattandoci per possibili collaborazioni. Bisogna dire che, invece di ostacolarci, sono state anche le banche a darci dei contributi, come la Banca Alpi Marittime e Iccrea Banca.
Parliamo del sud Italia, state trovando difficoltà a diffondervi nel meridione?
Beh, fino ad ora non ci sono stati problemi. Nella maggior parte dei casi per diffonderci in una nuova città sfruttiamo l’iniziativa di una banca di credito locale. Come vedete dalla mappa degli esercenti (intende la foto che vi mostro qui sotto), sia a Bari che a Napoli abbiamo un buon numero di locali commerciali; come anticipato prima, per il 2017 il nostro obiettivo è lavorare bene in tutta Italia, siamo alla conquista di Roma e a poco a poco aumenteremo i pallini rossi anche in Sicilia ed in altre regioni del sud. In genere, ovunque la promozione della nostra attività viene incrementata riusciamo a diffonderci bene, che sia sud o nord.
Cosa ci riserverete per il futuro? Sarà possibile avere come soglia massima una cifra superiore ai 200 euro? Penso ai miei genitori che quella cifra la spendono in una settimana per sostenere le spese di tutti i giorni.
Vogliamo testare nel prossimo futuro diverse opzioni tra cui i pagamenti post datati e rateizzazioni attraverso Satispay dove noi ci facciamo garanti del pagamento. Con la stessa filosofia stiamo pensando anche ad una opzione di credito al consumo, ma sono tutte ipotesi a cui stiamo lavorando, come all’estensione della soglia massima. Adesso se si fa richiesta formale possiamo estenderla fino a 500 euro, ma non vogliamo che sia una opzione automatica per il momento. Sceglieremo un campione fidato e testeremo tutte le opzioni e poi si vedrà. Sta di fatto che ci stiamo avvicinando sempre di più ad una modalità di pagamento sempre più versatile ed efficiente.
Ultima domanda. Come sei entrato a far parte di Satispay? Come sono questi cuneesi rivoluzionari?
Io ho una storia un po’ particolare con loro, li ho conosciuti 4 anni fa durante una convivenza per qualche mese. Io lavoravo mentre loro avevano Satyspay ancora da far partire, era ancora solo un’applicazione su mobile, non avevano ancora fondi e non sapevano dove sarebbero andati a parare. Subito l’idea mi piacque, vedevo l’innovazione dietro la loro idea, diversamente dalle start up presenti in quei anni. Poi ci perdemmo di vista, fino a che non andai a continuare i miei studi a Torino. Lì li ritrovai con gli uffici di Satyspay e conoscendoli meglio mi innamorai del loro prodotto. In più un master sull’economia digitale mi fece capire che quella era la strada giusta per me e così eccomi qua. Loro sono eccezionali, hanno dovuto studiare molto, due anni di preparazione solo per l’applicazione. Ancora adesso certe volte fatico a capirli durante una riunione! Sono entrati in un mercato molto potente e ne sono usciti vincitori, ma per far ciò non si sono mai fermati davanti alle difficoltà ed hanno saputo aspettare.
Con la collaborazione di Gabriele Arciuolo
9 Giugno 2017 | Si può fare
L’invenzione della stampa risale, se si tengono in considerazione i metodi per la decorazione di tessuti, al II o III secolo d.C. Si hanno invece notizie della prima riproduzione di un testo su carta tra i reperti della dinastia cinese Tang, tra l’VIII e il IX secolo.
Da quel momento in poi, l’evoluzione della stampa ha accompagnato i secoli, passando da macchine a caratteri mobili e motori a vapore, fino ad arrivare alle cartucce a getto d’inchiostro e agli apparecchi laser. E fino all’avvento delle stampanti 3D, inizialmente sperimentate negli anni ‘80.
Il meccanismo più diffuso per “stampare volume” è detto produzione additiva: gli oggetti vengono creati sovrapponendo strati successivi di materiale, solitamente polveri metalliche, sostanze termoplastiche o filamenti plastici o metallici che vengono “srotolati” durante la stampa.
Inizialmente, l’ambito di impiego delle stampanti 3D è stato quello industriale. Questi strumenti possono infatti essere utilizzati per la realizzazione di prototipi in modo relativamente rapido e poco costoso. Immaginate ad esempio di poter stampare le componenti di un motore e di analizzarle, invece di osservarne la versione digitale al pc.
Negli ultimi anni però, la stampa 3D non è più un’esclusiva delle grandi aziende, ma è approdata in altri ambiti imprenditoriali, nel mondo sanitario e sociale, ed è utilizzata perfino a livello domestico. Può essere sfruttata per produrre qualunque tipo di oggetto (compatibilmente con le dimensioni della stampante), e il materiale stampato è fedele al progetto originale al decimo di millimetro, una qualità più che sufficiente per la maggior parte delle applicazioni.
E quindi ecco nascere decine di progetti basati su questa possibilità. La stilista olandese Iris van Harpen ha realizzato una collezione di abiti interamente realizzati con una stampante 3D. La Barilla prevede di sostituire con questo strumento le vecchie macchine per la pasta, tra l’entusiasmo di chi crede nell’innovazione e lo scetticismo di tutte le nonne d’Italia. Lo scorso anno i file di “Liberator”, una vera e propria pistola fai-da-te, sono stati diffusi in rete e scaricati da migliaia di persone in poche ore.
Oltre alle applicazioni in ambito artistico, dell’industria, della moda, la stampa 3D ha stuzzicato la fantasia del mondo della medicina, in cui si sogna di poter un giorno ottenere tessuti e organi da impiantare su pazienti per cui non ci sia la possibilità di utilizzare le tecniche tradizionali.
Sul nostro territorio, l’ “Incubatore-Acceleratore” di idee Ping (“Pensare in Granda”) mette a disposizione, in un contesto di Coworking (spazi di lavoro condivisi per la realizzazione di progetti e start up), una stampante 3D proprio nel centro di Cuneo.
Per darvi un’ispirazione rispetto ai modi in cui potete approfittarne, ecco alcune idee nate dalla possibilità di stampare in 3D.
Dal 18 al 24 Dicembre, a Lecce si è tenuta la mostra fotografica “Tu mi vedi?”. I soggetti raffigurati sono uomini e donne di tutte le età, ciechi e ipovedenti, fotografati in primo piano, con l’obiettivo di sfatare il cliché degli occhiali neri usati per nascondere lo sguardo. La mostra è aperta anche a persone con disabilità visiva, grazie alle opere realizzate proprio con una stampante 3D. Così, grazie all’idea del fotografo Silvio Bursomanno, gli stessi protagonisti della mostra potranno apprezzarla attraverso una restituzione tattile.
Open BioMedical Initiative (OBM) è un’associazione italiana, nata nel 2014 dall’idea di rendere più accessibili costosi strumenti biomedici. Come? Progettando modelli che si possano riprodurre con una stampante 3D.
Attualmente sono sul mercato tre prodotti. Il primo è WIL (Wired Limb), una protesi meccanica per la mano: viene azionata dai movimenti del polso del paziente, tramite un sistema di tiranti. È composta da materiali che sono a basso costo e facilmente reperibili, e tutte le sue parti possono essere stampate in tre dimensioni. Inoltre, nell’ottica di rendere questo ausilio il più possibile alla portata di tutti, tutta la documentazione necessaria è consultabile online.
Un altro tipo di protesi offerto dall’associazione è destinata a pazienti con malformazioni congenite o che hanno subito amputazioni. Si tratta di FABLE (Fingers Activated By Low-cost Electronics), una protesi elettromeccanica per l’arto superiore: gli impulsi mioelettrici prodotti dalla contrazione dei muscoli del gomito permettono di azionare l’ “arto meccanico”, e di ottenere anche i più precisi movimenti delle dita. Una protesi tecnologicamente avanzata e riproducibile ovunque, ancora attraverso lo strumento della stampa 3D.
Infine, OBM propone BOB (Baby On Board), un’incubatrice attrezzata per cure neonatali intensive. Anche in questo caso le carte vincenti sono i costi contenuti, le istruzioni di realizzazione consultabili on line e la possibilità di stampare tutte le parti che la compongono.
«Sappiamo di produrre dei prodotti che non sono al pari di quelli che costano dieci volte di più», ha dichiarato Bruno Lenzi, ingegnere tra i fondatori di OBM, nell’intervista di Ottobre 2015 a Start Up Italia. «C’è chi può permettersi la protesi da decine di migliaia di euro e c’è chi non può permettersela, la differenza è poter dare questa scelta. Una protesi tecnicamente inferiore, certamente, ma funzionale e, soprattutto, accessibile. Vogliamo dare gratuitamente un servizio a tutte quelle persone che non possono permettersi alcuna tecnologia».
Pembient è una start up californiana che ha visto nello strumento della stampa 3D un’opportunità di salvare alcune specie animali in via di estinzione. Sta infatti mettendo a punto la stampa di alcuni corni di rinoceronti, con l’obiettivo di lanciarli sul mercato per fare concorrenza a quelli derivati dalla caccia di questi animali. I primi corni sono prototipi di pochi centimetri, ma l’intuizione da cui sono nati può rivoluzionare il commercio e il destino di specie come rinoceronti ed elefanti.
A detta della start up, i corni sono stampati attraverso un programma basato sul codice genetico dei rinoceronti, e composti da cheratina, lo stesso materiale di quelli naturali. I corni stampati nel laboratorio Pembient sono quindi biologicamente identici a quelli che provengono dagli animali, e possono sostituirli per gli scopi per cui sono ricercati.
Oltre all’obiettivo ecologista che persegue, questa start up mostra la possibilità di intersecare le istruzioni di una macchina a quelle scritte nel codice genetico di un essere vivente. Se da un lato può spaventare, dall’altro apre sicuramente ad una serie di applicazioni che potrebbero, in un futuro non così lontano, rivoluzionare il mondo della medicina e il modo in cui ci curiamo.
La stampa 3D è stata commentata praticamente in ogni modo possibile. È stato detto che è un’invenzione geniale, una rivoluzione, e anche che l’umanità avrebbe potuto farne a meno. È stato detto che è la naturale evoluzione della stampa in due dimensioni, ma anche che rischia di stimolare la tendenza dell’uomo al “playing God”, a “giocare a fare Dio”. Probabilmente, come per ogni novità che ci è presentata, è troppo presto per trarre delle conclusioni.
È stata lanciata la provocazione secondo cui basta comprare una stampante 3D per creare una start up e avere successo. Ovviamente, questo strumento non stampa le idee, la voglia di mettersi in gioco, le porte in faccia che vanno sopportate. Ma fornisce un’opportunità che, unita alla vostra voglia di creare, può fare la differenza.