Flebo di fiabe

 Favola da fattoria

C’era una volta in Nonsocheluogo una grande fattoria abitata da un vecchio, un gatto ed un numero tanto elevato di galline che sarebbe bastato un incendio per sfamare l’ intero sabato del villaggio di Giacomo.

Il luogo si sarebbe dovuto chiamare gallinaio dato che non vi erano altri animali ma, poiché al vecchio non piaceva essere chiamato al paese con un nome contenente l’ immagine di quelle bestiole a lui antipatiche, si faceva chiamare fattore e la sua casa fattoria.

Essendo Colui che ci narrò tal novella amico del gallinaio, chiamò lui fattore ed essendo per la storia un dato irrilevante, parve a noi indifferente chiamare un gallinaio fattoria.

Anche se, par ingiusto ometter tale particolare, al paese il vecchiolo chiamavano fattore delle galline e la sua dimora fattoria delle galline.

Ma questo non sembra infastidirlo molto.

Quell’ uomo a forza di stare solo si era ammalato, ma non essendoci medico a Nonsocheluogo si era dovuto inventar il suo malanno.

Disse infatti un giorno a Colui, che narrò a noi, di patire di Zia acuta.

Fossimo degli psicoterapeuti potremo forse incolpar quel lutto della sorella del padre che lo colpì quando egli ancora era chiamato figlio e nipote, ma noi questo non siamo quindi ci limiteremo a riportare ciò che non trovammo sui libri di medicina: la Zia consiste nel credere di soffrire di ogni patologia finente per la sillaba zia.

Egli fu colto per convinzione dalla calvizia, dall’ avarizia, dalla balbuzia, dall’ idiozia, dalla scaramanzia, dalla sporcizia nei giorni dispari e dalla pulizia nei giorni pari ed il lavoro in giorni alterni di sporcarsi a fondo e nel ripulirsi a nuovo gli diede una grande stanchezza che lo portò all’ inerzia e questa alla pigrizia.

Quest’ ultima era una pessima dote per un uomo che aveva sposato il mestiere di custode di animali.

E dir che per una sola vocale egli sarebbe potuto essere affetto dalla costanza. Come è strana la favola, centinaia di lettere eppure ne sarebbe bastata una perché non venisse scritta e noi avremo potuto dormire questa notte.

L’ uomo se ne stava tutto il giorno a pulirsi e risporcarsi, balbettando parole idioti e ignorando completamente i lamenti delle sue bestiole.

Se solo avesse ascoltato quel co co minaccioso avrebbe capito che l’ ombra della protesta era vicina.

Le galline ogni giorno si radunavano attorno al grande contenitore del mangime sculettando come un esercito di signore con la borsa al braccio e gridavano al loro diritto di essere accudite, gridavano all’ ingiustizia.

Ma l’ ingiustizia faceva parte della malattia e così il vecchio non intervenne.

La protesta si limitava ad un forte co co o al massimo a metter 2 tuorli nello stesso guscio, erano galline che altro potevano fare?

Un giorno mentre il fattore era al paese per comprar del sapone, il gatto si accovacciò sopra il grande contenitore e miagolando si rivolse alle manifestanti:<Anch’ io son schiavo di quella malattia che colpisce il vecchio e tutte voi, son nero e per scaramanzia il padrone non mi si avvicina>.

Si mise a capo della protesta e convinse le galline ad un azione esemplare:<Insieme, facendovi forza l’ un l’ altra potete buttar a terra il gran contenitore, servitevi e diventate grasse come di vostro diritto>.

Elle allora, che mai avevano pensato tanto, si misero a spingere forte, becco contro sedere, sedere contro becco ed in un gran tonfo il mangime si rovesciò nel cortile.

Con co co di gioia si misero a banchettare allegramente riempedosi del sapor di vittoria.

La sera, quando il padrone tornò alla fattoria vide il contenitore rovesciato, spinto dall’ avarizia di dover comprare altro mangime, vinse la pigrizia, lo sollevò e lo richiuse.

Il giorno seguente ancora si formò il gran corteo e fu di nuovo il gatto a proporre l’ azione.

Le gallinelle infatti già avevano scordato la loro forza quando univano il becco al culo della compagna.

Erano galline ed hanno la testa troppo piccola per ricordare un potere tanto grande.

I giorni di rivolta ed i banchetti di vittoria si susseguirono fino a quando la fiaba si divise.

Colui non ricordava la conclusione più esatta allora le serviamo entrambe, a voi scegliere la più digeribile.

Secondo la prima versione le galline ingrassarono fin a diventare un boccone troppo appetibile anche per un gatto rivoluzionario che ad una ad una le mangiò stando ben attento a non ricordare loro che egli era ben più piccolo che un contenitore di mangime.

La seconda versione vuol invece premiare l’ arguzia del padrone, il quale essendo per patologia affetto alla diplomazia convocò a dispetto della scaramanzia il gatto concedendogli un pasto abbondante giornaliero se avesse abbandonato le galline al loro sfacelo.

Egli accettò ed in poco tempo le piumate volarono tutte in cielo tanto furono leggere.

La morale è la realtà:

Chi ha la forza di rovesciare l’ ingiustizia non si ricorda che già cento volte si è sfamato usando la tecnica becco culo, culo becco;

Diffida da chi ti guida se non mangia con te;

Il padrone non è altro che un vecchio idiota governato da una malattia chiamata Zia.

La Zia è una malattia oscura che si nasconde nei cuori di chi sale la scala che scende ai vertici del potere e guida chi, ammirato dal mondo intero, si sporca la coscienza per ripulirla con l’ innocenza di chi guarda muto o al massimo chioccia appena.

 

Qui si conclude la favola ma la luna è troppo piccola e lontana questa notte che, come il vecchio si è inventato la malattia, noi ci inventiamo la cura a tanto malumore, la morale è la realtà, ma è il sogno che annaffia lo sbocciar di questa conclusione.

Già in una qualche stalla, in mezzo ad una paglia che profuma di cambiamento, un piccolo pulcino nei suoi primi passi cinguetta giulivo: culo becco, becco culo, la faccia sporca di merda e il cuore puro.

E chissà che si riesca a non crocifiggerlo o a sparargli mentre sussurra di essere solo un pulcino prima che il mangime sia nel becco di tutti.

Samuele Ellena

Casa è mondo

Pasta, pizza e mafia. Per un australiano l’Italia è questo. Surf, barriera corallina e canguri. Per un italiano, invece, questa è l’Australia. Che si viaggi con l’intento di tornare, o con quello di restare, lo scambio è garantito. Londra è una capitale multinazionale: lingue provenienti da ogni angolo di mondo, fisionomie a ricordarci il valore della diversità, occhi che hanno visto chissà quali meraviglie, chilometri di distanza riuniti in una sola città.
Quartiere Soho, in un qualunque Starbucks, dipendenti indiani ti preparano il caffè. Sorridono e proponendoti un assaggio della famosa english breakfast, ti salutano con un “Buongiorno” dall’accento straniero. Anche se qui, il termine “straniero” quasi non esiste. Scendi in metro, ed ecco, una civiltà quasi disarmante: la moltitudine si muove senza intralciare nessuno, l’organizzazione non lascia spazi a ritardi, e la prevenzione corregge i guasti. Fuori dalla metro, due controllori di origine africana a testare il corretto funzionamento dei totem all’uscita. È immediato il paragone italiano: a Torino i controllori hanno paura degli immigrati neri che viaggiano sui pullman, tanto da venir meno al loro lavoro, non controllando i biglietti.
Quartiere di China Town, il cielo si fa rosso e a scritte cinesi sopra Londra. Una spagnola ci chiede di fargli una foto, favore poi ricambiato. Ci congediamo con un “Muchas gracias” e un sorriso, con direzione ristorante cinese. La cultura culinaria cinese, con la nostra mentalità italiana, poste in contatto dalla lingua inglese, da considerarsi patrimonio dell’umanità. In un comune McDonald londinese, incontriamo Giulia, che ci riconosce dai nostri discorsi in italiano, e che ci racconta un po’ di sé. Lei studia a Milano, vive a Londra; con il lavoro riesce a mantenersi da sola. È arrivata qui che non sapeva una parola di inglese, lo testimonia il fatto che ha tentato per dieci volte l’esame di inglese prima di passarlo. Qualche giorno di disorientamento, qualche settimana per adattarsi, e poi eccole, le radici. Non se ne andrà più via da lì. Così come Andrea, che lavora in coppia con il suo amico inglese in un Caffè nero, che riconosciamo dalla pronuncia di un inglese troppo scandito. E’ qui da qualche mese, ma è già casa sua. Giovani che con coraggio e un po’ di ingenuità, hanno deciso di trasferirsi all’estero, così come anche Emanuele, inserviente di un altro McDonald, che sogna in grande, ma per il momento, viene preso in giro da un gruppo di nigeriani che cena con hamburger e patatine. È un razzismo per noi inconsueto, che ci lascia stupefatti, perché in mezzo a tanta civiltà, ebbene sì, rimane ancora questa ignoranza, per fortuna sporadica, che fa credere inferiori i diversi.
La sera in ostello, a parlare con Josh, Tim e Troy, australiani di nascita, spiriti di mondo. Noi a sforzarci di capire il loro inglese stretto e ad esprimerci nel nostro inglese scolastico, e loro a farsi capire, parlando lentamente; perché ancora una volta l’inglese è il ponte, l’elemento comune di due civiltà, poste agli antipodi del mondo. Acquistato un camioncino, con dei soldi da parte, hanno viaggiato per tutta l’Europa, meravigliandosi della Sagrada Familia di Barcellona, dei paesaggi della Croazia, e avendo visitato più Italia di quanta ne abbia vista io. Siamo fortunati noi, dicono, che sappiamo parlare –a loro dire- due lingue, l’inglese e l’italiano, e che viviamo in Europa, il sogno di ogni australiano. Infatti Josh, pensa di trasferirsi proprio a Londra, perché in poco tempo potresti raggiungere qualsiasi città d’Europa. L’isolamento geografico dell’Australia, invece, costringe a ore di volo. Paradosso se penso che proprio questa voglia di mondo, si manifesta all’inverso nei sogni concretizzati di molti italiani: Alessandro che ci vive ormai da tempo, dirige un ristorante giapponese dove vi lavorano anche indiani, e Elena, interprete nell’ambasciata italiana australiana, insegna danza alle bambine.
Ritorni in Italia, e incontri un’amica, di ritorno da un viaggio di volontariato in India, dove a far da ponte non può essere l’inglese, parlato da un piccola parte di popolazione, contrariamente al comune pensiero, ma la propria umanità: un bacio di un bambino, uno sguardo di diffidenza, un gesto di gentilezza, l’adattarsi a costumi diversi. Lo stupore e la meraviglia, circondati da una completa mancanza di parole, che esprimono tutto.
La voglia di scoprirsi è la migliore comunicazione tra diversi. Il coraggio di partire è la più efficace opportunità. Spegnere il cellulare è il miglior modo per entrare nel mondo.

Giornalismo: missione verità

Non siamo soli. Concretamente parlando, nessuno è solo. Viviamo in un contesto sociale che ci obbliga a confrontarci con l’altro. E il confronto è d’obbligo anche con il mondo in cui siamo inseriti. Che lo vogliamo o meno, siamo tutti animali sociali, con un intrinseco desiderio di curiosità, che si lega in maniera quasi indissolubile alla nostra volontà di sapere tutto ciò che concerne le cose del mondo. Questo è il giornalismo.

490 a.C.: l’uomo sembra nuovo nel mondo, benché ci sia da sempre vissuto. La democrazia, la filosofia, la geometria. La cartografia con terre mai viste, il timore dei mari, il coraggio di attraversarli. Il nuovo modo di esserci dell’uomo lo fa sentire diverso. La volontà di comunicarlo non è attenuato dai limiti imposti dai mezzi. Così gli uomini hanno iniziato a correre. Ma non sapevano fino a dove sarebbero arrivati.

Atene ha appoggiato alcune colonie della Ionia insorte al controllo dell’Impero Persiano. All’Imperatore, questo, non sta bene. L’esercito persiano si prepara all’attacco. Ordina a Dati e ad Artaferne di organizzare le truppe per attaccare Atene. Le flotte salpano nel Mediterraneo, sottomesse le isole Cicladi ed Eubea, approdano sulle coste della città di Maratona. Sulla terra ferma giungono voci dell’imminente invasione, ma niente panico: l’esercito greco si organizza e accerchia il nemico che fugge, ma non si arrende. Prossima mossa: cogliere di sorpresa Atene, priva di ogni difesa, ora che l’esercito è a Maratona. Lo stratega Milziade, capo delle milizie greche, intuisce la trappola, supera il nemico ed anticipa la sorpresa. Lo sconfigge. Il soldato Fidippide viene incaricato di annunciare la vittoria, ad Atene. Corre per 44 km, tutti d’un fiato. Giunto alla Polis pronuncia la celebre frase “Nenikèkamen”, ovvero Abbiamo vinto. In seguito, secondo la leggenda di Plutarco risalente al I secolo a.C., confermata poi da Luciano di Samosata il secolo successivo, muore per lo sforzo.

Fidippide non aveva carta, nè inchiostro. Ma aveva gambe e fiato. E qualcosa da dire.
fidippide

La corsa non si è arrestata a Maratona. Duemilaquattrocentotrentatrè anni dopo, nel settembre del 1943, le notizie percorrevano altre strade. L’umanità aveva compiuto passi da gigante, attraverso le scoperte e le invenzioni delle rivoluzioni industriali. Venne inventata la prima locomotiva a vapore, nacque la fotografia, venne brevettato il telefono di Bell, il fonografo di Edison, vennero studiate le onde radio grazie a Marconi. Ma mentre una parte del mondo si abituava a queste novità, un’altra parte a forma di stivale resisteva alla guerra e vedeva la luce in una flotta che stava per approdare alla costa tirrenica.
sicilia sbarco

Il generale Clark, a capo della Quinta armata americana, sbarca a Salerno. Le truppe devono riunirsi con quelle britanniche già sbarcate in Calabria qualche giorno prima, capeggiate dal generale Montgomery. La Sicilia è già libera. Le prime battaglie sono vittoriose per l’esercito alleato. Ma i successivi scontri con il portento tedesco, guidato dal maresciallo Kesselring, lo mettono in difficoltà. Un aiuto aereo-navale rinvigorisce le file americane: i tedeschi sono costretti alla ritirata negli Appennini. Si chiama Operazione Avalanche quella che dovrebbe far abbandonare il territorio Italiano dall’esercito tedesco. Nello stesso giorno, la stessa Salerno, viene bombardata. La popolazione si nasconde nei rifugi antiaerei; unico contatto con il mondo esterno, la radio. “La Nazione vuole con la pace la sua indipendenza e il suo riscatto” scrive l’Unità a seguito dell’inaspettato armistizio annunciato da Pietro Badoglio via radio al popolo: l’Italia non è più in guerra. Ma la guerra non è ancora finita.

Non c’erano i computer, né tantomeno il web, ma avevano carta, inchiostro e radio. E sicuramente qualcosa da dire.

Dopo i grandi cambiamenti che hanno trasformato il modo di vivere la quotidianità, le macerie della Seconda Guerra Mondiale hanno fornito le basi per la più grande rivoluzione umana e civile mai vista prima: ora a cambiare è il modo di vedere il mondo. Dagli orrori dei massacri si sollevano nuovi concetti, diritti ed ideali, che modificano il pensiero, il modo di comunicare e quello di ascoltare. Eppure, ancora nel febbraio 2015, alcune menti rimangono incatenate a pericolosi chiodi fissi. La finestra sul mondo di milioni di persone dà un’immagine immediata e trasparente di cosa sta succedendo in Siria: la guerra civile.

“Esercito contro ribelli. Sunniti contro sciiti. Curdi contro islamisti. Islamisti contro cristiani e contro ribelli. E, infine, briganti contro tutti. Esplosa dopo le rivolte del 2011, la guerra civile siriana ha in sé diverse guerre, con fronti sempre nuovi e cruenti.” Scrive Barbara Ciolli per il quotidiano online Lettera43.

In Siria convivono arabi con aramei arabizzati, curdi con armeni e turchi, che comunicano, principalmente con l’arabo, ma anche con il curdo, l’armeno, l’aramaico e il circasso. Si somma a questa molteplicità culturale, un crogiolo di divinità: il 64% degli abitanti è sunnita, il 26% è alauita e drusa, il 10% è cristiana, e ci sono piccoli gruppi di ebrei e comunità di correnti sciite. Un mosaico tenuto insieme a forza per troppo tempo, destinato a crollare sotto i colpi delle bombe, dei mitragliatori e dei carri armati. La guerra dimenticata dai notiziari occidentali continua a fare vittime: secondo uno studio pubblicato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani a febbraio 2015 si stimano più di 200.000 vittime, di cui un terzo civili. Sono 4 milioni i Siriani sfollati, 2 milioni e mezzo quelli fuggiti nei paesi confinanti.
Stop war

Inviati speciali, statistiche e dati, foto e filmanti. Una connessione internet, e l’informazione si moltiplica. Raggiunge tutti. Forse anche chi non vuole sapere. Il mondo insiste a parlare. Le guerre hanno qualcosa da dire. Oggi lo fanno attraverso le nuove piattaforme tecnologiche che rendono sempre più semplice l’atto dell’informarci.

Notizie in tempo reale. Non ci sono limiti spaziali né temporali. Chiunque può sapere di dovunque. Interviste, immagini, documentari. Direttamente dall’altra parte nel mondo, in un attimo nelle nostre case. I miracoli tecnologici del ventunesimo secolo, pur senza avere nulla di divino, ci permettono di restare collegati con il mondo in qualsiasi momento. Perché il mondo ha sempre qualcosa da dire. E i fatti, descritti, riportati, fotografati o filmati, parlano da soli, per mezzo delle parole di chi li vive, li osserva, li ricerca.

Novità, testimonianza, comunicazione. Il giornalismo nasce dalla volontà di aggiornare, informare, rendere partecipi sugli avvenimenti che accadono in tutto il mondo i quali devono quindi essere comunicati basandosi su un criterio di assoluta verità, secondo una descrizione e una dinamica fedele ai fatti. Il giornalismo continua a vivere grazie a tutte quelle persone che continuano ad esprimere la volontà di essere aggiornati ed essere coinvolti, o più semplicemente, sono spinti dalla curiosità. “L’unico compito di un giornalista – dice infatti Anna Politkovskaja – è scrivere quello che vede”. Perché il giornalismo si basa sul rispetto dei fatti che riporta. Fa suoi pilastri la coerenza e l’oggettività. Condanna ogni tipo di falsità, annebbiamento o bugia. È il mezzo attraverso il quale le notizie raggiungono le persone. Devono essere riportate con obiettività, imparzialità, completezza e correttezza, di modo che l’individuo possa fare le proprie considerazioni e possa prendere una posizione. I giornalisti hanno la responsabilità di diffondere, quindi, il vero. Un lavoro di importanza fondamentale, nel mondo di oggi, pieno di opinioni contrastanti, punti di vista e apparenza che rischiano di farci distogliere lo sguardo dalla verità, e di farci credere in qualcosa che in realtà non è. Rischiamo di credere ad una menzogna, stando a contatto quotidianamente con così tante possibilità di deviazione. Solo una sincera analisi dei fatti può farci maturare una veritiera coscienza del mondo. La realtà, avulsa da qualsiasi interpretazione, è una sola. Per questo motivo i fatti parlano da soli, per mezzo delle parole dei giornalisti, che sono chiamati a rispettare questo vincolo di verità, assioma fondamentale che sigilla il loro operato.
A volte può non risultare così semplice: ogni giornalista è un individuo a sé stante, con una storia alle spalle, che l’ha portato a sviluppare certe sfumature, ad avere proprie inclinazioni e posizioni. Tutte queste differenze che rendono variopinta l’umanità, potrebbero risultare un ostacolo all’obiettiva narrazione degli avvenimenti. Infatti la difficoltà consiste nel discernere tra fatto ed interpretazione. Difficoltà che si supera però, se ci si sforza di osservare la realtà senza avere pregiudizi negli occhi, e considerando che il fatto è uno solo, ma che le interpretazioni invece sono tante quante le infinite personalità.

Dicono che il futuro dell’editoria, dell’informazione e della scrittura sia ormai oltre la carta stampata, relegata ai giornali online, ridotta entro i moderni 140 caratteri. Caratteristiche proprie della futura comunicazione sarebbero la brevità e le parole chiave, ognuna splendente attraverso i cristalli liquidi di un computer. Mi chiedo se il futuro non sia già qui: circondati da computer, smartphone e tablet, siamo sempre più aggiornati sulle vicende del mondo nel momento in cui accadono, ci sentiamo sempre più cittadini universali, con la convinzione che la nostra opinione, che il nostro hashtag, abbia un peso rilevante sulla bilancia del mondo.

La rete comunicativa di cui siamo unità fondamentali ci rende attenti, svegli, e sensibili ad ogni nuovo stimolo esterno.

7 gennaio 2015, Parigi: un gruppo di terroristi irrompe nella redazione di Charlie Hebdo e uccide 12 persone. “Je suis Charlie Hebdo”: il mondo dei social reagisce e si coalizza. Il lato positivo della questione è che la tecnologia di oggi fa emergere una solidarietà disarmante tra paesi e persone distanti, ma il rovescio è che è incerta la sua attendibilità. Più solidarietà, a discapito forse della consapevolezza.

L’opinione comune è quella di credere che la carta stampata sia destinata a scomparire, supportata dai dati che tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi.

Viviamo in un’era in cui abbiamo sempre più cose da dire e lo spazio per farlo acquista potenzialità infinite sul web: qui non ci sono nemmeno più limiti di carta. Inoltre fondare un giornale online è molto più semplice che creare dal nulla una nuova testata cartacea.
giornalismo-contemporaneo

Tutto sembrerebbe portare a pensare che il futuro del giornalismo abbia luogo sul web: non solo negli anni il numero dei giornali esclusivamente online cresce sempre più, ma anche le testate più famose affiancano ormai al cartaceo una loro piattaforma digitale. Inoltre aumenta ogni anno il pubblico che si rivolge al web per essere aggiornato: secondo l’Istat nel 2011 il numero di persone che ha dichiarato di leggere i giornali online è salito al 25,1%, con un aumento di circa il 5% rispetto all’anno precedente, e con un picco che si riscontra tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni che tocca il 45,1%. Secondo alcuni dati raccolti dalla FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali), tra il 2013 e il 2014 il numero di giornali cartacei venduti ha subito un calo di circa l’11%.

Il futuro del giornalismo è determinato da un pubblico che a piccoli passi procede verso un mondo sempre più nuovo: tali percentuali cresceranno sempre più. La modernità dei mezzi tecnologici che si diffonderanno in ogni fascia d’età, il ricambio generazionale e i costi sempre più difficili da sostenere per mantenere lo stampato condanneranno forse il cartaceo, nonostante il suo indiscutibile valore, all’estinzione.

Non stiamo vivendo una crisi dell’informazione, ma un momento di transizione, che vede evolvere il modo di comunicare.

Gambe e fiato, carta e inchiostro, filmati e web. La comunicazione è un arte che nel corso dei secoli è cambiata e continuerà in futuro ad evolversi. Ma la costante che accomuna ogni epoca è che si basa sui fatti, sui dati, sulla verità.
Ci sono poche cose che non cambiano nella storia del mondo e una di queste, come diceva Hegel è che “Nulla al mondo è stato fatto senza il contributo della passione”.
E il buon giornalismo ha come motore propulsivo l’amore per la verità, facendosi portavoce dei fatti così come sono, senza esprimere giudizi, ma solo smascherando i mille bluff delle coperte carte in tavola della realtà. Il giornalismo ci fa giocare ad armi pari.
Possono cambiare gli uomini, i mezzi e la tecnologia con la quale esprimiamo il nostro comunicare. Ma il nocciolo della questione è e rimarrà sempre uno: la ricerca della verità.

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