La storia di Lola, in equilibrio tra Italia e Albania

Mentre parlo con Lola mi viene in mente la canzone di Jovanotti “Pieno di vita”. Lei sembra l’incarnazione di queste parole: è piena di vita.

Ha 22 anni e vive a Cuneo da 11. Vorrei fare un sacco di cose ma sono finita a fare la cameriera e mi sono persa, mi dice. Adesso ha davanti a sé le tanto spaventose quanto allettanti infinite possibilità che il futuro le può offrire. Forse farà l’università, forse tornerà in Albania per fare qualcosa.

Il suo italiano è impeccabile. Mi racconta che l’ha imparato grazie ad un professore delle scuole medie che portava lei e sua sorella in biblioteca e lì, insieme, provavano a leggere e a scrivere. Un uomo che ha silenziosamente costruito un futuro migliore per loro.

Lola è sia la quiete sia la tempesta. È sia la neve che cade veemente in inverno sia la ragazza che la ammira da dietro la finestra al caldo di una coperta e di un tè nero fumante. È tranquilla e vivace allo stesso tempo. Le piace parlare: racconta e si racconta facilmente. Però non mi parla di lei, ma dei suoi genitori. Ed io la ascolto.

Mio padre ha conosciuto mia madre a Tirana, la capitale dell’Albania, e si sono sposati quando mia mamma aveva 22 anni e lui 24. Mia mamma è rimasta incinta di Silvana, mia sorella, nel ‘92 e mio padre aveva deciso allora di aprirsi un negozio per mantenere la famiglia. Il negozio però non andava bene, i miei erano pieni di debiti e allora mio padre ha deciso di partire per la Grecia. Ci è andato a piedi. Ha lavorato qualche mese là ma poi è ritornato.
Nel ‘94 sono nata io e nel ‘96 ha deciso di venire in Italia. Ci ha provato tre volte prima di farcela. Una volta lo hanno dato per morto perché non dava sue notizie da tre giorni e allora, siccome molti erano morti cadendo in mare, hanno pensato che fosse morto anche lui. Mia mamma si era rassegnata all’idea di dovercela fare da sola con due figlie: all’epoca io avevo due anni e mia sorella quattro. Mia mamma mi racconta sempre che un giorno stava pulendo il cortile di casa e stava innaffiando i fiori quando ha visto mio padre entrare e, sconvolta e felice, gli ha detto: “Ma tu sei qua?”e lui non capiva! Poi gli ha spiegato che lo avevano dato per morto perché si era saputo che tantissime persone erano cadute in acqua e non erano riuscite a risalire a bordo.
Mio papà ha deciso che ci avrebbe provato un’ultima volta, e se fosse andata male sarebbe rimasto in Albania provando a fare qualsiasi lavoro, anche se era molto difficile mantenere una famiglia con gli stipendi albanesi.
I miei erano proprio poveri, ma non solo i miei, proprio tutti lo erano, non c’era nulla da mangiare se non le verdure dell’orto. Allora papà ha preso in prestito dei soldi da mio nonno – mille euro, che all’epoca erano tantissimi – ed è riuscito ad arrivare in Italia. È sbarcato in Puglia: ce l’aveva fatta! Una volta arrivato lì però non aveva nessun posto dove andare, quindi dormiva nelle cabine telefoniche oppure nei parchi all’aperto, anche se era inverno. Andava alla ricerca di lavoro in cambio di un po’ di cibo. Non pretendeva dei soldi perché non sapeva l’italiano, voleva solo riuscire a cavarsela mentre imparava la lingua.
Qualche mese dopo ha incontrato un signore che gli ha dato una casa, del cibo e un lavoro: guardava delle capre. Questo signore, di cui ora non ricordo il nome, gli ha detto: “Se lavori con me e sei onesto ti aiuto con i documenti”.
Dopo un po’ di tempo mio papà è dovuto tornare in Albania per dichiarare di essere andato in Italia come clandestino, di aver trovato lavoro e di non voler più tornare in patria. Nel ’98 mia mamma è rimasta incinta di mio fratello Bledi, ma mio papà l’ha visto solo dopo 5 mesi dalla sua nascita perché quando è nato lui non poteva lasciare l’Italia. Quando è riuscito a venire in Albania, è rimasto poco, solo un mese, come sempre, tanto che io non lo riconoscevo mai: mia mamma mi doveva dire “Guarda che è tuo papà!” e allora mi ricordavo di lui. Invece con mio fratello è stato più difficile perché non lo riconosceva proprio e pensava che suo padre fosse mio zio perché abitava di fianco a casa nostra. Allora mia mamma gli spiegava che il papà era un altro, che non rimaneva con noi perché andava in Italia a lavorare per darci da mangiare.
Nel 2000 mio papà ha preso i documenti italiani. Per 5 anni veniva in Albania per 3 mesi, poi il resto dell’anno lo passava in Italia per lavorare. Quando tornava non ci diceva niente, perché non sapeva neanche lui cosa dirci: magari noi stavamo giocando e lui entrava dicendo: “Non salutate papà?”.
Non immagini le lacrime.
Bledi è quello che ha sofferto di più, tanto che una volta gli ha detto: “Se te ne vai di nuovo, non tornare più, perché io voglio un papà con cui giocare come fanno tutti i bambini qui”.
Da quando mio fratello ha pronunciato quella frase, mia mamma ha preso la decisione: o tutti in Italia o tutti in Albania.
All’inizio mio papà non voleva che venissimo qui perché aveva paura che non ci saremmo trovati bene, che non ci saremmo adattati alla vita italiana. Mia mamma gli ha detto: “O veniamo o ti lascio”.
Così il 17 ottobre del 2005 siamo arrivati a Milano, in aereo, perché avevamo i documenti.
Da allora la nostra vita è cambiata.

È un racconto di vita tanto incredibile quanto tangibile: sono spiazzata. Me lo ha raccontato tutto d’un fiato, con gli occhi che brillavano quando nominava i suoi genitori e gli sforzi disumani che hanno dovuto e voluto compiere per dare un futuro migliore ai loro figli.
Intuisco che anche Lola racchiuda in sé questa forza incredibile. Infatti:

Sai cosa vorrei fare? Non prendermi in giro però. Sai che qua in Italia ci sono molte associazioni che aiutano le persone in difficoltà? Ecco, in Albania non ci sono o comunque ce ne sono poche. Io quando sono andata là quest’estate sono rimasta sconvolta. In centro Tirana era pieno di bambini di 3 o 4 anni tutti sporchi che chiedevano l’elemosina: a me si è stretto il cuore.
Una volta mi è successo questo: c’era un signore in strada senza una mano ed una gamba e le persone intorno lo prendevano in giro invece che aiutarlo. Sono andata a prendere da mangiare, mi sono seduta con lui e lui mi ha raccontato la storia della sua vita.
Mio padre subito mi ha detto: “Tu non sei mia figlia!”. Poi, quando gli ho raccontato la storia, si è  pentito e ogni giorno in cui passavamo di lì, io gli portavo pranzo e cena. Quando me ne sono andata dall’Albania sono andata ad abbracciarlo e tutti intorno mi guardavano strano. Non capivano. Non capiscono.
Per questo vorrei “fare qualcosa” per gli altri, per dare un pasto a quei bambini e alle persone come lui.

Lola è un esempio di silente carità. È stata circa un mese in Albania e non passava giorno senza che lei non portasse un panino caldo ed una bibita alle persone che incontrava per la strada. Anche il giorno del matrimonio di sua sorella, mentre si stavano recando verso il luogo della celebrazione.

Credo che molto dipenda dal suo essere altruista, ma forse questo prendersi cura dell’altro è tipico del suo stesso popolo.
Mi racconta infatti che adesso gli albanesi stanno ospitando e nascondendo i profughi provenienti dal Libano o dalla Siria che tentano di raggiungere il nord Europa a piedi.

Anche mia nonna li ha ospitati.

Quando c’è stata la guerra del Kosovo la mia bisnonna aveva ospitato molti profughi. Aveva costruito in casa sua una stanza sotto terra per nasconderli. In Albania c’è un particolare concetto di ospitalità che si chiama “kanu”, cioè a te non può succedere niente se sei a casa mia perché sei sotto la mia responsabilità. Ad un certo punto la mia bisnonna stava ospitando 20 kosovari, ma l’avevano scoperto ed erano andati a casa sua per prenderli. Lei si era messa in mezzo e aveva detto: “Se volete uccidere qualcuno, uccidete prima me perché loro sono a casa mia e io non ve li lascio prendere”. E i soldati se n’erano andati.
Adesso che arrivano profughi dal Medio Oriente li nascondono ovunque e poi magari li portano fino alle frontiere: cercano di aiutarli per come possono. Probabilmente lo fanno perché sanno com’è.

Questa è Lola, raccontata brevemente. Una ragazza in bilico, o forse in equilibrio, tra i suoi due paesi.

Qui in Italia sei sempre straniera, anche se non te lo dicono, ma comunque te lo fanno capire. Il brutto è che anche quando torni in Albania in realtà sei straniera perché non è che dicono: “Guarda è arrivata Lola”, ma dicono: “ È arrivata l’italiana”. Insomma, ti trovi quasi senza una patria.

 

Comunicazione modifica programma evento “Alla ricerca di…”

L’Associazione culturale 1000Miglia comunica che, a causa di motivi personali di Domenico Quirico, il programma dell’evento subirà le seguenti modifiche.

Durante la prima iniziativa, “Alla ricerca di…un confronto”, che si terrà venerdì 20 maggio 2016, ore 20.45, Teatro Cinema Don Bosco, interverranno Elsa Fornero (Università di Torino), Paolo Silvestri (Università di Torino) e Franco Chittolina (Apiceuropa).

La seconda iniziativa, di sabato 21 maggio 2016, “Alla ricerca di…un’ispirazione”, delle ore 15.30 presso la Sala Einaudi del Centro Incontri della Provincia di Cuneo non subirà modifiche.

Le modifiche al programma saranno disponibili sulla pagina internet di 1000Miglia dalle ore 19 del 18 maggio 2016 https://www.1000-miglia.eu/evento-alla-ricerca-di-cuneo-maggio-2016/

La redazione di 1000Miglia

Quello che il pianoforte a Porta Nuova mi ha insegnato

Non so quanti cuneesi capitino, più o meno abitualmente, nella stazione di Torino Porta Nuova. Immagino che, tra studenti e lavoratori pendolari, universitari fuori sede, liceali che cercano i fatidici “saloni dell’orientamento” per capire cosa fare della propria vita post-diploma, viaggiatori vari ed eventuali, molti di voi si siano accorti della presenza di un pianoforte. Nell’atrio, di fronte all’ingresso della metropolitana, in quello spazio che, per chi arriva a Torino in treno, rappresenta un po’ la porta d’accesso alla città.

E chiunque può sedersi e suonare.

Un pianoforte è di per sé poetico. Crea quell’atmosfera piacevole e armonica, dà l’idea che tutto sia nel posto giusto. E forse, semplicemente, questo basta per mitigare il caos frenetico della stazione, fatto di corse, annunci di ritardi e imprecazioni, persone da salutare e biglietti da comprare ad una macchinetta che porca miseria non dà resto.
Ma non è solo l’incontro tra armonia e caos, a rendere speciale un pianoforte in una stazione. Perché se ti fermi ad ascoltare chi suona, o anche solo dai un’occhiata mentre passi di fretta, ti rendi conto che sono moltissime le cose che quel pianoforte ha da dirti.

Innanzitutto, la musica che senti passando ti ricorda che, solo perché hai preso il treno delle 6.54, e stai andando a lezione, e hai decisamente troppo sonno per farlo, non significa che al mondo esistiate solo tu, il treno delle 6.54 e l’aula in cui ti rinchiuderai. C’è un mondo fuori da tutto questo, e la prova che quel mondo c’è sta nel fatto che qualcuno, a quell’ora del mattino, si è seduto a suonare. 
Ma se per qualche mattina, oltre ad ascoltare la colonna sonora che qualcuno ti sta offrendo, lanci uno sguardo a quel qualcuno, ti accorgi che spesso a suonare è una persona che, se l’avessi incontrata per strada, mai ti saresti immaginata seduta ad un pianoforte. E allora ti scrolli di dosso quello stereotipo (e forse, anche qualcuno degli altri) del pianista elegante e raffinato, con il frac e i guanti bianchi, e rimani incantato da quel clochard, o da quel ragazzo con la cresta e la giacca di pelle, e dalle loro mani che corrono sui tasti.

Che corrono, o che inciampano. Ecco un’altra cosa che ha da dire il pianoforte  di Porta Nuova. Oltre ai tanti che stupiscono perché suonano, con totale disinvoltura e senza spartiti, qualunque cosa, da Beethoven ai Coldplay, ci sono anche persone che si avvicinano timide, e sfiorano qualche tasto a caso, o provano Fra Martino. Li senti, e sorridi, se come me non ti intendi di musica, perché sai che tu non avresti mai il coraggio di farlo, chissà perché. Ma forse sorridi anche se ti intendi di musica. Perché una persona che si lancia senza paracadute in qualcosa, eroica o banale che sia, conquista la nostra simpatia. 

Ma il dono più grande che il pianoforte fa alla stazione di Porta Nuova, è accorciare il tempo. O meglio, dare alle persone uno strumento per farlo. Sciopero delle ferrovie. Arrivi in stazione, cerchi sul tabellone il tuo treno pregando che non sia stato cancellato. Il treno dovrebbe partire tra due minuti, ma il binario non è ancora indicato. Compare “5′” nella colonna “ritardo”. Poi 10′, poi 20’…poi scompare tutto, sostituito dalla scritta “CANCELLATO”. Ma tu ormai te lo aspettavi. Ti siedi e aspetti.

L’ultima volta che mi è capitato, un ragazzo suonava “Can you feel the love tonight” al pianoforte. Mi sono fermata, rassegnata ad aspettare un’ora sperando nel treno successivo, e intanto intorno al pianoforte si era creato un piccolo gruppo di persone. Il pianista continua con tutte le canzoni Disney che ricordo, e quando attacca “Let it go”, una ragazza aspetta che le prime note le diano coraggio, poi si alza e inizia a cantare. Più tardi, chiacchierando, ho scoperto che il pianista è un medico indonesiano e sta seguendo un master a Torino, e la cantante viene della California, ha un tatuaggio del Re Leone e sta lavorando in Italia come baby sitter. Un’altra ragazza si alza, chiede al pianista se conosce una canzone, e la musica ricomincia. Il piccolo pubblico canticchia con lei, chi a bassa voce, chi “facendo il coro”. Il treno dell’ora dopo è cancellato, e anche quello dopo ancora. Ma intanto si alternano pianisti e cantanti, e un po’ del mio nervosismo se ne va. Chiacchiero con chi si trova nella mia stessa situazione, mi chiedono di dove sono, cosa faccio nella vita, la ragazza californiana e la sua amica mi dicono che il prossimo weekend andranno alle Cinque Terre e mi offrono di andare con loro.

Arrivo a casa alle nove di sera. «Sì mamma, c’era sciopero. Avevo finito lezione alle quattro, e sono stata tre ore a Porte Nuova. Ma è stato meno peggio del previsto.». Il pianoforte ha fatto, ancora una volta, una piccola magia.

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