31 Ottobre 2018 | Segnalibro
L’Italia negli anni Settanta ha vissuto una delle fasi più nere della sua storia: gli anni di piombo costituirono un periodo di aspri scontri politici e di attentati improvvisi tra la gente comune, che generarono un terrore generale e di lunga durata: “non si era mai del tutto felici, anche innamorati, mai veramente lontani, anche nuotando al mare, mai interamente concentrati, anche studiando”. Così ricorda quegli anni Gianni Riotta, che scrive la prefazione di Treno di panna, romanzo d’esordio di Andrea De Carlo. E Treno di panna, uscito nel 1981 (ma già pubblicato in inglese con il titolo di Creamy train), all’epoca sorprese totalmente il pubblico italiano: una storia così diversa, così piena di speranza, così luminosa rispetto al buio di quella che Franco Fortini chiamò “la falsa guerra civile”.
Il romanzo racconta di Giovanni, un giovane italiano venticinquenne che decide di partire per Los Angeles apparentemente per andare a trovare i suoi due amici, Ron e Tracy. In realtà, il ragazzo resta in America e dopo diverse vicissitudini trova lavoro prima come cameriere di un ristorante italiano, fidanzandosi con la cassiera Jill, e poi come insegnante madrelingua in due scuole private della città. Presto la famosa e giovane attrice Marsha Mellows diventa una sua allieva, e Giovanni se ne innamora follemente. È proprio la passione per la sua studentessa che scuote finalmente il protagonista da quel torpore che il lettore percepisce fin dall’inizio della vicenda: Giovanni infatti si limita a fare il minimo indispensabile per sopravvivere in città, vivendo come ospite prima a casa dei due amici e poi a casa di Jill e cercando lavori di fortuna tramite curricula inventati.
Per di più, il ragazzo sembra osservare la realtà di Los Angeles dall’esterno, senza viverci veramente dentro: tramite i suoi occhi, il lettore vede una città brulicante e piena di aspettative verso il futuro, affamata di successo e notorietà. Lo stesso De Carlo ha trascorso un certo periodo della sua vita a Los Angeles insegnando italiano, proprio come Giovanni, e ciò gli ha permesso senza dubbio di tracciare un quadro dettagliato della metropoli. Accanto allo sguardo disincantato del ragazzo emerge paradossalmente e allo stesso tempo uno sguardo minuzioso: infatti il protagonista ha la passione per la fotografia, e girovaga per Los Angeles fotografando dettagli apparentemente insignificanti: “il dettaglio di un’automobile, il particolare di un abito, il frammento di un gesto frettoloso”. Si tratta dello stesso occhio del primo De Carlo, che Calvino aveva precocemente notato, parlando della sua “acutezza dello sguardo”.
Come l’incipit della storia, il finale descrive un panorama notturno di Los Angeles, un turbinio di luci nel “lago nero” della notte. È un finale aperto, denso di possibilità future: si legge tra le righe il brivido positivo e tutto giovanile dell’incertezza del futuro.
Ci si potrebbe giustamente domandare: perché Treno di panna? Che relazione ha il titolo del romanzo con tutta la vicenda? Si tratta del titolo inventato del film che Marsha Mellows aveva girato a Venezia nel 1971, durante il quale aveva conosciuto il suo attuale marito, l’attore Arnold Bocks. Il film lega allora Giovanni con Marsha per diversi motivi: l’attrice utilizza un quadernetto per le lezioni di italiano che aveva comprato proprio durante quel viaggio in Italia, ma non solo. Dice ad un certo punto il protagonista: “la vera cosa strana era che Treno di panna era il primo film di Marsha Mellows che avevo visto in vita mia. A pensarci mi riusciva abbastanza difficile respirare”. Nel libro non si esplicita mai veramente la vicenda che veniva raccontata nel film, ma metaforicamente si potrebbe pensare che “treno di panna” stia ad indicare proprio l’atteggiamento generale della città di Los Angeles: la determinazione e la speranza paragonate ad un solido treno che corre veloce, in una dimensione tuttavia sempre sognante, dolce come la panna. E proprio questo approccio alla vita, che alla fine viene adoperato anche dal protagonista, influenzò enormemente i letterati italiani di quegli anni, tanto che Gianni Riotta scrive: “era il mondo della nostra maturità, il futuro. Salimmo sul treno di panna, guardammo il tramonto della guerra fredda e lo sbriciolarsi dei suoi muri assassini e diventammo adulti”.
27 Giugno 2018 | Segnalibro
*Foto di Rita Abrardi
Lingua Italiana e scuola. Non è stato sempre tutto come oggi (o forse sì).
Nel 1965, in una lettera al «Giornale del mattino», Don Lorenzo Milani – allora poco più che quarantenne e attivo nella scuola popolare che aveva allestito a Barbiana, borgo sperduto vicino a Firenze – scriveva: «chiamo uomo chi è padrone della sua lingua».
Negli anni Sessanta in Italia si doveva fare i conti con una scuola linguisticamente mista, in cui l’Italiano veniva imposto secondo i paradigmi della grammatica standard a chi era cresciuto immerso dalla testa ai piedi in un contesto di parole e contenuti diversi: il dialetto. È difficile immaginarlo oggi, ma per molti, allora, l’Italiano non era che una lingua straniera, a cui la scuola però, chiedeva di avvicinarsi non attraverso una lenta correzione della coloritura dialettale, ma per mezzo di un’imposizione dall’alto che finiva, molto spesso, per distinguere, all’interno dall’élite studentesca dei parlanti-nativi italiani, i somari, espulsi o in fuga dalla scuola (il cui obbligo, nel 1962, era stato alzato a 14 anni).
Uno di questi studenti “manchevoli” scrisse:
«Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo.
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. […]
Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: “Non si dice lalla, si dice aradio”.
Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola.»
La voce di queste parole è quella di un imprecisato ragazzo della scuola di Barbiana, che parla coralmente a nome anche dei suoi compagni di classe. Il testo è Lettera a una professoressa, a cura proprio di Don Lorenzo Milani, che si pose a difesa del diritto dei bambini figli di operai e contadini (che per la prima volta accedevano alle Scuole Medie) di “possedere la lingua”, per essere padroni del proprio pensiero e capaci di rapportarsi a quello degli altri. Non è l’unico: in questi stessi anni è attivo, tra il sottoproletariato romano, Don Roberto Sardelli; i suoi alunni denunciano: «Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali».
Milani e Sardelli costituirono uno scandalo nella scuola del tempo, pionieri di un modo di pensare il diritto ad essere uomo tramite la lingua che molto ci insegna anche oggi. Oggi che, in non pochi istituti, la studio della Lingua Italiana sembra da ridimensionare a favore delle materie più “professionalizzanti”; oggi che la presenza di nuove minoranze linguistiche – straniere di prima o seconda generazione – ci mettono di fronte alla sfida di insegnare una lingua che sia strumento di integrazione e acquisizione di un potere comunicativo che è la base di ogni relazione.
C’è chi, non troppi anni fa, ha dovuto lottare per poter accedere alla lingua comune, nel rispetto delle proprie peculiarità (fonte di ricchezza che il dialetto, dove si conserva, ancora oggi ha). Qualcuno allora aveva capito il potere anti-reazionario insito nel “dare la lingua” a tutti, anche ai «poveri», perché potessero avere i mezzi per far parlare la propria umanità: «i signori ai poveri possono dare una cosa sola: la lingua cioè il mezzo d’espressione. Lo sanno da sé i poveri cosa dovranno scrivere».
Anacronistico parlare di poveri e ricchi nella scuola di oggi? No, tutt’altro: una giovane studentessa, non molto tempo fa, mi ha detto: «so bene – me lo dicono tutti – che frequento la scuola peggiore della città»; e nei suoi occhi c’era quello che non deve esserci negli occhi di una quattordicenne: la rassegnazione di fronte alla debolezza delle proprie prospettive. Ma, di fronte ad una lavagna ricamata di grammatica italiana, gli occhi si accendevano di curiosità.
Possedere la lingua è il primo passo. Poi si saprà dare un nome a quelli successivi.
25 Marzo 2018 | Segnalibro
31 maggio. Ultimo incontro della prima edizione del Caffè letterario di 1000miglia.
Protagonista: Marco Vichi. Il suo personaggio più amato? Il commissario Bordelli, protagonista di nove dei suoi libri. L’ultimo, quello di cui parleremo noi, è Nel più bel sogno.
Siamo a Firenze negli anni dei movimenti studenteschi. Siamo nel tempo della memoria di quanto accaduto e delle promesse confuse di quanto sta accadendo. In questo tempo, l’ironico Bordelli conduce le sue indagini su tre omicidi misteriosi, e nel frattempo – come tutti – indaga su se stesso e sui suoi desideri.
«Di fronte all’immensità di quel cielo si sentiva eroicamente solo, di una solitudine infinita… Non poté fare a meno di sussurrare due versi di sua mamma… Tanto tempo che non guardavo le stelle… mi ero scordata di essere niente».
25 Gennaio 2018 | Segnalibro
A. COLONNELLO, Alda merini, la poetessa dei Navigli, Meravigli Edizioni, Firenze 2015, pp. 140, 15 €.
In 21 brevi capitoli, Aldo Colonnello racconta le vicende intercorse negli anni della sua amicizia con la poetessa Alda Merini, conosciuta nel novembre del 2006 e venuta a mancare tre anni dopo. Tra numerosi incontri culturali, la candidatura al premio Nobel, le frequenti telefonate giornaliere e le apparizioni televisive, ciò che davvero prende forma tra le pagine è una parte di una vicenda esistenziale che tocca le corde più profonde dell’umano e del rapporto dell’uomo con il Divino e la Poesia.
In manicomio ho conosciuto l’Amore (-dolore)
Colonnello, nell’impresa di raccontare della Merini, si rivela uno scrittore abile e onesto. Nessuna complicazione: i temi che davvero contano risuonano nella mente e nel cuore del lettore in cammino tra pagine che – più di ogni altra cosa – esalano DOLORE umano.
Se «la Poetessa, nella sua difficile e meravigliosa esistenza, ha avuto una lunga frequentazione con il dolore» (p.103), è al dolore altrui che soprattutto ha scelto di guardare. In che modo? Facendosene carico sempre, in nome di una fratellanza che ci fa artefici del destino degli altri, promotori del loro bene o colpevoli del loro male.
«Colpevoli tutti del disagio e della sofferenza altrui […]. Colpevoli, tout court, senza ripensamenti.
Gli altri siamo noi, ogni simile in ambasce deve riguardarci, deve essere nel nostro destino.
Questo Alda lo sapeva perfettamente, lo aveva imparato in Manicomio.» (p. 42)
La Fede – «Il poeta bada a se stesso in rapporto agli altri»
Gli ultimi anni dell’esistenza di Alda Merini furono vissuti all’insegna di un intenso misticismo: ad essere amata è soprattutto Maria (nel 2002 viene pubblicato Magnificat, un incontro con Maria), al cui destino di madre dolente sente di partecipare anche la Poetessa, che tanto ha amato le sue figlie pur nella follia e nella reclusione. Aldo Colonnello dona al lettore un ritratto toccante degli ultimi anni di una vita (che è poesia, e viceversa) percorsa da una bruciante spiritualità, filtrata dall’esperienza di una Passione lancinante e personale.
«Si cantava anche sotto le torture, anche quando si soffriva atrocemente, per sopravvivere. Quel filo di voce lo regalavamo non tanto alla vita, ma a Dio, che era presente quando noi soffrivamo nei manicomi, nelle galere, sotto il giudizio dell’uomo: non certo il giudizio di Dio.»
(tratto da un’intervista ad Alda Merini, reperibile al link https://www.youtube.com/watch?v=wYgDSr3gWUc)
Rasoi di seta
La vicenda raccontata da Colonnello è principalmente una storia di amicizia, quella tra lui e la Merini, ma anche quella tra la poetessa e tanti artisti, politici e intellettuali del panorama culturale di quel periodo. Proprio negli anni che Colonnello ci narra, la Merini collaborò con il cantante Giovanni Nuti, che mise in musica i componimenti della Poetessa e diede vita ad un album intitolo Rasoi di seta (ascoltate Il bacio qui https://www.youtube.com/watch?v=iBmHo3OppYs), frutto, come questo libro, dell’elevazione ad Amico che la Poetessa concesse a chi, negli ultimi difficili anni, seppe ascoltarla e darle voce.
«Tu mi domandi quanti amanti ho avuto
e come mi hanno scoperto.
Io ti dico che ognuno scopre la luce
e ognuno sente la sua paura,
ma la mia parte più pura è stata il bacio.
Io tornerei sui monti d’Abruzzo,
dove non sono mai stata.
Ma se mi domandano
dove traggono origine i miei versi,
io rispondo:
mi basta un’immersione nell’anima
e vedo l’universo.
Tutti mi guardano con occhi spietati,
non conoscono i nomi delle mie scritte sui muri
e non sanno che sono firme degli angeli
per celebrare le lacrime che ho versato per te.»
(tratto dal brano Il bacio, in Rasoi di seta)
Aldo Colonnello collabora da molti anni con una galleria d’arte milanese, organizza mostre e cura direzioni artistiche sia nell’ambito del teatro che in quello della musica. Responsabile del Dipartimento arte e cultura di un’associazione culturale cittadina, organizza convegni di alto profilo.
24 Dicembre 2017 | Segnalibro
Sono molti ad approfittare delle vacanze di Natale per regalarsi una buona lettura. Se siete tra questi, cercate un angolo abbastanza caldo e morbido della vostra casa, e concedetevi il tempo del riposo: il riposo della mente.
Ecco dieci libri che vale la pena leggere – o iniziare – durante le feste natalizie.
1. Il paradiso degli orchi di DANIEL PENNAC
Il tempo quieto e sereno delle vacanze invernali ben si presta alla scelta di approcciarsi non ad un libro qualsiasi, ma al primo di un intero ciclo di romanzi. Questo è infatti il primo dei sette appartenenti alla celeberrima serie di Belleville, iniziata nel 1985 da Pennac. Impossibile non affezionarsi ai personaggi, fiabeschi e veri più del vero.
2. Se una notte d’inverno un viaggiatore di ITALO CALVINO
È un consiglio obbligato, perché è un classico, perché le parole di Calvino sanno carezzare la fantasia anche dei lettori più insaziabili, e perché il romanzo esordisce così:
«Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. […]. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. […] Prendi la posizione più comoda; seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. […]»
3. L’identità di MILAN KUNDERA
Dello stesso autore dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, questo libro del ’96 tocca corde profondissime, grazie ad una storia d’incanto e eleganza. Nelle sue pagine Kundera riesce nell’incredibile intento di trasformare in parola ciò che delle relazioni umane è più difficile esprimere.
4. Il tempo è un Dio breve di MARIAPIA VELADIANO
Consigliato a Natale perché, in tanti diversi modi, parla d’Amore.
5. L’inventore di sogni di IAN McEWAN
Consigliato a tutti quelli che cercano una lettura veloce, ma che sazi. Si tratta di un racconto per ragazzi – ma che serve anche alla fantasia degli adulti! – che percorre i sogni di un bambino sfuggito alla noia grazie all’immaginazione.
6. Cronache di poveri amanti di VASCO PRATOLINI
C’è chi della lettura ama soprattutto questo: l’intrecciarsi delle vicende, l’incastrarsi rocambolesco delle vite di personaggi, a cui diventa inevitabile affezionarsi. Se è il vostro caso, questo libro della prima metà del secolo scorso può fare per voi.
7. Don Chisciotte della Mancia di MIGUEL DE CERVANTES
Quale momento migliore delle vacanze per iniziare ad approcciarsi ad un classico assoluto? Questo è un esempio, ma seguite l’istinto: il catalogo è vasto!
8. Fango di NICCOLO’ AMMANITI
Ecco quello che ci serve se vogliamo fare una scelta sui generis; non solo perché si tratta di una raccolta di racconti – di cui il primo, particolarmente calzante, s’intitola L’ultimo capodanno dell’umanità –, ma soprattutto perché questi sono tutti lancinanti e spaventosi.
9. Amore e Psiche di Apuleio
Per chi ha fretta, ma ci tiene alla sostanza: pochissime pagine per fare un salto nella cultura classica, scegliendo una storia d’amore appassionante e sempre moderna. Questa piccola chicca è destinata ad essere divorata in meno di un’ora.
10. Storie delle stelle di SUSANNA HISLOP (illustratrice: HANNAH WALDRON)
Chiudiamo con un testo eccezionale, spiritoso e pronto ad appassionare il lettore curioso: si tratta di un atlante delle costellazioni che racconta le storie delle stelle con il piglio del narratore più incallito, grazie al quale i brevi racconti si fanno avvincenti, ironici, coinvolgenti. Tra storia e mito, il lettore – come è giusto che avvenga nelle vacanze di Natale – viene portato a guardare in alto, dove «le storie hanno avuto inizio» e, dove ci sono le stelle a dare ascolto alle nostre domande.
Buone letture amici di 1000miglia!
25 Novembre 2017 | Segnalibro
IMPASTATO, Oltre i cento passi, Edizioni Piemme, Milano 2017, pp. 203, € 17,50. Illustrazioni di Vauro
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Andare oltre i cento passi attraverso la lettura di questo libro significa tante cose: significa assistere ad una rappresentazione di un Peppino Impastato più uomo e meno mito cinematografico; significa scoprire quello che è avvenuto dopo che Peppino è stato ucciso, la notte tra l’8 e il 9 maggio 1978; significa leggere di toccanti congiunture: perché la storia di impegno di Giovanni e Felicia – fratello e madre di Peppino – ha incrociato tanti mondi, dallo sport alle realtà religiose, dalle scuole ai gruppi musicali; significa, infine, toccare con mano l’immane servizio realizzato dal Centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato e dall’associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, grazie a cui «oggi Peppino è un patrimonio nazionale».
Le duecento pagine e i numerosi disegni di Vauro ci consegnano (o riconsegnano) alcuni insegnamenti di Peppino. Perché nel contemplare un mito si sta immobili, ma nel conoscere un uomo si cresce, si impara, ci si mette in movimento.
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Lo schiavo
La prima lezione che Peppino e Giovanni ci lasciano ha a che fare con ciò che è famiglia. Ci riescono così bene perché sono nati e cresciuti nel nido caldo della mafia; e così, quando hanno iniziato a ripudiare la criminalità, non hanno dichiarato guerra ad un male straniero, ma ad una colpa covata dentro le affettuose mura domestiche.
«Ecco: Peppino voleva bene a suo padre in un modo diverso, drammatico. Rompeva con lui per liberare anche lui.»
La madre
Celeberrimo il discorso sulla bellezza che Marco Tullio Giordana fa pronunciare a Peppino nel film I cento passi. Non si tratta di un dato veritiero, né realistico; ma mentre scopriamo quali di quelle parole non avrebbero mai potuto stare sulla bocca di Peppino, acquistano vigore quelle in cui il giovane credeva veramente: la natura, seconda meravigliosa madre dopo Felicia, è scrigno di bellezza, materia di rivoluzione.
«Anche oggi occorre mostrare alla gente che vive insieme a noi, ovunque ci troviamo, cos’è la bellezza di un paesaggio […].Le grandi battaglia di civiltà e di democrazia si combattono così e Peppino lo aveva capito bene.»
L’artista
C’è un Peppino che incanta per la luce che emana: quello che tra una lotta e una manifestazione, (e l’organizzazione di un ballo, un carnevale o un cineforum) guarda alla vita con l’animo nostalgico di un poeta. E scrive, consegnandoci altra bellezza e la consapevolezza che l’arte è uno spazio – l’ennesimo – di verità.
«La biografia di Peppino è la biografia di un giornalista, sì, di un attivista, sì, di un militante, eccome, ma è anche la biografia di un artista.[…] Andatevi a leggere le sue intense poesie: la voce bellissima di una profonda solitudine in cerca d’amore.»