“In Quelle Tenebre” di Gitta Sereny

Un viaggio nelle profondità del male

In Quelle Tenebre (Into That Darkeness, 1974) è un testo ancora poco conosciuto ma fondamentale per chi si interessa di fenomenologia del Male: si tratta di un volume che mette insieme la lunga intervista condotta, tra l’aprile e il giugno del 1971, dalla giornalista di origini ebraiche Gitta Sereny a uno dei comandanti del campo di sterminio nazista di Treblinka, Franz Stangl, detenuto nella prigione tedesca di Düsseldorf dal 1967. Sebbene il racconto della tragedia dei campi di sterminio sia ben delineato, il fulcro dell’intervista risiede nell’analisi della psicologia di un carnefice. Non si tratta di un carnefice qualunque: il male perpetrato ai danni dei prigionieri dei campi nazisti è, nell’immaginario europeo, il Male per eccellenza, il Male con-la-emme-maiuscola. Il solo campo di sterminio di Treblinka produsse circa un milione di morti e si contano solo settanta sopravvissuti. Per renderci conto del numero, le vittime corrispondono agli abitanti di Torino e cintura, mentre i superstiti sono persino meno del numero di studenti che possono sedersi in una sola delle aule delle nostre università.

Le domande che spinsero la Sereny a interfacciarsi con questa difficile esperienza furono: come può la coscienza di un essere umano convivere con la consapevolezza di essere stato parte di tale massacro? Com’era possibile che Stangl si commuovesse per la foto di un gattino, che fosse un padre amorevole e un buon marito e che contemporaneamente coordinasse l’organizzazione di un luogo tanto atroce?

Sono, a nostro avviso, le stesse domande che spingono gli appassionati di true crime a seguire documentari, podcast e libri sui serial killer più temibili. L’interesse per la biografia, ma soprattutto per la psicologia di assassini come Ted Bundy, Jeffrey Dahmer, John Gacy e altri ancora è infatti un diverso contesto in cui calare lo stesso studio sulla fenomenologia del Male. Anzi, riteniamo che sia stata proprio la tragedia dei campi di concentramento a scatenare l’interesse e l’inquietudine verso questo tipo di personaggi, definiti – a livello collettivo – “mostri”, ma inevitabilmente e scomodamente appartenenti alla razza umana.

L’umanità del secondo dopoguerra realizzò, dopo un lungo periodo di oblio, di essere capace di azioni a dir poco raccapriccianti. Questo spinse, e spinge ancora oggi, a voler indagare quel male e chi lo ha compiuto. A muovere tutto ciò è dunque la volontà di conoscere il Male per esorcizzarlo? Oppure la sete di conoscenza deriva dal più sinistro desiderio di dimostrare la distanza tra questi soggetti e noi “persone normali”, per dimostrare in maniera paradossale che queste persone non appartengono all’umanità?

Il volume di Sereny dà implicita risposta a entrambi gli interrogativi, in una discesa nelle tenebre di una figura complessa, la quale risultò talmente scossa dall’esperienza, da morire d’infarto solo poche ore dopo il termine dell’ultima giornata di interviste, il 28 giugno 1971

Proponiamo questo volume in occasione della Giornata della Memoria 2024 che, pur con tutte le complicazioni che l’odierno conflitto tra Israele e Palestina comporta, deve continuare a essere celebrata, proprio perché la tragedia dei campi e della guerra è un trauma non ancora superato e con pericolosi risvolti sul presente. In altre parole, ricordare non significa parteggiare o meno per un determinato schieramento dell’odierna guerra, ma significa riconoscere le colossali proporzioni dell’impatto che Shoa e Seconda Guerra Mondiale hanno avuto dal 1945 ad oggi. Per concludere, laddove Eric Hobsbawm aveva definito il Novecento “the short century”, il secolo breve (iniziato con la Prima Guerra Mondiale e finito, secondo lo storico, con la caduta del muro di Berlino), rileggiamo il Novecento come un secolo che ancora sconfina nel nuovo millennio.

 

Franz Stangl a Treblinka con indosso la giacca bianca che lo contraddistingueva, ricordata da diversi sopravvissuti. Foto presa dal libro
Franz Stangl durante le interviste, primavera 1971. Foto presa dal libro

Avere vent’anni tra feste e bombe

Ci sono un sacco di feste. 

È una delle prime cose che ho pensato iniziando a leggere. Ma L’incendio di Cecilia Sala è molto di più. È un racconto corale straziante e verissimo che si pone l’intento di narrare la storia attraverso la vita di ragazzi che stanno diventando adulti, che stanno cercando di capire chi sono in alcune delle aree più calde del mondo: Iran, Ucraina e Afghanistan. Cecilia Sala – giornalista de Il Foglio, reporter di guerra e voce del podcast Stories – ci porta in un viaggio attraverso tre incendi che bruciano il mondo, con lo sguardo di una generazione. La sua generazione. La generazione dei ventenni. Un reportage di incontri, fatti e conversazioni dove la festa ha a che fare anche con la guerra. Perché la festa ha a che fare con la vitalità e quindi in qualche modo anche con la guerra. “Fare festa è un modo di conoscere le persone in un senso non stereotipato”, dice Cecilia. 

L’intreccio tra fatti storici e narrazioni personali aiuta a entrare in diretta negli incendi che stanno devastando queste popolazioni e riguardano anche il nostro futuro. Si inizia con l’Iran, dove i rave nel deserto sono celebri. Il clero e il governo li conoscono e li tollerano da decenni. Tra le violenze e le proteste ci sono feste di musica techno dove la droga è molto più facile da trovare che il gin. Per gli ayatollah i ventenni iraniani sono la generazione perduta che ha innescato una protesta senza precedenti. Tra le figure di questa generazione troviamo Sadira che vive a Teheran e fuma sigarette rollate, parla quattro lingue e vuole lavorare per il suo governo al ministero degli Esteri, anche se lo detesta. Poi c’è Forouzan che ha i capelli ricci, studia elettronica ed è stato uno dei primi a scrivere dappertutto il nome di Masha Amini, ragazza uccisa perchè indossava male il velo. Questo fatto ha scatenato un’ondata di proteste inedita, condivisa anche da Nabila: campionessa di kick boxing, giovane donna lesbica ma fedele alla Repubblica Islamica, che ha definito “un’onta collettiva” la morte di Masha Amini. Poi c’è  Masoumeh Ebtekar, una donna colta, la più potente dell’Iran; ai cui occhi occidentali colpisce che per viaggiare fuori dal paese ha ancora bisogno dell’autorizzazione scritta di suo marito, che conta meno di lei. Lei a Cecilia ha risposto: “non riesco a capire come facciate a emozionarvi tanto per la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti nel 2021, Kamala Harris, quando qui io sono stata vicepresidente per la prima volta nel 1997”. 

In Ucraina, invece, le feste sono in locali sotterranei di Kyiv collegati con tunnel a luci viola. È qui che Cecilia si incontra con Kateryna, che le ripete che non vuole vivere sotto il peso di questa minaccia rimandando tutto, preferisce affrontarlo e manifestare la sua idea di libertà piuttosto che vivere nel mondo delle verità capovolte. Le storie dei giovani ucraini ci parlano di una generazione che non apprezza Zelensky come comico e quasi mai gli ha dato il suo voto, perché lo riteneva un «megalomane approssimativo» che non conosceva nulla della Storia dell’Ucraina né tantomeno dei suoi rapporti con Mosca. L’Ucraina è un paese più digitalizzato dell’Italia e i ventenni che lavorano nel settore tech sono tanti. Tra questi c’è Vova che non ha mai finito gli studi ma ha creato un’app per smartphone che permette a tutti di partecipare a piccoli cyber-attacchi contro siti russi. Dice: “Noi portiamo in Russia una guerra più contemporanea e senza spargimenti di sangue: una guerra di nervi”. 

Infine c’è l’Afghanistan. Un paese dove i ventenni che sono nati lì e hanno costruito la loro vita, lo hanno fatto su un modello incompatibile con quello dei talebani. Come Zarifa Ghafari, che da grande voleva fare la politica, questo prima del fatidico 2021. A 24 anni è la sindaca più giovane del paese a Maidan Shar. Tutti i giorni per andare a lavoro passa su una strada controllata da talebani e il suo autista preme sull’acceleratore. Il suo motto: “ far studiare una classe di ragazze vuol dire salvare dieci generazioni di afghani”. Ci sono donne magistrate che hanno messo in carcere i talebani che fino all’agosto del 2021 erano dei terroristi, quando sono risaliti al potere per loro è stata la fine. Così come anche le donne che hanno chiesto il divorzio, vendute da bambine, sono state riconsegnate ai loro aguzzini. Una cosa che non sapevo e mi ha colpito molto è che in Afghanistan c’è una fiorente industria cinematografica e la televisione locale trasmette il cartone Burka Avenger in cui una ragazzina, grazie al suo burqa, diventa invisibile e può combattere contro un politico locale che vuole far chiudere la scuola. In questo modo geniale gli autori si sono dati la possibilità di insinuarsi con successo anche nelle case e nelle famiglie più tradizionaliste, non sembrando una minaccia ma essendo di fatto una minaccia.  

Con questo libro Cecilia Sala ha mostrato ancora una volta la sua capacità di adottare un punto di vista abbastanza neutrale, lasciando che siano i fatti a raccontare la storia. Frasi brevi, stile narrativo preciso e coinvolgente che smorza un po ‘ i toni sensazionalistici a cui siamo abituati dai giornali. Conoscere da più vicino questi giovani cittadini del mondo, i loro sogni e le loro speranze mi ha fatto allargare il mio piccolo orizzonte. Mi ha fatto capire che in fondo, sì, viviamo vite lontanissime in contesti diversi ma forse siamo anche piuttosto simili: siamo giovani che cercano un posticino nel mondo. 

Quando si parla di generazione perduta io, in realtà, nell’entusiasmo inspiegabile di questi ventenni ho percepito solo tanta voglia di trovare una strada nuova.  



I miserabili di Victor Hugo

“ …e in quel suo tragico sguardo vi era qualche cosa che arieggiava dell’impossibile e il riverbero d’un paradiso chiuso “

Dalla parte V, libro VI, capitolo IV, L’attrazione e l’estinzione  

 

Sicuramente un libro molto denso, sia per lunghezza (che personalmente non mi ha pesato, anzi!), sia per temi. Diverse parti sono estremamente descrittive e possono risultare pesanti, ma senza esse, Hugo non sarebbe stato in grado non solo di creare suspense, ma soprattutto di fornire il quadro a 360° di tutte le vicende raccontate: chi legge “I miserabili”, penetra i margini delle pagine e vive a pieno ogni singolo evento, entra nei panni di ogni personaggio, che, nella maggior parte dei casi, non è distinguibile come “buono” o “cattivo”, piuttosto come “vittima” del mondo in cui è immerso e giudicato in base a come reagisce ad esso. Jean Valjean, Cosetta, Fantine, Javert, Mario, Eponine. Addirittura i Thernardiers. Ci si riesce ad affezionare ad essi, come fossero davvero nostri conoscenti: uno dopo l’altro si esplorano i loro meandri più profondi e tragici, impeccabilmente descritti dall’autore. Si percorrono piano piano, al passo dei protagonisti, luoghi, paesaggi e scene: dall’abitazione del Vescovo di Vigne, al convento, al parco dove un certo fazzoletto ha provocato tanto turbamento nei ciechi occhi di un cuore innamorato, fino alle più putride aree della Parigi ottocentesca. 

L’unico libro che è stato in grado di far sgorgare lacrime dai miei occhi. L’unico libro che è stato in grado di farmi provare una sincerissima, purissima ed estrema commozione per l’uomo che ha tenuto stretta la mano di Cosetta da un lato, dall’altro, dopo tutte quelle pagine, la mia.



Niente di vero, solo un mucchio di ricordi rivisitati

Veronica Raimo mi ha incuriosito con la copertina: una bambina con un viso contorto come se avesse appena morso qualcosa di aspro. Non ho letto la trama, ho subito sentito che dovevo leggerlo. In realtà conoscevo già un pochino lo stile dell’autrice dalla raccolta di poesie Le Bambinacce scritta assieme a Marco Rossari: una provocazione divertente che racconta l’incertezza, l’amore, l’autolesionismo e altri tabù culturali. 

Niente di vero è una tragicommedia scritta come se si stesse raccontando la propria vita a quell’amica di sempre o come quello sfogo improvviso con un tizio in un bar che sai di non incontrare mai più. Un fiume di pensieri che nasce dalla consapevolezza del venire al mondo in una famiglia che non hai scelto ma ci sei capitato e che per accettarla la subisci. Una scrittura esilarante e schietta che racconta i disagi, i fallimenti e le storture della vita con il sottofondo di una risata amara. La protagonista Veronica, chiamata Verika dalla madre, Oca dal padre (soprannome nato dalla storpiatura del nome da bambina) e Vero dagli amici si racconta con un tono beffardo in un percorso di crescita intriso di diverse visioni del mondo che portano poi alla sua di visione. Da piccola voleva fare la rockstar perennemente in tour mondiale ma non le era permesso fare cose spericolate. La sua infanzia è stata dominata dalla noia, da giornate tutte uguali passate tra le mura di casa, sapevamo annoiarci come nessun altro”. Il lettore viene immerso in quei giorni passati a spiare dalla finestra della cameretta gli altri bambini giocare nel cortile del palazzo. Veronica si riscatterà da grande con una vita randagia passata nelle case degli altri a vivere le loro vite per brevi periodi.

Al mucchio dei ricordi d’infanzia si aggiungono poi i genitori iperprotettivi: il padre che costruisce muri fino a far diventare la casa un alveare claustrofobico, la madre iperapprensiva che telefona sempre a tutti per sapere dov’è, il fratello che si prende tutte le attenzioni, perché è più bravo a fare tutto. Percepiamo tra le righe quel senso di soffocamento che si sente quando i genitori ci tengono troppo stretti per paura che ci succeda qualcosa. Riflette anche sulla rappresentazione dell’amore che sono stati i suoi: un rapporto visto come modello per il fratello ma un modello di tutto ciò non avrebbe mai voluto per Veronica, cioè due persone che non si rendevano felici ma sono rimaste insieme fino alla fine. 

Non mancano le prime relazioni d’amore: Bra, con cui vedeva la fine prima ancora che iniziasse. Loris, una relazione intrapresa per la sola praticità di scappare di casa. La prima volta che ha visto un uomo nudo, viscidamente spiazzante. Quel diventare donna senza aver mai ricevuto un’educazione sessuale è brutalmente simile alla realtà di tante giovani ragazze di oggi. L’inquietante mitologia intorno alle mestruazioni e lo scandalo dell’andare dal ginecologo in famiglia portano Veronica a fidarsi unicamente della madre della sua migliore amica, che diventa così la ginecologa segreta e l’adulta con cui si può parlare di sesso. Poi c’è l’amore maturo accompagnato da test di gravidanza, l’inferno di abortire e l’amara scoperta del cimitero dei feti.

La Raimo va anche a toccare quei piccoli dolori quotidiani che sono fastidiosissimi, come la stitichezza di cui ne descrive il senso di impotenza e solitudine: “i momenti più profondi di solitudine li ho vissuti sulla tazza del cesso”. Nonno Peppino che capiva quel dolore così intimo e le stava vicino raccontandole degli aneddoti. E poi quel l’insonnia invincibile accompagnata da crisi esistenziali notturne: perché la vita? perché scrivere? si chiede nel continuo rigirarsi nel letto. Infine, molto toccante è la profonda descrizione dell’affrontare il dolore di una persona cara che soffre. La limpidezza con cui vengono descritte le giornate passate accanto al suo letto, dal provare a trovare un argomento di cui parlare allo stare semplicemente lì in silenzio. “Non volevo avere ricordi di quel corpo. Per me mio padre non c’era più.” Il tempo che passa e porta a non pensare più costantemente alla sua figura,  fino a che tutto il dolore viene racchiuso in ricordi lontani. 

Un libro che ci fa domandare: chi ci conosce davvero? I nostri genitori sanno chi siamo? Troveremo prima o poi il coraggio di diventare le persone che fingiamo di essere? Anche se l’autrice dichiara che non c’è niente di vero, sembra esserci tutto di vero. Veronica Raimo sembra tradurre nero su bianco tutte le paranoie mentali che ci facciamo. Ci racconta del diventare grandi e della vita, senza mezze misure. Con quel pizzico dello spirito dissacrante di Fleabag che trasforma sesso e disastri familiari in una commedia provocatoria è impossibile chiudere il libro prima della fine.

 

La vita intima

La mia prima lettura dell’anno è stata un regalo di un’amica, La vita intima di Niccolò Ammaniti. Quando l’ho finito mi sembrava di non aver letto niente, come se fosse stata una gran perdita di tempo. Ho avuto la fugace sensazione di non riuscire più a intravedere le immagini che le parole possono trasmettere. Non riuscivo a trovare le parole giuste per esprimere cosa mi ha lasciato questa nuova lettura. Così ho chiuso il libro e l’ho abbandonato per diverse settimane. Tornando a casa un giorno l’ho visto sul comodino e mi sono detta “Ali non puoi non dargli un’altra possibilità, ci deve essere qualcosa”. Ho iniziato a sfogliarlo e a scrivere, poi ho cancellato tutto. Mi sembrava tutto banale, superfluo, già detto e ridetto. Ma ho provato comunque ad andare fino in fondo perché una persona una volta mi ha detto “ un libro non può non trasmettere niente, c’è sempre una magia casuale tra le parole. Basta saper guardare in profondità”.

Questa è la storia di Maria Cristina Palma, la moglie del Presidente del Consiglio. E’ una donna privilegiata, ricca e bellissima. La donna più bella del mondo. Ha una figlia, Irene. Ma prima di questa vita Maria Cristina ne ha passate tante e anche se al momento sembra avere una vita perfetta il dolore e il passato ritornano di botto con la forza bruta di un uragano. Un incontro con una fiamma del passato basta per far crollare tutte le sue certezze. 

Ammaniti ci fa vivere nella quotidianità della protagonista e ci fa entrare nella sua mente, tra i suoi pensieri. Nell’arco di sette giorni ci regala un’avventura bizzarra, a tratti  un pò deludente. Tra paragrafi di descrizioni scricchiolanti e situazioni ambigue possiamo scorgere degli spunti riflessivi interessanti: tematiche attuali sulla nostra società e altre estremamente personali. Si parla di dolori fisici e dolori dell’anima, quelli che faticano a svanire. Ci mostra la resilienza di una donna che si porta tanti dolori dietro cercando di nasconderli e nascondersi il più possibile. Si parla del peso del passato e della memoria, un raccoglitore pieno di cose fragili. Si parla di amicizia e d’amore. Luciano e Maria Cristina: grandi amici per lei, un amore unidirezionale per lui. Nicola Sarti e Maria Cristina: una storiella estiva adolescenziale che porta il peso di una perdita in comune. Andrea Cerri e Maria Cristina: un amore frizzante spento dalla depressione di lui, che lo rendeva come un vampiro. 

La perdita, affrontata da Maria Cristina come qualcosa da evitare e dimenticare. Si parla dei ricordi amari dell’adolescenza, di quelle frasi che ti rimangono tatuate sulla pelle e diventano una voce critica con cui dialogare nei momenti aspri dell’esistenza. Si parla del rapporto con la bellezza: come dimostrare di essere intelligente e profonda per non essere trattata come una scema? Si parla di genitori: un rapporto durato troppo poco, una madre che aveva visto solo da lontano, come sul televisore. Si parla di verità: meglio vivere nella paura di essere scoperti o uscire allo scoperto?

Insomma vengono toccati tanti temi con la punta delle dita, spunti abbozzati ma non approfonditi. Leggendo, la nostra mente viene sballottata da un tema all’altro in modo brusco con intervalli di dialoghi causali e teneri. Come quello sull’autostrada con un camionista che offre un passaggio a Maria Cristina, non la riconosce e alla fine le chiede: “posso darle un bacio?”. Oppure come il dialogo con Luciano dove le dichiara di essere innamorato di lei da sempre ma lei non se n’è mai accorta.

La frase che riassume il viaggio che è stato questo libro è quella con cui vi voglio lasciare….

“Nel vento e nel gelo Maria Cristina si lascia condurre, le palpebre chiuse come se non dovesse aprirle mai più, prostrata dallo strazio e costernata dalla improvvisa, lampante, cognizione di non capire un cazzo, mai, di non saper riconoscere le persone, di essere solo un tappo di sughero sballottolato dalle onde” 

Le ricchezze di Stefano Benni: amore, natura e letteratura

Un romanzo d’altri tempi, quello scritto da Stefano Benni nel 2012 e intitolato Di tutte le ricchezze

Come è d’altri tempi il protagonista, un certo Martin B., professore universitario settantenne in pensione, ancora molto stimato nel suo ambiente, che ha mollato tutto e tutti per ritirarsi nella solitudine della vecchiaia in una casa isolata al di fuori del piccolo paese di Borgoconio, sull’Appennino.

Martin è l’unico studioso dell’opera di Domenico Rispoli, detto Il Catena, un poeta naïf morto in manicomio, che ha scritto numerose poesie leggibili all’inizio di ogni capitolo del romanzo, intervallate alla narrazione vera e propria; questi componimenti rivelano la sua pazzia, ma allo stesso tempo la sua profonda genialità.

Tuttavia, il professore non è completamente solo: con lui c’è il suo fedele compagno Ombra, un grosso cane nero, e poi ci sono tutti gli animali del bosco (il gufo, la capra, la volpe, il tasso) con cui il professore intrattiene discussioni filosofiche a fine giornata. Le telefonate di Umberto, suo figlio che abita lontano, e le visite di alcuni amici, sia recenti sia di vecchia data, riescono ad allietare le piatte giornate del protagonista.

La rottura di questo equilibrio iniziale avviene quando, nella casa azzurra di fronte a quella del professore, disabitata da tempo, arriva una giovane coppia proveniente dalla città: lui è un pittore e un gallerista, lei una ballerina e attrice. Entrambi sono fuggiti dal caos della metropoli per ritrovare l’ispirazione. Presto il professore li conosce e li soprannomina Il Torvo e La Principessa del grano (per via dei capelli biondi della giovane donna, che ricordano a Martin un antico amore perduto).

La vita del protagonista viene dunque scombussolata in vari modi, dal momento che i tre personaggi diventano sempre più intimi, fino a quando emergeranno ricordi dolorosi del passato, litigi e inevitabili separazioni, che porteranno Martin a riflettere sul suo presente, ma soprattutto sulle scelte del suo passato.

Questo è senza dubbio un romanzo che parla della solitudine, e nello specifico quella di un anziano che, per diversi motivi, ha scelto di vivere da solo. Questa condizione viene messa in mostra con una luce tutt’altro che negativa, anche se si evidenziano le varie ombre che inevitabilmente compaiono di giorno in giorno. Nello stesso tempo, la ventata di novità e giovinezza portata dalla coppia metropolitana riempie e arricchisce la vita del professore, facendogli rivivere sentimenti non più provati da tempo. 

È anche un romanzo che parla di letteratura: frequenti sono i riferimenti letterari (ad esempio, ci sono alcuni rimandi a Le notti bianche di Dostoevskij), e  il volume stesso è una sorta di mélange tra prosa, poesia e teatro, dal momento che oltre alla storia compaiono le meravigliose poesie del Catena e alcune scene vengono raccontate dall’autore sotto forma di copione teatrale.

Dunque solitudine, letteratura, e amore, tantissimo amore: per la natura e i suoi animali, per la cultura, e per la bellezza delle piccole cose della vita, anche nella vecchiaia. 

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