10 Giugno 2021 | Potevo farlo anch'io
Vista la recente riapertura dei musei e delle mostre, nella rubrica di oggi parleremo delle cinque esposizioni d’arte in Piemonte assolutamente da non perdere.
- VIAGGIO CONTROCORRENTE. ARTE ITALIANA 1920-1945 (Torino-GAM)
La GAM di Torino ha inaugurato una mostra dedicata all’arte italiana tra la fine della Grande Guerra e il termine della Seconda Guerra Mondiale. Attraverso opere provenienti dalla collezione del museo, dalla Galleria Sabauda e dalla significativa collezione privata dell’Avvocato Giuseppe Iannaccone di Milano, l’esposizione ripercorre una parte della nostra storia nazionale e mette in evidenza il ruolo curativo dell’Arte, quale veicolo di guarigione attraverso la bellezza. Tra i vari artisti in mostra compaiono i grandi nomi di Renato Guttuso, Emilio Vedova e Lucio Fontana.
- LE CORBUSIER. VIAGGI, OGGETTI E COLLEZIONI (Torino – Pinacoteca Agnelli)
La Pinacoteca Agnelli ha inaugurato ad aprile la mostra “Le Corbusier. Viaggi, oggetti e collezioni” dedicata all’architetto padre del Movimento Moderno.
L’esposizione organizzata dalla Pinacoteca Agnelli in collaborazione con la Fondation le Corbusier di Parigi si sviluppa al terzo piano della Pinacoteca e ripercorre la vita di Le Corbusier attraverso oggetti derivanti dal restauro del suo appartamento parigino, disegni parte del suo prezioso archivio cartaceo e fotografie.
Gli oggetti in mostra sono i famosi “objets à réaction poétique”, oggetti a reazione poetica, capaci di stimolare il processo creativo del celebre architetto.
- ASTI, CITTÀ DEGLI ARAZZI (Asti – Palazzo Mazzetti)
Palazzo Mazzetti apre le sue porte al pubblico per una nuova mostra interamente dedicata all’astigiano e alla sua manifattura locale. A partire dalla sua storia, da alcuni grandi personaggi che l’hanno resa nota attraverso i prodotti d’eccellenza dell’arte del telaio, la città ripercorre con 21 arazzi il grande passato artigiano che la caratterizza.
La mostra rendere omaggio all’attività di Ugo Scassa e di Vittoria Montalbano, due delle più prestigiose manifatture astigiane della città a partire dagli anni Sessanta del Novecento.
- PRIMA CHE IL GALLO CANTI (Guarene – Fondazione Sandretto Re Rebaudengo)
La Fondazione Sandretto Re Rebaudengo celebra il suo 25 anniversario con l’esposizione “Prima che il gallo canti” curata da Tom Eccles, Liam Gillick e Mark Rappolt. Tramite una selezione di opere significative di artisti internazionali dalla collezione della Fondazione si ripercorre la storia collezionistica di questa istituzione.
Il titolo della mostra, “Prima che il gallo canti”, deriva dal titolo dall’omonima opera di Cesare Pavese che contiene due novelle di Cesare Pavese, Il Carcere e La Casa in Collina, raccolte insieme e pubblicate nel 1948. L’esposizione si riallaccia ad alcuni temi trattati nelle due novelle. Le opere esposte indagano il ruolo dell’arte nella contemporaneità con uno sguardo al presente e ai nuovi orizzonti del futuro.
- WILLIAM KENTRIDGE. RESPIRARE (ALBA – CHIESA DI SAN DOMENICO)
Allestita presso la Chiesa di San Domenico ad Alba, la mostra è volta a promuovere nel territorio cuneese la conoscenza dei lavori artistici presentati dal Museo di arte contemporanea di Rivoli. Protagoniste dell’esposizione sono le opere come Breathe (Respira, 2008) e Shadow Procession (La processione delle ombre, 1999) di William Kentridge, noto artista internazionale. Per quanto datate queste opere sono più che mai attuali legandosi a molte vicende della contemporaneità.
14 Maggio 2021 | Potevo farlo anch'io
Lo scorso febbraio è uscito in libreria per Rizzoli il nuovo libro di Luca Beatrice “Da che arte stai”. Già autore di altre pubblicazioni nell’ambito dell’arte contemporanea Luca Beatrice è critico d’arte e docente all’Accademia Albertina di Torino.
Non si tratta di un manuale tradizionale di storia dell’arte ma di una serie di focus sui movimenti e personaggi cardine del mondo dell’arte del XIX secolo, un argomento spesso complicato e difficilmente comprensibile. Ma veniamo al dunque elencando qui di seguito alcuni degli elementi più interessanti di questo libro.
In primo luogo il testo risponde molto bene alla tanto temuta domanda “Ma quando comincia l’arte contemporanea?” Generalmente l’inizio del contemporaneo viene fatto coincidere nei manuali di scuola con la Rivoluzione Francese del 1789. Una data per noi troppo lontana e che poco ci sa di contemporaneità. Il vero inizio sarebbe quindi riconducibile all’invenzione della fotografia e alla sua prima applicazione al mondo dell’arte. La tecnica fotografica costituisce una vera e propria cesura con la storia dell’arte precedente. Essa introduce infatti la possibilità di catturare in modo perfetto la realtà sottraendo alla pittura la sua componente di ricerca scrupolosa della verosimiglianza per innestare una riflessione più attenta sui suoi linguaggi. Questo avviene per la prima volta con l’impressionismo che per primo esce dagli atelier per dipingere en plein air ragionando sulla luca e struttura del dipinto e non più sulla sua fedele aderenza alla realtà. Si tratta del principio dal quale scaturisce il grande motore dell’arte contemporanea giunto fino a noi.
Un altro focus sono le avanguardie storiche. Il termine avanguardia deriva dal gergo militare e viene comunemente utilizzato per definire i soldati combattenti delle prime file. In campo artistico si parla di avanguardie a partire dal ‘900, esse in meno di vent’anni diventano le protagoniste indiscusse del mondo artistico. Da manuale il primato spetta all’Espressionismo tedesco che fa la sua comparsa nella Germania del 1905, mentre come Beatrice mette molto bene in evidenza la prima avanguardia italiana è il futurismo che nasce il 20 febbraio 1909 con la pubblicazione del Manifesto futurista su Le Figaro. I suoi protagonisti furono Boccioni, Balla, Depero e non solo.
Venendo alle lezioni dedicate alla scoperta degli artisti, alcuni dei ritratti più interessanti sono sicuramente quelli dedicati all’arte delle donne. Spesso quando si parla di donne nell’arte il primo nome che appare nella mente di tutti è Frida Kahlo, personaggio molto popolare al giorno d’oggi, culto della cultura pop, ma la cui prima mostra fuori dal Messico avvenne solo nei recenti anni ’80. Ma oltre a Frida c’è un altro grande mondo fatto di importanti nomi di donne la cui attività ha fortemente cambiato il sistema dell’arte. Parliamo di Marina Abramović e Barbara Kruger. La prima, famosissima per le sue performance, pone al centro delle sue riflessioni il proprio corpo di cui indaga la resistenza e i limiti. La Kuger invece studia con la sua opera le dinamiche comunicativa, in particolare i rapporti tra immagine e parola scritta e il mondo della comunicazione consumistica con il suo famoso “I shop therefore I am” derivante inglese dell’affermazione cartesiana “Cogito ergo sum”.
In conclusione si tratta di una lettura interessante che scardina e semplifica molti interrogativi del contemporaneo. Lettura leggera adatta ad ogni tipo di pubblico, anche coloro che vogliono approcciarsi per la prima volta a questo interessante mondo.
9 Marzo 2021 | Potevo farlo anch'io
Nell’articolo di oggi parleremo di Berthe Morisot, pittrice troppo spesso relegata alla semplice definizione di “donna dell’impressionismo”. Un’accezione, quest’ultima, che pone in primo piano il suo essere donna e poi successivamente esponente di uno dei momenti salienti dell’arte del XVIII secolo nel quale ebbe un ruolo di estrema rilevanza.
Berthe nasce nel 1841 in una ricca famiglia della borghesia francese. Fin da bambina i genitori ne riconoscono la vocazione artistica e ne supportano la carriera. Berthe e la sorella Edma, anch’essa pittrice già in giovane età, si formeranno entrambe presso lo studio di Jean-Baptiste-Camille Corot e in seguito il padre affitterà loro un piccolo studio in cui portare avanti la passione per la pittura.
La Morisot apparteneva ad una società in cui il ruolo della donna era ancora fortemente relegato alla dimensione domestica e, pur condividendone alcuni ideali, si pone controtendenza ad essa. Ricerca la sua indipendenza attraverso la pittura e non rispetta nel suo lavoro i canoni imposti dai colleghi che come lei appartengono all’impressionismo. Le sue pennellate non sono quelle di Monet, di Pissarro o di Degas. Il suo tratto è molto più frammentario, interrotto e indefinito rispetto a questi ultimi. Come è ben visibile nell’opera Giovane donna in grigio sdraiata il corpo dipinto sembra svanire, mescolarsi con l’arredo e con altri elementi della scena in una nuance omogenea che ne offusca i lineamenti.
I suoi soggetti prediletti sono le donne, protagoniste della tela non per la loro sensualità o per i loro corpi ammalianti, ma per il loro semplice essere donne. Quelle della Morisot sono femmes comuni, madri e mogli, ma il suo modo di rappresentarle pone l’osservatore, o forse dovremmo dire l’osservatrice, in diretta relazione con esse innescando una sorta di immedesimazione. È come se guardando l’opera lo spettatore diventasse doppiamente protagonista, colui che osserva e colui che viene osservato. Si tratta di pitture intime, ricche di profondità dove la donna non esiste nella sua dimensione di oggetto dello sguardo maschile, ma come animo.
Uno dei soggetti preferiti della pittrice fu la sorella Edma. Quest’ultima si sposò nel 1869 abbandonando definitivamente la carriera artistica. Edma sarà sempre un punto di riferimento per Berthe, il suo metro di paragone e modello. Nella società ottocentesca avere una sorella era un’occasione di socializzazione, di creazione di un forte legame di amicizia e la separazione era spesso fonte di dolore. È proprio questo ciò che accade a Berthe quando, lontana dalla sorella, inizia a dipingerla sempre più spesso, in ogni occasione d’incontro possibile. La raffigura come donna elegante, raffinata, come madre, moglie. Tutte qualità a cui aspirare. Sappiamo che Berthe si sposerà solo nel 1874. Con il passare degli anni, Edma diventerà sempre più una figura evanescente, un qualcosa di perso. Con il matrimonio e la successiva nascita della figlia Julie Berthe abbandonerà questa sua parentesi pittorica.
Fu apprezzata dai suoi stessi colleghi, in particolar modo da Manet, suo cognato, che ne conserverà in camera da letto tre opere; fin da subito sarà fonte di ispirazione per molte altre pittrici come Joan Mitchell che ne seguì le orme divenendo esponente della seconda generazione dell’espressionismo astratto. Troppo spesso dimenticata, Berthe Morisot è una figura che ancora oggi ha molto ancora da raccontare.
6 Febbraio 2021 | Potevo farlo anch'io
In questi giorni di inizio anno, quando spinti dalla volontà di ricordare quanto avvenne nei campi di sterminio nazisti ripensiamo agli scempi commessi meno di 100 anni fa nella nostra Europa, dobbiamo fermarci e riflettere su quali furono le cause, ma soprattutto i mezzi che portarono una nazione colta ed istruita come la Germania ad appoggiare e condividere una tale disumanità. Come i sociologi contemporanei bene spiegano, una delle macchine che permette il funzionamento di un tale regime è spesso la propaganda. Questo fu certamente quanto avvenne in Germania dove il Ministro per l’istruzione e la propaganda, Joseph Goebbels mise a punto un piano di esaltazione del regime che comprendeva la stessa arte.
L’arte, che noi tutti siamo abituati ad associare all’idea di libertà, di espressione dell’essere, fu spesso nel corso della storia ingabbiata e strumentalizzata divenendone un mezzo di propaganda. Proprio quella disciplina, ci verrebbe da dire priva di regole, fu sovente sfruttata per fini vili come appunto l’istigazione all’odio. Il regime nazista se ne adoperò per incitare attraverso le immagini il popolo alla celebrazione della razza, ma per fare ciò dovette tagliare le ali alla libertà d’espressione di questa disciplina millenaria e come lo fece? Eliminando tutte quelle opere considerate degenerate e allontanandone gli artisti.
Ma vediamo gradualmente quali furono i passi che portarono a tutto ciò. Nel 1936 il pittore Adolf Ziegler, simpatizzante del regime, venne posto da Goebbels a capo della Reichskammer der Bildenden Künste ovvero la “Camera del Reich per le Arti Visive”, un’istituzione che aveva come fine la promozione dell’arte tedesca considerata conforme ai principi del Reich. Ziegler non era l’unico ad appoggiare questa strumentalizzazione del linguaggio visivo, bensì era appoggiato da molti teorici e pittori, ad oggi di poco conto, come Wolfgang Willrich, autore del testo “Kunsttempels“ ovvero “Pulizia del tempio dell’arte”. Per Willrich questa disciplina sarebbe dovuta diventare un mezzo di espressione della pura razza tedesca. Instaurò quindi una profonda critica all’arte contemporanea, che venne gradualmente sottoposta alla censura. Ziegler impose un controllo che, esteso agli stessi musei, causò il sequestro delle opere non ritenute conformi ai principi del Reich. I direttori dei musei consegnarono le opere e i pochi che tentarono la strada dell’opposizione vennero successivamente privati della loro carica. Hitler ordinò che alcune delle opere confluissero in una grande mostra, la tristemente conosciuta “Mostra di Arte degenerata” che venne inaugurata a Monaco il 19 luglio 1937. L’ingresso fu gratuito per attirare una vasta fetta di pubblico a cui inculcare l’idea che quell’arte dei più grandi maestri contemporanei del ‘900, fossero opere degenerate, rifiuto della società nonché “corruzione dello spirito”. Monaco fu la prima tappa d’approdo per l’esposizione che successivamente arrivò in 11 città tedesche come Francoforte, Amburgo, ma anche austriache Vienna. I visitatori furono migliaia al punto che ancora oggi può essere ricordata tra le mostre storiche con maggior numero di visitatori di tutta Europa.
Vi starete domandando dove finirono quadri e statue dopo l’esposizione; ebbene furono nascoste in un deposito di Berlino nel quale restarono fino al 20 marzo 1939, per poi essere bruciate. Possiamo contare oltre 1300 capolavori andati perduti di artisti del pari di Pablo Picasso, Piet Mondrian, Amedeo Modigliani, Otto Dix, Marc Chagalle, Paul Klee, Vasilij Kandiskij, Umberto Boccioni e Carlo Carrà e moltissimi altri.
Il regime nazista cercò non solo di annientare l’uomo internandolo nei campi di concentramento, limitando la sua libertà fisica, non lasciando spazio all’opposizione, alle idea non conformi alla regola dettata dal Reich ma tentò tanto nel mondo dei prigionieri che in quello dei liberi di annientare la facoltà intellettuale, la spiritualità dell’uomo facendo dell’arte e di tutti i suoi mezzi un rogo.
Oggi più che mai è importante ricordare, come lo stesso Primo Levi ci insegna, che «questo è stato» e che nonostante il recente passato ci risulti lontano più che mai, ancora ad oggi ci sono esempi di regimi che limitano la libertà dell’uomo, fisica e d’espressione.
12 Gennaio 2021 | Potevo farlo anch'io
Tutti avremo sentito parlare, almeno una volta, del celebre furto della “Gioconda“di Leonardo Da Vinci scomparsa dalle sale del Louvre nel 1911 ad opera dell’ex-impiegato del museo Vincenzo Peruggia, convinto che l’opera, sottratta da Napoleone, appartenesse a pieno diritto all’Italia. Fu questo fatto a fare dell’opera l’icona che essa rappresenta oggi. L’articolo di questo mese sarà quindi dedicato ad altri noti furti di opere d’arte che influenzarono le sorti della storia dell’arte.
Il “sequestro” della Monna Lisa fu il primo mai registrato nella storia dei musei e ne inaugurò una fitta serie di cui il più bizzarro è forse quello del “Ritratto di Jacob de Gheyn III” del pittore olandese Rembrandt. L’opera di piccole dimensioni, 29,9 per 24,9 centimetri, raffigurante il noto incisore Jacob de Gheyn fu rubato ben quattro volte a partire dal 1966 e proprio per questo motivo è anche conosciuto come “il Rembrandt d’asporto”. Nel 1981 il dipinto fu prelevato dalla Dulwich Picture Gallery di Londra e recuperato a bordo di un taxi da un funzionario di polizia inglese. In un’altra occasione, poco dopo il rientro in sede dell’opera, essa fu nuovamente rubata da un ladro che calandosi dal lucernario del museo la prelevò e fuggì prima del tempestivo arrivo della polizia. Ma quello che rende ancora più stravagante le vicende dell’opera è costituito dai ritrovamenti; sotto la panchina di un cimitero in un’occasione e su di una bici un’altra. Il tutto sempre in anonimato.
Il 22 agosto 2004 due uomini armati fecero irruzione in pieno giorno nel museo Munch di Oslo dove di fronte ai visitatori allibiti rubando due opere di Munch: “L’urlo, e “La madonna”, opera meno nota ma di uguale importanza nel repertorio dell’artista. Il valore della refurtiva, 92 milioni di euro, accelerò notevolmente le indagini che dopo due anni permisero di recuperare le opere. Riguardo al colpevole poco si seppe. Il principale sospettato nel corso delle indagini fu il rapinatore David Toska che condannato a 19 anni di carcere in seguito ad una rapina in banca, aveva promesso la restituzione delle opere a fronte di una diminuzione della pena. Da allora il museo norvegese ha aumentato sempre di più il suo sistema di sicurezza al punto da essere considerato un vero e proprio bunker, impossibile da espugnare.
Uno degli artisti più colpiti da questo tipo di avvenimenti è Van Gogh. Nel dicembre 2002 alcuni ladri entrarino nel Van Gogh Museum di Amsterdam riuscendo a rubare due quadri, il cui valore ammontava a circa 100 milioni di dollari: “La spiaggia di Scheveningen durante un temporale” e “L’uscita dalla chiesa protestante di Nuenen”. Per moltissimo tempo qualsiasi tentativo di ritrovare le opere risultò vano e solo molti anni dopo, il 25 settembre 2016, i dipinti furono rinvenuti. Si trovavano a Castellammare di Stabia in provincia di Napoli, dove la Guardia di Finanza li trovò appesi alle pareti di casa del boss narcotrafficante Raffaele Imperiale. Una sorte meno fortunata tocco ad un’altra opera dell’artista olandese, “I papaveri” che nel 2010 sparì dal museo Mohamed Mahmoud Khalil al Cairo, dal quale era già stata rubata un’altra volta nel 1977 e ritrovata molti anni dopo. Ancora ad oggi non è ancora stata recuperata.
Molti sono i quadri e statue rubati non ancora rinvenuti come: “Il concerto” di Vermmer, “Il piccione con piselli” di Picasso, “La natività di San Francesco e San Lorenzo” di Caravaggio e molte altre per le quali sono state offerte anche ingenti somme di denaro come ricompensa. Come la “Gioconda“ ci insegna forse un giorno, se saremo abbastanza fortunati, potremmo vedere nuovamente alcune di queste opere dopo un breve periodo trascorso sulle pareti della casa di qualche patriota ex-dipendente museale o di un narcotrafficante.
8 Dicembre 2020 | Potevo farlo anch'io
Nell’articolo di oggi parliamo delle continue contaminazioni tra moda ed arte, due discipline, mi sento di chiamarle così, che si sono spesso rivelate sorelle. Spesso negli anni è capitato di osservare come capi di abbigliamento prendessero ispirazione dall’arte e tentassero di riprodurne talvolta i colori, le fattezze e l’originalità.
Ebbene, il primo a compiere questo lavoro fu Yves Saint Laurant il famoso stilista la cui vita all’insegna dello scandalo e dell’anticonformismo lo vedono aderire a tutti gli effetti allo stereotipo dell’artista. Nato ne 1936 nell’Algeria francese sarà presto attirato dal fascino del vecchio continente nel quale giungerà alla giovane età di 18 anni. Giunto a Parigi sarà subito apprezzato per i suoi disegni di abiti tanto che iniziò una collaborazione con la grande casa d’alta moda di Christian Dior del quale diverrà direttore artistico in seguito alla morte di quest’ultimo nel 1957. Due anni dopo costretto ad arruolarsi nell’esercito francese a causa dello scoppio della guerra d’indipendenza algerina fu licenziato. Questo fatto sarà per Yves al tempo stesso fonte di doloro ma anche rinascita. Grazie ad una causa legale intrapresa nei confronti dell’azienda per non aver rispettato i termini contrattuali lo stilista riuscirà ad aprire la propria maison de haute mode.
Dopo questa breve biografia torniamo all’arte. Saint Laurant fu un collezionista ed insieme al compagno Pierre Bergé costruì una grandissima collezione d’arte poi venduta all’asta inseguito alla sua morte. L’interesse dello stilista per l’arte non si limita al semplice collezionismo ma sfocia nella produzione di abiti i cui soggetti diventano le opere. Con la sartoria Saint Laurent rende tridimensionali e plastiche le tele dei più grandi maestri del’900 e non solo.
Le principali collezioni a tema nascono negli anni ’60-’70 e l’artista che diede il via a questa prolifera sperimentazione interdisciplinare fu Piet Mondrian. In un periodo di poca ispirazione e conseguente frustrazione, in una tarda notte del 1965 lo stilista ritrovò sullo scaffale della propria libreria un volume donatogli dalla madre dedicato appunto alla produzione del pittore olandese. Fu la scintilla che innescò l’incendio e che portò Yves a presentare in passerella abiti-sculture il cui motivo erano le celebri griglie colorate di Mondrian. La bidimensionalità della tela è infranta e la sua espansione nello spazio consacrata. Con questa collezione di haute couture la staticità geometrica delle forme del pittore viene animata attraverso tessuti pregiati ponti per essere indossati.
Appena due anni dopo è il turno dell’arte africana. L’Africa sarà sempre per Saint Laurant un grande amore in quanto terra natale e continente in cui insieme al compagno Pierre giungerà alla ricerca di un luogo esotico di villeggiatura. Marrakech fu per i due amore a prima vista, acquisteranno quindi una casa nella medina che da allora diventerà luogo di fuga e ritiro dopo intensi periodi di lavoro. I soggiorni marocchini li influenzeranno: gli stessi Yves e Pierre indossavano caftani e babucce, come due marocchini veri. La città gli era entrata nel cuore. Ed è proprio qui che lo stilista si è convertito al colore, abbandonando il bianco e nero ostinato” dice Quito Fierro, amico storico dei fondatori di YSL, e segretario generale della Fondation Jardin Majorelle.
Contemporaneamente data la sua posizione di prestigio nel panorama contemporaneo si avvicina alle nuove tendenze dell’arte americana arrivando a conoscere l’’indiscutibile re della pop art: Andy Warhol, del quale diverrà amico. Warhol era affascinato dalla moda e Yves ne era una vera e propria icona di conseguenza dall’incontro dei due non poteva che nascere qualcosa di estremamente interessante.
Negli anni ’80 lo stilista va alla ricerca di artisti del calibro di Braque, Picasso, Matisse e molti altri: i “Due uccelli su sfondo blu” di Braque, opera del 1961, diventano una mantella e lo stesso accade per “Mandolino e chitarra” di Pablo Picasso; per poi rituffarsi a capofitto nel passato dove ritrova Matisse. Le caratteristiche tipiche del fauvisme: toni accesi, per lo più stridenti diventano i colori che donano profondità e stile a lunghe gonne nere dal taglio ampio. Lo stesso accade con i grandi maestri Monet e Van Gogh le cui fantasie diventano capi di ogni genere. Iris, paesaggi e girasoli escono dai musei per sfilare in passerella.
Insomma Saint Laurant puntò molto sull’arte sia in termini stilistici che inerenti al collezionismo. La collezione sua e del compagno Pierre Bergè presentava al suo interno opere di Goya, del francese Géricault, busti della tradizione classica uniti a scultura dei più moderni Brancusi e Duchamps, mobili e porcellane pregiate.
Dopo l’improvvisa scomparsa dello stilista nel 2009, il terribile dolore che il compagno, Pierre Bergé, provava nel vivere in una casa in cui le opere erano un ricordo del grande amore, lo portano alla vendita all’asta dell’intera collezione che si dice contasse oltre 600 pezzi.
Ma in seno alla maison la passione per l’arte permane tuttora e la Fondazione Pierre Bergé – Yves Saint Laurent di Parigi ospita spesso importanti mostre dedicate all’arte di tutti i tempi.