22 Marzo 2022 | Potevo farlo anch'io
Accanto alle terribili immagini della guerra in Ucraina che da settimane occupano le prime pagine dei nostri giornali, capita talvolta di scorgere foto che ritraggono operatori museali nell’atto di nascondere e mettere al sicuro le opere d’arte ucraine.
L’arte è uno dei mezzi attraverso i quali si costruisce l’identità di una nazione, è il patrimonio di quest’ultima, testimonianza della sua storia ed è dunque necessario proteggerlo.
Un video realizzato dall’Associated Press riporta le parole del direttore del Andrey Sheptytsky National Museum di Leopoli, Ihor Kozhan, preoccupato per la salvaguardia del patrimonio custodito in quella che è la principale collezione d’opere della cultura ucraina con ben 170.000 oggetti. Negli ultimi giorni, in una lotta contro il tempo, il museo ha chiuso le porte ai visitatori ed è stato disallestito per mettere le opere al sicuro nel caso di un attacco russo alla città.
Nel vedere queste fotografie, la mente mi ha riportato alla seconda guerra mondiale e alla missione dei Monuments Men, gruppo formato da oltre trecento membri tra restauratori, archivisti, storici dell’arte, archeologi e direttori di musei che tra il 1943 e il 1951 si occuparono di prelevare e preservare le opere di un’Europa devastata dai combattimenti.
La Mffa ovvero la Monuments, Fine Arts and Archives nacque nel 1943 da un’intesa tra America e Inghilterra con l’approvazione del presidente Roosevelt dopo l’ennesimo bombardamento tedesco che rischiò di distruggere per sempre il cenacolo di Leonardo al quale seguì poche settimane dopo un bombardamento a Pompei. Nella sua invasione e occupazione europea Hitler e i suoi funzionari ordinarono ai soldati di razziare le opere d’arte dei paesi conquistati, le quali sarebbero poi confluite al termine della guerra, con la vittoria del Terzo Reich, nel Führermuseum, che si sarebbe dovuto costruire a Linz.
Tra le tante missioni di recupero d’opere d’arte rubate dai nazisti, una delle più importanti è sicuramente quella della miniera di salgemma di Altaussee, in Austria dove i nazisti avevano raccolto all’incirca 6500 opere di vario genere. In questo deposito i Monuments Men ritrovarono opere come la “Madonna con Bambino” scolpita da Michelangelo e sottratta alla Chiesa di Nostra Signora di Bruges; “L’Astronomo” di Jan Veemeer proveniente dal Louvre e il “Polittico dell’Agnello Mistico” dipinto da Jan van Eick e custodito nella cattedrale di Sint Baafs di Gand.
Queste operazioni di salvataggio riguardarono anche l’Italia dove risalendo la penisola a partire dalla Sicilia, la missione di una squadra di Monuments Men trovò la collaborazione di funzionari e di civili italiani che aiutarono a riscoprire un grande numero di quadri e di oggetti depredati dai nazisti. Questi italiani sono ricordati con il termine “Identity Men e Women” ovvero donne e uomini che a rischio della vita si resero protagonisti di un’opera straordinaria di salvataggio del grande patrimonio artistico nazionale italiano ed europeo. Il loro compito fu fondamentale anche alla fine della guerra nel far rinascere la nostra vita culturale.
L’augurio è che la stessa cosa accada alle opere d’arte ucraine e che al termine della guerra i funzionari dei musei nazionali continuino la preziosa opera di salvataggio iniziata in questi giorni e permettano la rinascita culturale ucraina proprio come fecero i nostri Identity man and women.
5 Febbraio 2022 | Potevo farlo anch'io, Vorrei, quindi scrivo
L’idea del progetto Pietre d’inciampo (in tedesco Stolpersteine) è nata dall’artista berlinese Gunter Demnig con l’intenzione di tenere viva nelle città europee la memoria di tutti quei deportati che dai campi di concentramento non sono più tornati a casa. Si tratta di un piccolo blocco quadrato di pietra, grande quanto un sanpietrino, ricoperto di ottone lucente, posto davanti alla porta delle case in cui vivevano le vittime. Si vuole ricordare il loro nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione e la data di morte. Questo tipo di informazioni intendono ridare individualità a chi si è ridotto soltanto a numero.
Ovviamente non è possibile inciamparvi davvero, poiché sono a livello della pavimentazione. Chi non le vuole vedere ci passa semplicemente sopra. Non sono invadenti. Forse è proprio questo il segreto del loro grande successo: il loro carattere discreto e modesto. Niente espedienti per richiamare l’attenzione, nessun gesto eclatante. Le pietre d’inciampo giacciono semplicemente lì come modello antitetico al memoriale monumentale.
Ma come è nato il progetto? «Ho iniziato il progetto per ricordare lo sterminio del popolo Rom nel ’94, dopo aver assistito a una cerimonia in strada per commemorare i gypsy deportati. Durante quella cerimonia venne fuori una signora a dire che non era vero che erano stati deportati. Allora decisi di rimettere le cose a posto e diedi vita a questa iniziativa. Le pietre sono prima di tutto per i parenti che altrimenti non avrebbero un posto dove piangere i loro cari morti in quegli anni. Come dice il Talmud ebraico, quando il nome di una persona è scritto, non si disperde la memoria di quell’uomo o quella donna» dice Demnig.
La prima pietra fu posata a Colonia, nel 1995. Un anno dopo a Berlino ne vennero portate altre in occasione della mostra Künstler forschen nach Auschwitz (Gli artisti esplorano Auschwitz). Da allora, è diventato il suo progetto di vita: ha posato oltre 70mila pietre in 24 Paesi Europei, sempre davanti all’ultima abitazione delle vittime dello sterminio nazista. Il suo messaggio: l’orrore non iniziò ad Auschwitz o Buchenwald, ma fra di noi. Tra i vicini che fecero finta di non vedere, tra gli amici che non trovarono il coraggio d’intervenire. L’obiettivo è quindi collegare la storia con il presente nel luogo simbolo della vita quotidiana, la loro casa. Grazie a un passaparola tanto silenzioso quanto efficace, oggi si incontrano Pietre d’Inciampo in oltre duemila città sparse in tutta Europa. In Italia, le prime Pietre furono posate a Roma nel 2010 e attualmente se ne trovano a Bolzano, Genova, Milano, Torino, Venezia e altre città. Nella provincia di Cuneo, a Dronero, l’artista tedesco ha posato cinque pietre d’inciampo dedicate a cinque cittadini droneresi arrestati il 2 gennaio 1944 e deportati nel campo di sterminio di Mauthausen dove trovarono la morte.
Il mosaico di pietre d’inciampo è diventato il più grande monumento diffuso del mondo. È una valanga inarrestabile: da una piccola iniziativa privata è nato un vasto movimento d’impegno civile che continua a crescere affinché l’indifferenza e l’odio non siano più il motore di molti di noi.
20 Gennaio 2022 | Potevo farlo anch'io
La sera del 13 gennaio 2012 la nave da crociera Costa Concordia naufragò nei pressi dell’isola del Giglio a seguito di una serie di errori di varia natura mentre eseguiva “l’inchino”, manovra compiuta nelle vicinanze di insediamenti costieri per salutare la terra ferma. Sulla nave c’erano 3.208 passeggeri e 1.023 membri dell’equipaggio, 32 persone morirono e molte altre furono ferite. Negli scorsi giorni l’Italia intera ha celebrato il decimo anniversario dalla tragedia e per l’occasione in questo articolo riproporremo due interessanti progetti fotografici che hanno restituito nuove immagini sulla vicenda.
Il fotografo italiano Alessandro Gandolfi ha raccontato attraverso una serie di scatti in still-life la storia di alcuni oggetti, da lui trovati nel corso degli anni, collegati all’incidente. Si tratta di una ricerca che ha prodotto il lavoro fotografico “The Concordia Project” ad oggi visibile sul sito della sua agenzia Parallelozero. Il claim dell’iniziativa è “A dieci anni dal naufragio la Costa Concordia non esiste più. Ma di quella tragedia rimangono oggetti sparsi per l’Italia: reliquie che raccontano una storia”. Si parla quindi di reliquie conservate dagli abitanti del Giglio, dai soccorritori e da alcuni passeggeri della nave in ricordo di quella terribile notte. Ogni oggetto fotografato è accompagnato da una breve storia. Uno dei più interessanti è sicuramente l’orologio indossato quella notte dal capitano Francesco Schettino con il quale si apre l’intera narrazione. Quest’ultimo ancora ad oggi segna la mezzanotte e 14 minuti del 13 gennaio, pochi istanti prima che la Costa si inabissasse sull’intero lato di dritta. A fermare il contatore dell’orologio sarebbe stato, secondo il racconto di alcuni testimoni, la caduta di Schettino che tentando di raggiungere il ponte oramai divenuto come una parete verticale urtò violentemente con il polso un corrimano. Tra gli altri oggetti che costituiscono il reportage troviamo programmi della crociera, scialuppe di salvataggio, oggetti personali dei passeggeri come scarpe, vestiti, telefoni e molto altro.
Un secondo lavoro è quello del fotografo Jonathan Danko Kielkowski, il quale decise di voler vedere con i propri occhi ciò che restava della nave salendo clandestinamente a bordo mentre quest’ultima si trovava nel porto di Genova, dove centinaia di operai lavorarono per smantellarla e alleggerirne lo scheletro. Una domenica mattina all’alba ha quindi raggiunto la nave a nuoto e salendo a bordo ha realizzato nel corso di mezza giornata una serie di interessanti scatti degli ambienti della nave confluiti poi nel lavoro “CONCORDIA” pubblicato da White Press. In un’intervista a Vice Italia Kielkowski ha rivelato il motivo di questa sua operazione clandestina, poiché non gli fu mai concessa l’autorizzazione di scattare queste fotografie, ovvero l’estrema importanza di documentare le tracce del disastro mentre esse erano ancora visibili. Una delle immagini più inquietanti di questo progetto è sicuramente quella che ritrae i corridoi della nave occupati da molti oggetti personali dei passeggeri abbandonati durante la fuga e il grande teatro e ristorante in cui tutto il mobilio giace riversato sul pavimento e incrostato dal residuo dell’acqua marina.
Quelli di Kielkowski e Gandolfi sono quindi due lavori molto significativi che hanno portato alla luce in modo diverso la storia di questa terribile tragedia affinché ne esistano ancora tracce visibili.
2 Dicembre 2021 | Potevo farlo anch'io
Piero Simondo. Laboratorio situazione esperimento. Questo il titolo della mostra che la città di Alba ospiterà fino al 12 dicembre, dedicata al suo concittadino Piero Simondo.
Nato a Cosio di Arroscia in provincia di Imperia nel 1928, Piero Simondo frequentò l’Accademia Albertina di Torino dal 1949 come allievo di Felice Casorati. I suoi primi lavori furono ceramiche astratte, esposte nel 1952 ad Alba, patria dell’amico Pinot Gallizio che lo introdusse alla pittura. Nel settembre del 1955 fondò ad Alba con Jorn e Gallizio il Laboratorio di esperienze inerenti al Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista. La sua attività artistica fu fondamentale nel panorama artistico contemporaneo.
L’esposizione di Alba realizzata in collaborazione con l’Archivio Simondo è il primo approfondimento monografico su questo importante artista che fu tra i principali fondatori dell’Internazionale situazionista e intimo amico del celebre Pinot Gallizio.
La splendida cornice della chiesa romanica di San Domenico ospita questa importante mostra curata dal critico Luca Bocchino, direttore scientifico del Muda-casa museo Jorn di Albissola Marina. Attraverso un vasto repertorio di opere, di documenti e oggetti appartenuti all’artista, Bocchino offre una panoramica sulla produzione artistica dai primi anni Cinquanta fino agli anni Novanta del Novecento. Quadri tridimensionali, materici si alternano a sculture e composizioni polimateriche.
L’esibizione di Alba è in realtà solo una piccola parte dell’ampio progetto espositivo immaginato dall’Archivio Simondo, la cui seconda tappa è Torino, più precisamente l’Accademia Albertina. La retrospettiva antologica sull’artista si articolerà tra il Piemonte e la Liguria tra il 2021 e il 2022 attraverso i seguenti appuntamenti: Casa Ramello, a San Maurizio Canavese, una mostra antologica al MuDA Casa Museo Jorn di Albissola Marina e due spin-off al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e a Cosio di Arroscia nello Spazio Piero Simondo (estate 2022).
1 Ottobre 2021 | Potevo farlo anch'io
Lo scorso 15 agosto 2021 Kabul, capitale dell’Afghanistan, è nuovamente caduta in mano ai Talebani, i quali intendono restaurare l’Emirato islamico e abbattere quanto fatto dai governi occidentali negli ultimi vent’anni.
Le immagini di questo evento drammatico hanno in poco tempo fatto il giro del mondo puntando l’attenzione su quest’importante avvenimento storico. Fotogrammi strazianti, che sembrano provenire da un altro mondo, ci mostrano un clima di terrore: migliaia di civili afghani in fuga, strade disastrate in cui rimbombano urla e spari, talebani che cancellano le tracce della vita occidentale della città bruciando bandiere e molto altro.
Tra queste, un’immagine significativa è quella che mostra un gruppo di talebani nell’atto di oscurare strappando o ricoprendo manifesti pubblicitari ritraenti donne. Sono foto forti che evidenziano come in pochi giorni siano stati spazzati via i numerosi passi in avanti dell’emancipazione femminile afghana, cancellati proprio come quei poster.
Le donne afghane, che nell’ultimo ventennio hanno ricoperto un importante ruolo nella ripresa economica e culturale del paese, sono le prime vittime delle restrizioni imposte dai talebani e dalla loro assidua applicazione della legge coranica.
In questo contesto, l’arte diventa più che mai utile per lanciare un messaggio, per richiamare l’attenzione del pubblico in modo chiaro e incisivo su alcune tematiche. Nel secolo della digitalizzazione in cui il flusso degli stimoli visivi è costante, nessuno può sfuggire ad immagini come quella della fotografa yemenita Boushra Y. Almutawakel “Mother, Daughter, Doll”, risalente al 2010, ma attuale più che mai.
Almutawakel da sempre cerca di raccontare la sorte di migliaia di donne che in ogni angolo del mondo rischiano di essere annientate da contesti politici e religiosi estremi. In questi sistemi terrificanti, le donne non solo temono di perdere la vita e la libertà, ma ciò che maggiormente soffrono è l’idea di essere cancellate dal mondo e dalla storia. In questo la fotografia “Mother, Daughter, Doll”, che correda questo articolo, è più che mai esaustiva.
Sono molte le artiste che hanno sfruttato la loro posizione privilegiata per attirare l’attenzione su questa particolare tematica. Farzana Parween Wahidy, per esempio, è una fotografa di fama internazionale, cresciuta sotto il potere talebano, che è costretta a frequentare la scuola segretamente nascondendo i libri sotto il burka. Questa sua resilienza ha fatto sì che diventasse, nel 2004, la prima fotogiornalista afghana a lavorare con un’agenzia internazionale. I suoi scatti mirano a ritrarre la vita delle donne afghane nella loro quotidianità così come i problemi legati al mostrare il proprio volto.
Anche Shamsia Hassani, afghana e autrice di molti graffiti, è un’importante figura di riferimento in questo contesto. Hassani ha commentato l’ingresso dei talebani a Kabul con la sua illustrazione dal titolo “Death to darkness”, pubblicandola sul suo profilo Instagram. Il suo lavoro, in aperta sfida al regime talebano, offre un esempio positivo di lotta e coraggio al femminile che mostra quanto, seppure i vent’anni d’emancipazione femminile e di progresso sembrino un lontano ricordo dopo l’arrivo dei talebani, la resistenza delle donne afghane non sia stata annientata, ma resa ancora più resiliente.
Ed è con questo messaggio dell’artista che voglio concludere l’articolo di questo mese “L’arte cambia la mente delle persone, le persone cambiano il mondo”.
10 Luglio 2021 | Potevo farlo anch'io
Peter Greenaway, classe 1942, è uno dei più importanti cineasti contemporanei. I suoi film, conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo, brillano per ricchezza formale.
Ogni singolo elemento della sceneggiatura è studiato in modo minuzioso, attraverso un’attenta operazione di labor limae per il quale le scene sono date dalla sovrapposizione di più livelli di significato. In questo contesto le inquadrature possono essere lette come vere e proprie opere d’arte dove l’attenzione al dettaglio e alla composizione generale è altissima. Il legame con l’arte non è casuale: Greenaway, da sempre appassionato alla pittura e al disegno, studia al Walthamstow College of Art, contro il volere dei genitori. Sono proprio questi anni di formazione giovanile che influenzeranno poi fortemente la futura attività cinematografica del regista. Oltre ai numerosi riferimenti ad opere d’arte, le sue sceneggiature pongono una particolare attenzione all’uso del colore, protagonista indiscusso dell’intera produzione cinematografica.
In passato i registi consideravano l’introduzione del colore nelle pellicole un’azione interessante, avente come scopo l’arricchimento della narrazione di una componente drammatica più che un’accurata rappresentazione del reale. Nel cinema del XX secolo, con l’emergere delle avanguardie cubiste e futuriste, i colori iniziarono ad essere introdotti nel cinema con una finalità diversa, ovvero causare un forte impatto estetico e simbolico. Sono le teorie sui colori di artisti come Kandisky e Picasso ad influenzare il cinema di inizio secolo. Come è evidente in molte opere di Kandisky, il colore viene utilizzato per generare sensazioni nello spettatore quali disperazione, confusione, euforia e sogno.
Così come in pittura, anche nel cinema di Greenaway il colore elimina il realismo per lasciare ampio spazio al simbolismo che si avvale dei gradienti rendendoli mezzi espressivi. In molti dei suoi film il regista utilizza la psicologia dei colori per trasmettere in modo più diretto le emozioni ed i cambiamenti di luogo e di azione. In questo modo essi divengono la dimostrazione simbolica e palese di ciò che ci viene raccontato.
In un’ intervista di Ania Krenz al regista Greenway dice: «I was trained as a painter and colour is very important in painting. And colours hardly seem to interest filmmakers at all or very superficially. Almost like a sort of IKEA-habitat interior design quality. But not structurally because the colour coding is so significant. You know, emotionally and suggestively and associatively and historically. And I wanted to be able to use that language in a very rich way. But I needed to say: “Look, people! Look, look, look! This is about colour!” so deliberately I used these devices about people changing to fit their environment… as an attempt to get people to look. Because most people do not use their eyes. Most people are visually illiterate».
Prendendo in considerazione il film “I misteri del giardino di Compton House”, vediamo come per il cinema di Greenaway i colori abbiano un importantissimo significato. Ambientato nel ‘600 il film tratta la storia del paesaggista Mr. Neville incaricato dalla signora Herbert, moglie di Mr. Herbert, proprietario di Compton Anstey, di realizzare dodici disegni della casa e del giardino. I disegni sono realizzati per essere regalati dalla moglie al marito che nel frattempo ha lasciato la splendida abitazione per recarsi a Southampton. Attraverso questo regalo la moglie sembra voler ricomporre il rapporto matrimoniale in crisi, approfittando dell’assenza del padrone di casa. Inizialmente l’artista, ignaro del complotto di cui sarà vittima, accetta di buon grado il lavoro ed espone esose richieste alla donna, che accetta per contratto di concedere all’artista favori sessuali. Con il procedere della narrazione l’omicidio di Mr. Herbert farà assumere nuovi significati alle vedute ritratte dal disegnatore che scoprirà di essere stato strumento di una congiura.
Nel film i colori predominanti sono il bianco ed il nero dei disegni che si contrappongono al verde dei giardini. Inizialmente, il bianco ed il nero indicano la differenza sociale tra il disegnatore ed i suoi committenti ma, con l’evolversi delle scene, i colori assumono una connotazione diversa. Il bianco indica la vanità e l’ipocrisia delle classi dominanti verso cui il disegnatore aspira fin dall’inizio della vicenda. Mr. Neville indossa spesso il bianco con l’intento di somigliare ai nobili ma in questo modo causa la sua stessa caduta.
Diversamente, l’utilizzo del verde nel film è estremamente complesso e vario. Esso indica il paesaggio del giardino nel quale vengono disseminate le prove dell’omicidio ma è anche indice del perpetuo cambiamento della natura. Una natura che è qui molto artificiale poiché trasformata in una serie di statue alberate da giardino. Un’artificialità che fa in qualche modo anche riferimento a quella classe dominante che tramite la sua apparenza ed ostentazione, rappresentata dall’eleganza del giardino e della tenuta, incanta e distrugge il disegnatore. All’inizio del film, la raffigurazione del verde è allettante ma quest’iniziale sensazione va a scemare mano a mano che lo spettatore intuisce gli indizi di quanto sta per accadere. Infine, il finale del film ha un’ambientazione notturna. Il disegnatore, sempre nel suo abito bianco, è seduto davanti alla statua equestre del giardino che sta disegnando quando improvvisamente si trova circondato dai nemici. Il bianco del suo vestito qui arriva a contrastare l’oscurità della notte come ad indicare l’opposizione tra l’innocenza, l’ingenuità del disegnatore contro l’oscurità e la malvagità dei suoi aggressori.
In conclusione, Greenaway, data la propria educazione artistica, sfrutta la conoscenza e la familiarità dell’uso del colore in arte per farlo proprio ed applicarlo ai suoi film nei quali diventa un ulteriore strato simbolico alla già ricca rappresentazione.
L’uso dei colori è quindi fondamentale per accentuare la conoscenza.