No friends, no party

Sappiamo benissimo tutti che un po’ di sano egoismo giova alla sfera dell’amor proprio e che dedicare ogni tanto un po’ di tempo unicamente a noi stessi è anche un’occasione per trovare qualcos’altro da offrire a chi ci circonda. Sappiamo altrettanto che la musica d’insieme è inevitabilmente un compromesso con altre persone, quindi una forma di empatia e altruismo al fine di ottenere un comune beneficio. Tuttavia, l’equilibrio raramente si forma in dinamiche democratiche e, in parole povere, c’è sempre qualcuno che tira la baracca più avanti degli altri. C’è più ambizione e senz’altro più capacità. A questo punto una domanda sorge spontanea: perché non da solo?

Possiamo immaginare che dietro ai grandi scioglimenti della musica moderna ci sia proprio questo ragionamento e che molte volte gli si abbia anche dato ragione. Di fronte a tale scelta è sempre difficile esprimere un giudizio morale, ma i fatti parlano con molta più schiettezza: ci sono casi di ottimo successo (ricordiamo ad esempio come Paul McCartney dopo i Beatles formò i Wings iniziando la seconda parte della sua carriera), a volte trampolini di lancio verso il declino (Morgan dopo i Bluvertigo). Tutti i grandi della musica (o i grandi creativi in generale) presentano come comune denominatore il trascinante desiderio di elevarsi più degli altri, ma in solitudine, anche al costo di danneggiarsi o di perdere qualcosa di prezioso. Ma se fosse proprio l’egoismo la chiave di volta della creazione artistica?

Un creativo ha sempre un’immagine lucida di ciò che desidera e condividere un progetto con qualcuno equivale quasi sempre a rinunciare alla sua integrale realizzazione. Non mancano di certo i casi in cui la mentalità di gruppo porta a risultati superiori alle aspettative, ma in genere, come già detto, l’andamento che si presenta è esattamente l’opposto. Il prurito continuo che si prova nel cercare di imporre la propria idea è a mio avviso il fulcro di tutto. Un tiramolla continuo tra le ambizioni personali e i limiti imposti dalla realtà. Anche se può sembrare una contraddizione, avere dei limiti è ciò che fa espandere la propria fantasia. La libertà tanto desiderata da chi fa arte non è che una trappola verso la mediocrità poiché la creatività e il talento sono due cose che non vanno viziate. La giusta dose di critiche e di difficoltà esterne possono mantenere distanti dalla rovina dell’autocelebrazione. Questo fu molto chiaro anche ad un gigante come Freddie Mercury che dopo una scialba pausa in solitaria fece ritorno nei Queen incidendo gli ultimi grandiosi dischi della sua carriera.

Io sono un missile

«Rimase accanto alla finestra/ senza piangere e ballando si mise a scrivere/ parole magiche e pensieri senza senso/ né attitudine/ particolari misteriosi così/ nel blu più blu». Con questa delicatezza e lucidità, in D’Annunzio, Davide Panizza descrive l’innescarsi dell’atto poetico. Fa sorridere quanto la medesima formula sia in realtà ugualmente applicabile a Panizza stesso e alla sua strampalata banda. Per chi non l’avesse ancora capito (o semplicemente ne ignora ancora l’esistenza) sto parlando dei Pop X (o Popper), gruppo musicale italiano nato a Trento nel 2004 come valvola di sfogo di Davide Panizza (voce e tastiera) e Walter Biondani (chitarra). Nel corso del tempo la formazione si è ampliata attraverso collaborazioni e formazioni fisse fino alla forma odierna con il ritorno di Biondani alla chitarra.

Ma cosa c’è di davvero speciale nel progetto Pop X? Praticamente tutto, oserei dire. L’immaginario creatosi nella loro immensa discografia è un caleidoscopio che satura l’immaginazione del nostro cervello. Non – sense e momenti di leggiadra nostalgia si confondono e si schiariscono in continuazione fino a stordirci. Ancora più disorientante è la loro ricorrente pseudo – omosessualità che sfocia in brani leggendari come Froci della Nike. Lo stesso Panizza in un’intervista dichiarò scherzosamente che tutti i componenti del gruppo sono ex – omosessuali riportati sulla retta via tramite i continui sforzi del parroco di Trento. Aldilà dell’umorismo e dell’eccentrica auto – narrazione, i Pop X propongono un’offerta musicale assolutamente variegata e innovativa. Le melodie, l’utilizzo dell’autotune e lo storytelling aprono una breccia quasi dolosa al nostro modo di ascoltare la musica. Il risultato è una riscoperta del valore dell’ignoto e della fantasia, ma in chiave decisamente più matura. Come se non bastasse, tutto questo simpatico teatrino non si esaurisce nemmeno dal vivo dove improvvisazioni vocali e musicali si amalgamano con la foga del pubblico in un’esperienza sempre piacevole.

Potrei continuare ancora a lungo con altre noiose analisi liriche e musicali, ma personalmente ritengo l’ascolto molto più efficace per farsi un’idea propria sul vasto mondo dei Pop X. Lesbianitj è senza dubbio il perfetto punto di partenza per approcciarsi all’allucinante universo popperiano. Dopo di che lasciatevi trasportare, in qualunque direzione.

 

Idioti di grande talento

Ogni volta che mi approccio all’ascolto di qualche nuovo gruppo o artista in generale prendo sempre le distanze dalla sua persona e dai suoi pensieri in modo da distillare l’ascolto dalle impurità del giudizio etico. Tuttavia, mi accorgo come in alcuni casi questo si dimostri piuttosto difficile a causa del contatto diretto tra persona e personaggio. Esistono una moltitudine di artisti la cui incoerenza sul piano personale si schianta a velocità supersonica con la bellezza dei lori stessi brani. Il risultato di questo folgorante contrasto a volte è tanto sorprendente da entrare nella storia, ma non per questo privo di conseguenze.

Può un completo imbecille scrivere buona musica? Anche se ci si aspetterebbe volentieri il contrario, certamente. Prendiamo come esempio i Guns ‘n Roses, una delle più celebri band rock di sempre. Terribilmente cafoni, sregolati e inutilmente autodistruttivi. Da gentaglia simile non potrebbero che uscire strofe masticate di punk anarchico e qualche lento sganassone. Ma a spodestare una simile certezza ci hanno pensato proprio loro con Sweet Child O’ Mine, una canzone d’amore di sincera dolcezza e anche grande energia. A distanza di più di due decenni questa resta la prova più lampante di una dicotomia di difficile metabolizzazione.

Per rendere le cose ancora più chiare spostiamoci in terra nostrana. Viste le sue recenti buffonate, molti di voi conosceranno Marco Castoldi, in arte Morgan. Dotato di un’estesa cultura e di grande talento, Morgan è stato probabilmente uno dei musicisti italiani più interessanti degli anni ’90 e ’00, incidendo con i Bluvertigo dischi dalle sonorità davvero interessanti. Proprio in quegli anni sforna La Crisi, un brano che descrive la discesa verso la follia. È buffo pensare che da lì a poco il suo lato idiota e autodistruttivo si sarebbe divorato la sua intera carriera trascinandolo al limite del ridicolo praticamente in qualsiasi situazione.

Tuttavia, c’è anche chi dell’idiozia ha fatto un uso intelligente. Un esempio? I Blink 182, storica band pop punk californiana. Nei primi anni ’00, all’apice del loro successo, i Blink 182 erano una delle band più irriverenti del panorama pop. Nudità, linguaggio scurrile e rutti al microfono avevano forgiato la loro immagine di ragazzi un po’ idioti, ma genuinamente simpatici. Non a caso il loro crollo artistico coincide con la fine di quel tipo di umorismo, già ampiamente sdoganato verso la metà degli anni ’00.

Da questa manciata di esempi si potrebbe tranquillamente estrapolare un elogio all’idiozia, una difesa nei confronti dell’imbecillità. Salvador Dalì stesso sosteneva di essere troppo intelligente per essere un artista. Può essere quindi l’imbecillità la chiave del successo artistico? Probabilmente no, ma è sicuramente un ingrediente essenziale per rendere le cose molto più interessanti nel bene e nel male.

L’IMPORTANZA DEI CLASSICI

Per mia formazione e per il mio carattere raramente mi espongo apertamente su argomenti di grossa portata. Temo incredibilmente di non uscire vivo in un confronto con qualcosa più grande di me, come possono essere i classici. Tuttavia, con questo articolo colgo l’occasione per sollevare una gracile argomentazione a favore di tutta la musica approdata nel mondo degli ascolti classici e le cui riproduzioni reiterate hanno prodotto una generale e diffusa frustrazione. Quindi perché continua a essere fondamentale ascoltare i classici e perché è importante la loro preservazione?

Prima di cominciare occorre probabilmente definire cosa s’intenda per “classico”.

Un’opera diventa un classico quando riesce a scavalcare l’epoca in cui è stata generata, garantendosi una sopravvivenza protratta nel tempo o, in alcuni casi, anche innumerevoli vite. Un classico è qualcosa di antologizzabile, che attraverso lo studio può essere in grado di trasmettere valori più o meno universali. Detto ciò, è lecito chiedersi quand’è che un’opera d’arte viene promossa a questo grado. Italo Calvino nel suo saggio Perché leggere i classici ci fornisce alcuni importanti spunti per rispondere a questa domanda, applicabili anche nel campo musicale. Qui riporto qualche esempio interessante:

«D’un classico ogni rilettura è una lettura scoperta come la prima»

«Un classico è un’opera che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»

«Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso»

Traslando queste definizioni al mondo musicale, noterete quanto calzino ancora alla perfezione. Pensate a brani come Sweet Child O’ Mine, Heroes o Back in Black e a tutte le volte che li avete ascoltati. Malgrado tutto, c’è sempre un elemento (uditivo o semantico) che sfugge alla nostra attenzione e rimette in loop il sensazionale smarrimento di una prima volta. L’ascolto dei classici ha proprio il ruolo primario di farci ritornare con umiltà dalla parte dell’allievo, dell’ignoranza colmata dalla curiosità. Il fatto che molti appassionati si siano stancati dei classici denuncia che crescendo hanno dimenticato come scindere il puro ascolto musicale dalla cultura stratificata dietro una canzone e dal ruolo che ha ricoperto. Un esempio cristallino è la già citata Sweet Child O’ Mine, canzone rock favolosa e splendidamente genuina, ma simbolo di una cultura morta e nostalgica. Non a caso il testo e l’arrangiamento strappati a quel contesto risplendono di una vitalità che resta facilmente impressa, qualsiasi sia la vostra età.

La preservazione dei classici, intesa come giusto avvaloramento e insegnamento, diventa così facendo il filo conduttore dell’esperienza umana, un prezioso strumento per comprendere il passato e immaginare il futuro. In un momento di grandi trasformazioni in campo musicale (come la morte del sistema pre-anni 2000) la conoscenza dei classici è ciò di cui abbiamo bisogno per lenire il dolore fisico del cambiamento e per plasmare efficacemente nuovi canoni d’ascolto. La retorica del disprezzo dei classici ha il difetto di non offrire un’alternativa ugualmente potente. Le classifiche musicali, piene di canzoni dal sentore quasi usa e getta, hanno smesso da qualche anno di seguire la rotta della ricerca dei classici preferendo il consumo insensato di slavati singoli musicali (in realtà, non fraintendetemi, in circolazione è rimasta anche ottima musica). In fin dei conti, ciò che ha realmente importanza non è tanto il genere di musica, ma il modo in cui siamo indotti a percepirla. La paura più grande in questo caso è semplicemente lo spegnimento di un processo di lunga data i cui benefici sono di innegabile importanza. La mancanza di nuovi classici non farebbe altro che accrescere la forza di quelli già esistenti nella direzione pavida dell’immobilismo nostalgico.

Game Over – videogiochi a tema musicale

La musica nel mondo videoludico è da sempre una componente fondamentale di un buon prodotto di intrattenimento. Alcune soundtrack dei videogiochi non sono solo futili cantilene in 8 bit, ma vere e proprie creazioni d’autore che col tempo si sono conquistate la fama e la gloria di veri e propri brani di repertorio. Super Mario, la saga di Zelda, Tetris, Doom sono solo una manciata di esempi per comprendere l’incredibile importanza di un buon accompagnamento alle nostre sessioni di gioco. Tuttavia, ci sono titoli che da questo punto di vista si spingono ben oltre facendo della musica la protagonista indiscussa. Oggi voglio presentarvi i miei cinque giochi preferiti a tema musicale (almeno parzialmente), alcuni posseduti e consumati fino a infiammare i tendini, altri provati solamente in innumerevoli occasioni a casa di amici.

Wii music ( Nintendo Wii – 2008)

Questo titolo uscito per Nintendo Wii si presenta come un gioco semplice ed intuitivo (come molti titoli della console del resto), perfettamente adatto ad avvicinarsi al mondo videoludico e alla musica. Il gameplay è di comandi semplici, ma ricco nell’offerta musicale: il gioco lascia la possibilità di far suonare al proprio avatar qualunque strumento e di scegliere tra una vasta gamma di brani classici e tradizionali. Ciò che risulta incredibilmente affascinante di questo gioco non è solo la possibilità di imparare finalmente i nomi di famosissime canzoni tradizionali, ma anche la genuinità e l’innocenza di un prodotto colorato e fruibile a qualsiasi età.

Guitar Hero V (Nintendo Wii, Xbox 360, Playstation 3 – 2009)

Immaginate di essere un bambino di 10 anni e di sbavare per i soliti quattro idoli rock. Bene, adesso aggiungeteci la possibilità di suonare una chitarra finta, facendo in salotto intrepide scivolate sulle ginocchia durante interminabili assoli mentre vostro fratello cerca di rubarvi il controller perché state giocando da più di mezz’ora. Ecco, signore e signori, questo è Guitar Hero. Non ha importanza quale titolo della saga abbiate giocato poiché la formula in fin dei conti è sempre la stessa: una scaletta di brani dal pop rock al metalcore da affrontare a difficoltà crescente con un apposito controller a forma di chitarra con cinque tasti. L’unico limite alla vostra innata furia rock sarà quello di non poter sfasciare la chitarra per terra come gli Who senza affrontare le nefaste conseguenze di un genitore infuriato. Tra i vari titoli che ho giocato da bambino, questo è uno di quelli a cui sono maggiormente affezionato. Grazie ad esso per la prima volta ho assaporato la gioia (e ahimè, anche la frustrazione) di essere un chitarrista, ricevendo anche innumerevoli spunti per ampliare la mia conoscenza sui giganti della musica rock.

Lego Rock Band (Nintendo Wii, Xbox 360, Playstation 3 – 2009)

Avete giocato a Guitar Hero fino alla paralisi degli arti superiori e nonostante ciò ancora non ne avete avuto abbastanza. I vostri genitori, con una certa dose di inconsapevolezza, vi regalano un altro gioco del medesimo filone e aggiungendoci, come se non bastasse, un ulteriore colpo di genio: si tratta di un gioco Lego. Per chi fosse completamente estraneo ai titoli videoludici della Lego, c’è solo una cosa da sapere: sono un vero spasso. E questo caso non fa eccezione. Il gioco ripropone le dinamiche di storia e gameplay della serie Rock Band (peraltro pressoché identico a quello della serie Guitar Hero) aggiungendo tuttavia il marchio di fabbrica dei giochi con i mattoncini: una genuina dose di ironia. I personaggi stereotipati e goffi, una tracklist di canzoni festose e infantili (senza rinunciare alla qualità, ovviamente) e valanghe di humor fanno di questo gioco un must-have per gli amanti del mondo a mattoncini e della musica.

Just Dance series (Nintendo, Xbox, Playstation – 2009-2020)

Just Dance è uno di quei giochi che non è passato certamente alla storia per il suo contenuto di testosterone, ma isolato al suo contesto infantile e piuttosto innocente continua da un decennio a divertire appassionati di musica e di ballo. Il gioco si sviluppa sull’imitazione di passi di danza grazie alla tecnologia (ormai affermata) del motion controller che consente di catturare i movimenti fisici del giocatore. La scelta a livello musicale è dettata maggiormente dalle tendenze pop dell’anno a cui fa riferimento, senza correre dietro a inutili dettagli qualitativi. Se proprio volete avere un’idea di cosa significhi giocare a Just Dance, sappiate che sostanzialmente è come iscriversi a Tik Tok. Può essere visto come un suo precursore, in un certo senso.

Raiman Raving Rabbids: TV party (Nintendo Wii – 2008)

Come tutti i giochi della serie Raving Rabbids, anche questo è una piccola gemma. In parole povere, un’orda di conigli schizofrenici prende il controllo delle trasmissioni tv per tutta la settimana. Il risultato non è solo un palinsesto in cui regna la più totale anarchia, ma anche un’efficace satira sulle trasmissioni tv odierne e passate. Tra programmi di cucina, telegiornali e meteo non può che non mancare anche uno pseudo-MTV. Il gioco offre infatti tra i vari minigiochi la possibilità di suonare in un videoclip musicale scegliendo tra quattro strumenti. Malgrado le vostre abilità, i conigli saranno sempre fonte di guai regalandovi grandi momenti di comicità nonsense conditi con generose dosi di umorismo dank.

Tenacious D – una band, un film, un cult

Più di dieci anni or sono, nella selva oscura ed effemminata dei musical, due prodi paladini squarciarono con le loro chitarre il concept stagnante di un genere da anni deriso e privo di grandi trovate. I due cavalieri si chiamavano JB (Jack Black) e Kyle (Kyle Glass), e ancora oggi grazie al film cult di cui sono protagonisti, riempiono stadi interi rinnovando ogni volta la fiamma della loro comicità. Ma cosa rende questi due rocker grassoni di mezz’età il più grande fenomeno di musica demenziale (e non) della storia?

Il gruppo nasce nel 1994 dall’amicizia di due attori, Jack Black e Kyle Glass, i quali quasi per gioco si riuniscono occasionalmente per qualche cover. Nel giro di qualche anno, dopo una discreta gavetta nei club di Los Angeles, incidono il loro primo album contenente la canzone Tribute. Dopo qualche parziale successo, circa 10 anni più tardi trovano finalmente una produzione in grado di supportare la realizzazione del loro film: Tenacious D e il Plettro del destino. Al botteghino il film è un fiasco, ma grazie ai tour di supporto all’omonimo album, diventa rapidamente un cult tra i fan di musica e cultura rock. Nel 2019 è uscito il loro ultimo album Apocalypto, un audio-musical rock low budget ambientato dopo una catastrofe nucleare.

Molti di voi conosceranno School of Rock in cui Jack Black interpreta un musicista squattrinato che si ritrova a insegnare musica a una scolaresca. School of Rock definisce, in una versione infantile ed edulcorata, la linea attoriale e musicale di JB. Infatti, in Tenacious D – The pick of Destiny si riprende la smisurata passione per la musica rock portandola ad un livello successivo. Qui il rock dal tiro dritto e senza fronzoli – lo stesso che ti faceva ascoltare tuo padre in macchina e che ti fa sempre involontariamente muovere il piede – sublima in ogni singola scena. Numerosi sono i riferimenti alle maggiori leggende della storia della musica e altrettanti sono i cameo di grandi rockstar vecchie e odierne: tra i molti citiamo RJ Dio (Dio), Gene Simmons (Kiss) e Dave Grohl (Nirvana/ Foo Fighters). Proprio in questo trionfo di cultura rock i Tenacious D danno luce a una strabiliante dicotomia tra musica magistralmente eseguita (in cui la voce di Jack Black la fa da padrona) e testi ironici dotati anche di una sincera dose di volgarità. Con estrema non-chalance narrano infatti le loro incessanti fantasie sessuali, le loro grandi fumate di erba e di quanto siano indubbiamente il miglior gruppo rock della storia. Questa miscela esplosiva viene ulteriormente condita con una mimica grossolana e impacciata, ma anche spavalda e giocosamente arrogante al tempo stesso. La potenza del film coincide proprio nella perfetta sovrapposizione di musica, comicità e recitazione. Sottostando ai canoni consueti della critica, il film non brilla nell’essere un capolavoro, ma è proprio nella sua essenza grossolana che a distanza di più di 10 anni ancora si fa apprezzare, rincuorando orde di musicisti falliti e ragazzini bullizzati delle scuole medie. I Tenacious D confermano anno dopo anno di essere già un cult senza tempo e che a volte fare schifo è, oltre a una maledetta disgrazia, anche un bellissimo dono.

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