Mace sa come andare oltre il Velo

Il nome di Arthur Schopenhauer (1788-1860) è abbastanza noto per chiunque abbia avuto la possibilità di sfogliare, almeno una volta nella vita, un manuale di filosofia del liceo. Ma non per forza è richiesta una preparazione liceale per conoscerlo, data l’influenza detenuta dalle sue opere sul pensiero occidentale moderno e contemporaneo. Uno dei temi per cui viene maggiormente ricordato è indubbiamente il pessimismo, divenuto iconico, per certi versi, anche nella cultura di massa. 

Nel Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer introduce il concetto di Velo di Maya, mutuato dai Veda, complesso di testi sacri della religione induista. Con esso, il filosofo tedesco vuole riferirsi alla parete invisibile che divide noi, che stiamo in una realtà sensibile e illusoria (tecnicamente, fenomenica), dalla dimensione della verità che sta dietro a questo Velo, (noumenica, secondo la distinzione kantiana, ma non scenderemo in ulteriori dettagli teoretici), dove risiede l’essenza vera delle cose. Per Schopenhauer, la realtà in cui stiamo è ingannevole, non diversa da quella dei sogni. 

Il cinque aprile di quest’anno è uscito MĀYĀ, il secondo album in studio del produttore milanese Simone Benussi, in arte Mace, classe 1982.
Mace cresce nell’ambiente hip-hop del capoluogo lombardo, dove inizia a muoversi praticando l’arte del writing. Poco dopo, ha inizio la sua attività di produttore musicale, che lo porta a un sodalizio artistico con il rapper Jack The Smoker. Il duo, noto col nome di La Créme, rilascia nel 2003 il disco d’esordio L’alba, oggi considerato un caposaldo del genere in Italia. Successivamente, Mace si stacca dalla sfera hip-hop avvicinandosi ai generi funk ed elettronica. In un lungo percorso che lo porta anche fuori dallo Stivale (Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Australia), il produttore accumula una vastissima esperienza musicale e non, capace di incidere vistosamente sul suo immaginario e sul suo bagaglio artistico.
Una volta rientrato in Italia, Mace torna a collaborare con gli artisti della scena rap. Tra gli altri, meritano di essere citati almeno “Chic”, l’iconico singolo che ha lanciato la carriera di Izi, rilasciato nel marzo 2016 e prodotto con Shablo, oppure “Pamplona”, hit estiva del 2017 di Fabri Fibra con i Thegiornalisti. Dopo altre svariate collaborazioni, nel 2021 Mace si prepara a rilasciare il suo primo disco da solista, OBE, anticipato dal singolo, decisamente riuscito (ad oggi sei dischi di platino), “La canzone nostra”, con Blanco (letteralmente scoperto e lanciato nella scena da Mace) e Salmo. Il disco riscuote un buon successo in Italia, e verrà seguito, l’anno successivo, da Oltre, un progetto controcorrente, composto da sole strumentali che oscillano tra la musica elettronica e la musica psichedelica. 

Arriviamo quindi al 2024. Tra febbraio e marzo escono due nuovi singoli: “Non mi riconosco” (con Centomilacarie e Salmo) e “Ruggine” (con Chiello e Coez). Bisogna aspettare i primi di aprile perché veda la luce MĀYĀ, il nuovo album, composto da sedici tracce e arricchito da numerose collaborazioni del mondo urban e pop italiano.  

L’aspetto che va sottolineato, riguardo alle collaborazioni, è il modus operandi scelto dal produttore per lavorare insieme agli altri artisti. Puntando a uno spontaneo tentativo di musica comunitaria, Mace ha deciso di riunire, per diverse settimane, in una villa nei dintorni di San Gimignano (SI), un’équipe di quindici strumentisti, coinvolgendo anche più di venti autori. Il frutto di questa esperienza condivisa è un album in cui ogni artista riesce a calarsi perfettamente sia nella propria prospettiva che in quella della guida spirituale del gruppo (si guardino i video postati dall’artista sul proprio profilo Instagram ufficiale: @macemilano). Mace si fa così sacerdote di una comunità che, muovendosi come un singolo organismo, riesce ad attraversare il velo di esperienza sensibile che separa dal livello successivo di verità. Fuori dal riferimento alla filosofia, ciò che salta fuori dal disco è la genuina intenzione del suo creatore di andare oltre le logiche del mercato musicale – un mainstream corrotto nella sua inarrestabile tendenza all’omologazione – e portare con sé sia i suoi collaboratori che i suoi ascoltatori. Così Mace in un’intervista a Rolling Stones : «Volevo che la mia musica fosse un’esperienza collettiva, mangiavamo e dormivamo nello stesso posto. Avevo come riferimento la musica di fine anni ’60, primi anni ’70 e mi sono chiesto: come facevano i dischi in quel periodo? Perché un disco dei Funkadelic è così speciale, non solo a livello tecnico? Perché da come interagiscono gli strumenti tra di loro si capisce che hanno suonato tanto insieme e oggi questa cosa manca». 

E la ricerca di collettività arriva ad accordare ogni singolo filo del tappeto musicale cucito puntigliosamente dal produttore: nulla ha scampo, dai più fini dettagli strumentali alla scrittura dei testi. «Sono mezzo psicologo e mezzo compositore. Mi piace parlare molto con gli artisti prima di registrare, un po’ perché la parte bella del lavoro è conoscersi e un po’ perché quello che ci diciamo influenza il loro lavoro sui testi» ha affermato, sempre a Rolling Stones. Esemplari, a mia detta, possono essere i testi di “Solo un Uomo” (scioccante nella sua essenzialità, di mano dell’emergente Altea, la cui voce si inserisce sinuosamente nella melodia), o di “Meteore” (in particolare la strofa di Izi, ben ritrovato dopo un lungo silenzio musicale):

 

Solo un uomo (feat. Altea)

[Strofa 2]

La carne cede allo smarrimento

Preda indifesa dell’inganno

[Ritornello]

Sei solo un uomo

Sei solo un uomo

[Strofa 3]

Siamo caduti tutti nella tua trappola

Di giorno tessi, di notte poi fai pratica

E non ti volti a guardarmi annegare

Non sono offesa

Perché sarò piuma

E poi sarò pietra

Perché sarò piuma

E poi sarò pietra

 

Meteore (feat. Gemitaiz, centomilacarie, Izi)

 

[dalla strofa 3: Izi]

Siamo tutti fuori in ‘sta scatola ermetica

Oggi esco coi fiori e la tuta mimetica

Viviamo in guerra, l’amore ci uccide

Se mi ami davvero, ora abbassa il fucile

E invece che dirmi di essere felice

Piuttosto tu insegnami come si fa

‘Sta vita mi lascia il tuo buco nel petto

Se tu vuoi riempirlo, mo spara il proiettile, sparami in fronte

 

E’ interessante indagare il modo in cui i featuring e Mace si siano allineati lungo rette parallele, pur ognuno rimanendo nel proprio ambito e nel proprio stile musicale: In particolare, riguardo al tema della trascendentalità, intesa come elevazione da una condizione terrena, immanente – un superamento del velo di Maya, per riferirsi ancora alla filosofia; esso è uno dei filoni portanti del concept del disco: se da una parte troviamo le sonorità trap di “Praise the Lord”, che conducono l’argomento verso la sfera di alterazione dei sensi in contrapposizione alle pratiche della fede cristiana, dall’altra troviamo il ritornello di “Strano deserto”, cantato da Cosmo, che apre sontuosamente la strada a un drop elettronico dal sapore mistico, quasi ascetico. 

A chiusura del tutto, abbiamo “Il velo di Maya” – qui esplicitato nel titolo dallo stesso autore –, una traccia di otto minuti in cui un impasto di suoni, rumori e melodie si accolgono spontaneamente gli uni dentro gli altri, secondo le visionarie idee del maestro, trascinando l’ascoltatore in un panorama che sembra davvero essere al di là della illusoria percezione sensoriale (a riguardo, si veda anche l’uso delle sostanze psichedeliche, ammesso e giustificato in più occasioni da Mace stesso). 

Per concludere, cito il passo di una recensione ben riuscita di Rapteratura.it : “L’ascesi musicale di Mace buca il velo, l’arte conduce noi tutti oltre le parvenze illusorie”. A più livelli, il produttore sembra voler offrire ai suoi ascoltatori una vera direzione alternativa: al mercato musicale, alla superficiale quotidianità, alla realtà che spesso si fa troppo arida, cioè quando “Tutto ciò che ci rimane è fantasia / La mia pelle ricoperta è fantasia / Le pareti che si sciolgono è magia / Smetto di rеsistere, mi perdo” (Cosmo, in “Strano deserto”).

 

ESPAñITA BONITA: UNO SGUARDO ALLA MUSICA DELLA PENISOLA IBERICA

La musica in lingua spagnola non è esattamente qualcosa di estraneo alle nostre orecchie. Guardando la realtà attraverso l’occhio pop e con un pizzico di memoria, ci potremmo ricordare come la Spanish Wave travolse l’Italia a cavallo tra gli anni ’90 e ’00 inondando le classifiche di pezzi estivi e hit da spiaggia. Lo stereotipo della Spagna come il paese del divertimento sfrenato e dal forte turismo balneare deve forse la sua nascita in parte proprio attraverso la musica. Anche la cultura alternativa risentì dell’influenza iberica portando band come gli Ska-p al successo internazionale.

Ma la musica spagnola si limita realmente solo alla musica da festa o da centro sociale?

Qualche giorno fa, parlando di musica con la mia amica María (alla quale dedico questo articolo), ho deciso di formare una playlist spotify di canzoni italiane in modo da darle un assaggio della produzione nostrana. Cogliendo l’opportunità, lei replicò facendo altrettanto con la musica del suo paese. In mancanza di passati approfondimenti le mie aspettative non andavano oltre a qualcosa di già familiare e un po’ banale, ma come potete immaginare il buon gusto di María mi sorprese piacevolmente.

Contrariamente a ciò che pensavo la Spagna conta un’ottima produzione punk/new-wave di ispirazione britannica. A capo di questo movimento ci sono senz’altro gli Hombres G, gruppo pop rock madrileno attivo dai primi anni ’80 con singoli come Voy a pasarmelo bien (Oggi mi diverto) e El ataque de las chicas cocodrilo (l’attacco delle ragazze-coccodrillo). Gli Hombres G sono celebri anche per il loro singolo Venezia, una canzone in un volgarissimo (ma spassoso) mock-italian.

Un altro punto saliente tra gli ascolti è stata la cantante Amaia, lontana dal mio usuale gusto musicale, ma non per questo non degna di nota. Una voce incantevole e una buona dose di tecnica minimizzano l’ostacolo linguistico dei testi rendendo i brani molto piacevoli.

La produzione rap/trap non si discosta particolarmente da quella italiana e conferma lo spagnolo come lingua dalle ottime potenzialità metriche e musicali. Anche se non inserita nella playlist tra le scoperte degne di riguardo vi è Nathy Peluso, cantante rap argentina naturalizzata spagnola. Il suo stile bizzarro e graffiante si discosta molto dai miei ascolti abituali, ma colpisce l’attenzione per la forte originalità sonora.

Mi sembra chiaro che ciò che quanto presentato è una riduzione dell’immenso scenario della musica spagnola. Io per primo sono ancora agli albori della sua graduale scoperta e da studente di lingue straniere non posso che restarne sempre più ammaliato e affascinato.

Si dice che la lingua sia l’essenza del pensiero e che la musica l’essenza della nostra identità. Conoscere musica diversa equivale quindi ad abbandonare noi stessi in favore della scoperta e dell’accettazione del diverso.

Detto ciò, come dice sempre il batterista valenciano El Estepario Siberiano: «paz y buen rollo!».

Un’eccellenza italiana

La musica, si sa, è una cosa seria. Mettiamo sempre energia, passione, teatralità al servizio di una narrazione che rispecchi i nostri sentimenti e il bisogno innato di dimostrare qualcosa. Fortunatamente nel triste mare sconfinato della musica italiana qualcuno ha avuto il coraggio di spezzare questa atmosfera pettinata e andare un po’ pesante. Il rock demenziale è un’eccellenza tutta italiana di cui spesso ci dimentichiamo e di cui dovremmo andare decisamente più fieri.

La musica demenziale italiana, al contrario di ciò che si possa pensare, vanta una produzione artistico-musicale di tutto rispetto e la presenza di nomi importanti della discografia italiana (Totò Savio, Freak Antony, Stefano “Elio” Belisari solo per citarne alcuni). Furono proprio gli Squallor ad inaugurare nel 1969 il filone demenziale con l’idea di affiancare una produzione irriverente ad un comparto sonoro decisamente accurato. Negli anni ‘80 si assistette all’irruzione degli Skiantos, band rock capitanata Roberto Antoni (in arte Freak Antony). Con gli Skiantos si esasperano gli aspetti più grotteschi della musica, arrivando anche a coniare nuove espressioni volgari e fuori di testa (come «un rullo di cartoni»). In altre parole, Freak Antony e compagnia mostrarono la retta via per fare schifo senza alcun compromesso. Poco più tardi si affermarono gli Elio e le Storie Tese, gruppo famoso non solo per i suoi testi ma anche per le marcate tinte progressive del loro sound. Gli anni 2000 si aprono con il crossover irriverente degli Atroci fino ad arrivare al decennio successivo con i grandiosi Nanowar of Steel e le loro parodie del mondo televisivo e di Internet.

Tutti questi personaggi hanno in comune una ricerca tecnica e sonora ben precisa e curata. Il primo strato di ironia si percepisce già nel contrasto tra i versi bislacchi delle lyrics e arrangiamenti profondamente pianificati. Il risultato è un fenomenale mix di piacere musicale e risate intelligenti su satira sociale, parodie e linguaggio grottesco. Sfortunatamente, l’elevata accuratezza musicale è allo stesso tempo il loro fattore limitante e la demenzialità italiana non riesce a spingersi oltre al mercato discografico italiano (con l’eccezione dei Nanowar of Steel, famosi anche all’estero grazie ai brani in inglese e al contratto con l’etichetta americana Napalm Records).

Far ridere è senz’altro la miglior dimostrazione di talento e farlo con musica di qualità accresce questa percezione. Perciò accantonate per un momento le melodie strappalacrime e le incazzose barre rap e godetevi per un momento qualcosa di realmente unico nel nostro paese.

Playlist: https://open.spotify.com/playlist/3K8OCjWdgspR6Kak3w8fw7?si=ZG14uxrVRCSGx0dM9fym7g

Persone musicali (versione rock/pop)

Ogni musicista che si rispetti è consapevole di come il proprio strumento, attraverso anni di pratica individuale e esperienza, possa trasformarsi in un’estensione del proprio corpo e allo stesso tempo della propria anima. Basandomi sulla mia esperienza personale nel campo dell’ascolto musicale, ho provato a immaginarmi chi tra i musicisti che hanno segnato in qualche modo le mie playlist giornaliere possa al meglio personificare il suo strumento. Il giudizio non si basa tanto sulla tecnica (che rimane comunque consistente), bensì sull’attitudine che più ha influenzato la concezione collettiva del suddetto strumento in tempi moderni. Detto ciò, è plausibile che vi discostiate in qualche modo dalle mie scelte (in alcuni casi anche banali) ed effettivamente lo scenario delle possibili alternative è davvero ampio.
In ogni caso, oggi partiamo con gli strumenti di una classica formazione rock/pop, i più vicini all’idea popolare di fare musica al giorno d’oggi.
Buona (breve) lettura.

Chitarra elettrica: Jimi Hendrix.
È inutile sforzarsi troppo: Hendrix è senza dubbio ancora oggi il re incontrastato della chitarra. La notorietà delle sue esibizioni ricche di esoterismo e contatto fisico con la chitarra ha raggiunto pressoché ogni angolo del globo finendo per unire irremediabilmente la chitarra e la sua anima. La sua immensa profondità spirituale penetrata nella sei corde è la chiave per comprendere il suo eterno ritorno in vita e la continua ricerca dell’imitazione del mito.

Batteria: John Bohnam.
John Bohnam è la definizione di batterista: caotico, rumoroso e perfettamente a tempo. Un vero groove killer. Si narra che la sua precisione alla batteria fosse tale da sconfiggere anche il conteggio meccanico di alcuni tra i più precisi orologi. Esattamente come Hendrix, anche Bohnam ci ha lasciato fisicamente da ormai tanto tempo, ma attraverso i suoi assoli e fill leggendari rivive ogni giorno sulla punta delle bacchette di ogni piccolo e grande rocker.

Basso: Joe Dart.
Joe Dart on the Fender bass: una frase che ogni fan dei Vulfpeck conosce molto bene. Joe Dart è un’elettrizzante personificazione del bass groove e il suo inconfondibile movimento cervicale spacca il tempo meglio dei più precisi metronomi. La conferma della sua bravura leggendaria è il suo stesso pubblico che riprende con la voce i suoi riff più celebri.

Voce: Freddie Mercury.
Solo i bugiardi troverebbero il coraggio di raccontare l’opposto: Freddie Mercury è l’orgasmo canoro per eccellenza, l’emancipazione definitiva delle corde vocali. L’associazione tra voce e Mercury è pressoché immediata, motivo per cui la nostra regina, tra gli infiniti successi, si conquista il anche questo piccolo trono amatoriale.

Pianoforte: Elton John.
Nonostante il suo aspetto da simpatica vecchina inglese, Elton John è stato in passato un vero terremoto per il mondo del pianoforte. Il suo precoce talento ha messo fin da subito in chiaro il legame indissolubile con la tastiera fino ad arrivare all’unione totale all’apice della sua carriera tra gli anni ’70 e ’80. Non importa se vestito da Paperino, da Regina Vittoria o sotto effetto di droghe: nel momento in cui le sue mani posano sui tasti inizia un trascinante incantesimo musicale.

 

 

Anime jazz: lo swing in salsa di soia

In questi ultimi anni grazie alla folgorante ondata di successo degli anime e alla crescente popolarità della sua cucina, il Giappone si è ritagliato uno spazio consolidato nell’immaginario collettivo della cultura occidentale. Ciò nonostante, nella schiera infinta di pregi e difetti del paese del Sol Levante non si accenna quasi mai a un loro talento peculiare: suonare e interpretare la musica jazz.

Il jazz è un genere incredibilmente vasto e complesso nella sua concezione e proprio grazie a questo vastissimo grado di libertà, si concede a infinite possibilità melodiche. La sua complessità è contemporaneamente la sua forza e la sua peggior debolezza che lo rende inaccessibile ai molti. Di conseguenza, oggi di fatto si trova in una situazione di sopravvivenza appesa a pochi ambienti dedicati e a spazi didattici. Tuttavia, i nostri amici nipponici con la loro folle e rara fantasia e con gusto incredibile sono riusciti a dare una nuova spinta a questo genere combinandolo con i loro immensi capolavori dell’animazione. L’esempio più cristallino di questo fenomeno musicale è sicuramente la OST di Cowboy Bebop (1998) firmata Joko Kanno and The Seatbelts. Questi due nomi rispettatissimi del jazz mondiale hanno prodotto una colonna sonora che mischia, oltre a vari generi jazz, anche elementi blues e metal. L’immensa energia compositiva di ogni traccia rende questa soundtrack un capolavoro senza tempo, in grado anche di slegarsi efficacemente dal suo contesto.

Ma quando si parla di anime jazz non si può passare oltre senza aver citato Lupin III (1978). L’anime inspirato al grande manga del maestro Monkey Punch è in maniera meno forse esplicita di Cowboy Bebop un concentrato di estetica jazz e rappresenta un elemento chiave dell’immagine dell’anime stesso. L’eleganza e l’intelligenza musicale di Yuji Ohno riflettono le caratteristiche principali del protagonista e la soundtrack nella sua onnipresenza accompagna Lupin nelle sue sensazionali imprese. Senza dar freni al discorso si potrebbe proseguire con una carrellata di altri esempi come Detective Conan Theme, le OST dello Studio Ghibli, la dolce versione di “Fly me to the moon” di Neon Genesis Evangelion e molto altro ancora, ma a questo punto penso di aver già reso sufficientemente l’idea.

Nessuno avrebbe mai immaginato che la vita di un genere tanto ricco di storia e tradizione occidentale si fosse legata così strettamente all’animazione orientale. Una collaborazione inaspettata, un rapporto simbiotico che esplora ogni volta nuovi livelli artistici dando vita a opere immortali. I giapponesi trovano ogni volta nelle armonie jazz nuove possibilità di espressione e di sfogo cercando di dare materialità alla loro immensa complessità sociale e culturale. L’anime-jazz è una dimostrazione efficace e sintetica del potere del jazz: dare voce ai sentimenti con una lingua universale ai tempi delle società complesse e del mondo globalizzato.

Un po’ di sollievo

Anche senza alcuna necessità di ripeterlo, possiamo dire che i due mesi di quarantena da poco conclusi hanno messo tutti quanti a dura prova. Dopo un’iniziale ed esplosiva botta di entusiasmo, la monotonia delle giornate e il desiderio perverso di tornare ad annoiarsi nella normalità hanno prosciugato le nostre energie mentali e la nostra creatività. In altre parole, era come stare a seccare sotto al sole senza la possibilità di spostarsi altrove.

Nell’aridità della voglia di vivere, poche cose hanno il potere di farti rinsavire e tra queste c’è senz’altro la musica. Pertanto, in questa occasione ho selezionato tra i miei ascolti alcuni tra i brani più gioiosi e pieni di vita, una fine pioggerellina per alleviare la siccità sentimentale di un periodo in cui abbiamo dovuto confrontarci fin troppo con noi stessi.

Perciò tirate un sospiro di sollievo e buon ascolto.

  1. You’ve got a friend in me (Randy Newman)
    Il brano portante di Toy Story, storico film animato della Pixar, è un autentico gioiello. L’arrangiamento sublime a cura del musicista jazz Randy Newman e un testo semplice e sincero, rendono questa canzone l’inno perfetto dell’amicizia e dei buoni sentimenti.
  2. Trieste (Lucio Corsi)
    Lucio Corsi è un faro di speranza nella grigia melma della musica italiana contemporanea. Leggero e poetico come le sue canzoni, il buon Lucio vi incanterà con immensa facilità.
  3. Harmony Hall (Vampire Weekend)
    Harmony Hall è una canzone che trasmette immediatamente l’immagine di un campo pieno di api e fiori profumati. È primavera, la natura si appresta a rinnovarsi nel suo consueto ciclo infinito e voi, in compagnia delle melodie dei Vampire Weekend, farete lo stesso.
  4. I got you (Jack Johnson)
    Non c’è molto da discutere su Jack Johnson: è senza ombra di dubbio l’uomo più tranquillo del pianeta. Nato e vissuto nel grandioso paradiso hawaiano, Jack sforna brani che sanno di mare, sport e una buona dose di riconoscenza alla vita.
  5. Blue Sky (ELO)
    Gli ELO sono già da soli una botta di felicità non indifferente grazie al loro feeling dal sapore vagamente Queeniano, ma se ci aggiungete ancora l’immagine di Baby Groot (Guardiani della Galassia) che balla la vostra giornata non può che migliorare all’istante.
  6. Crocodile Rock (Elton John)
    Crocodile Rock è una canzone in cui tutto il genio del grande Elton John si esprime senza freni: rock ‘n roll, ritornelli scanzonati e una avvolgente atmosfera di gioco rendono questo brano un classico sempre attuale.
  7. Boggie On Reggae Woman (Stevie Wonder)
    Il groove trascinante di questo brano è già chiaro ai primi secondi d’ascolto. Tutto s’incastra alla perfezione rendendo fondamentale anche il più semplice degli elementi. Una buona ricetta funk che ci ricorda la dimensione collaborativa della musica.
  8. I’m on my Way (The Proclaimers)
    Lo shuffle semplice e un fortissimo accento scozzese vi cattureranno già dal primo ascolto. I Proclaimers dimostrano ad ogni loro canzone che non è necessario essere dei virtuosi per un ottimo songwriting.
  9. Heart of the Country (Paul McCartney)
    Brano scritto da McCartney all’inizio della sua vita nelle highlands scozzesi, descrive con efficace sintesi la vita semplice della campagna: animali, tanto verde e notti lontane dal rumore dal chiasso cittadino. Il tutto è accompagnato dal suo immenso genio musicale e dall’appoggio della moglie Linda.
  10. Changes (David Bowie)
    Concludiamo la classifica (che classifica in realtà non è) con Changes di David Bowie, un classico che come altri non smette mai di sorprenderci. La canzone affronta il tema del cambiamento che in un periodo come questo è quanto mai attuale. Gli arrangiamenti equilibrati e cadenzati danno completezza a questo piccolo capolavoro del Duca Bianco.

Per ragioni di tempo e spazio sono stato costretto a escludere molti brani, tuttavia vi lascio ancora qualche menzione onorabile: September (Earth, Wind and Fire), Sir Duke (Stevie Wonder); I’m a Believer (qualsiasi versione), I don’t feel like dancin’ (Scissor Sister), Lollipop (Mika).

Playlist Spotify: https://open.spotify.com/playlist/4aafOQISC3EWyTzy0hN1K5?si=-lcKkmzCRuyS_AwPYBM11g

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