5 Maggio 2017 | Lo sguardo letterario
Inizia il conto alla rovescia per la XXX edizione del Salone del Libro di Torino (18-22 maggio), che quest’anno prende il nome di Oltre il confine, e «Lo sguardo letterario» non può soprassedere al parlare dell’evento speciale. La rubrica nasce come focus sul dialogo che gli autori italiani instaurano con la geografia, ma questa volta, all’inverso, si parlerà di come la città – Torino, nella fattispecie – racconta gli autori. E non si tratta solo di autori italiani, ovviamente. Il Salone, difatti, è da sempre una grande finestra sul mondo e convoglia scrittori, intellettuali, studiosi e personaggi di spicco di ogni ambito della cultura e dell’informazione e da molti angoli del pianeta. Il capoluogo sabaudo, dunque, brulicherà di grandi menti.
È stato un anno duro per il Salone, che ha dovuto affrontare la sfida con Tempo di Libri, la neonata fiera del libro che si è tenuta lo scorso aprile a Milano la quale, si temeva, mettesse in pericolo sia il numero di editori partecipanti al Salone, sia gli ingressi alla fiera di Torino.
Quest’anno, per quanto riguarda la letteratura straniera, il programma è ricco e denso: insomma, ce n’è per tutti i gusti. Dalla Francia arriveranno Daniel Pennac con Il caso Malaussene, nuovo e agognato capitolo del rocambolesco ciclo di Belleville, e Annie Ernaux, autrice del pluripremiato libro Gli anni. Ma ci saranno anche la penna americana Richard Ford, a colloquio con Sandro Veronesi, e un tributo speciale a Kent Haruf – nome che torna a risuonare nelle librerie con la Trilogia della Pianura, a distanza di più di due anni dalla morte dell’autore –, a Furore di Steinbeck e a Stephen King. E poi, ancora, parleranno il più noto autore indiano contemporaneo, Amitav Gosh, e il cileno Luis Sepulveda, mentre l’eccezionale Roberto Gifuni s’immergerà nelle opere di Bolaño. Gioca, invece, in casa Roberto Saviano, che presenterà La paranza dei bambini.
Oltre ai tradizionali incontri a Lingotto fiere, il XXX Salone ha in serbo altri progetti più eversivi, dai reading ad alta quota, a bordo della mongolfiera del Balon, a Jules Verne letto nel sommergibile del Valentino. La letteratura farà, si, da padrona, ma verrà accompagnata da un’ancella speciale: la musica, che sarà un’altra protagonista del salone. A margine dell’evento, infatti, è previsto un nutrito calendario di concerti nell’area denominata Note-Book, in via Cigna.
E, se il troppo brusio dà alla testa, il rimedio è bell’e servito: ci sarà una pionieristica Isola del silenzio, a cui si potrà accedere pagando con le Banconote da Dieci Minuti di Silenzio donate ai vari stand degli editori. Perché, senza il silenzio, non c’è musica, non c’è letteratura, non c’è pensiero.
Il programma del Salone è stato presentato il 27 maggio a Palazzo Carignano dalla triade Nicola Lagioia, Massimo Bray e Mario Montalcini e, in questa occasione, si è parlato di come l’organizzazione dell’evento abbia richiesto un duro lavoro d’equipe, una forte tenacia e, soprattutto, una grande passione. Passione che è emersa soprattutto dalle parole di Nicola Lagioia, direttore di quest’edizione, che ha a più riprese spiegato quale sia il valore del libro. Il libro non è una merce di scambio, resiste a ogni algoritmo, ha dichiarato. I libri scavalcano i muri e vanno, come recita il titolo del Salone, Oltre i confini.
6 Aprile 2017 | Lo sguardo letterario
Il signor Palomar è un uomo tutto vista, uno scrutatore seriale che separa un tassello dal mosaico della vita e lo osserva con puntiglio. Il suo è un nomen omen: difatti, il protagonista eponimo del libro di Italo Calvino si chiama come un osservatorio della California. A differenza di quest’ultimo, però, egli non si limita soltanto a guardare, ma il suo occhio e la sua mente lavorano di concerto e ciò su cui si posa il suo sguardo diviene il centro da cui ramifica una sottile riflessione.
La sua disamina, che è organizzata in tre macro-aree tematiche (riflessioni di natura antropologica, esperienze visive, speculazione) e dalla quale poco viene escluso, prende avvio dall’inquadratura di un’onda. Poi, il focus si sposta ora sul seno di una donna, ora su qualche animale o su alcuni luoghi tipici del tran-tran quotidiano, fino ad arrivare alle cose intangibili e, inevitabilmente, in chiusa di libro, alla morte. Il modus operandi è all’incirca questo: ritagliare un segmento di vita; osservarlo a fondo e quindi descriverlo con perizia; interrogarsi; riflettere e cercare di rispondersi. Qualsiasi sia l’oggetto su cui ci si sofferma, la caffeina della meditazione deve sempre essere la curiosità.
Un uomo curioso non può che viaggiare, e, infatti, Palomar è punteggiato di osservazioni che traggono la loro linfa dalle città visitate dal protagonista. Nelle sezioni Palomar in città e I viaggi di Palomar, egli veste i panni di un’improvvisata quanto anomala guida turistica, prende inconsapevolmente il lettore per mano e lo porta con sé. La sua è un’angolazione inedita e, nel relazionare i luoghi che visita, sceglie sempre non una veduta d’insieme, una panoramica della città, ma un primo piano di un posto o di un elemento di volta in volta diverso. Cosa annota, ad esempio, di Parigi? Non i monumenti più conosciuti o gli angoli più scontati, ma quelle botteghe caratteristiche in cui ha fatto la spesa. Prima la charcuterie, dove «il suo sguardo trasforma ogni vivanda in un documento della storia della civiltà»: siamo, dunque, nell’orbita delle riflessioni di natura antropologica. Il cibo elaborato disturba i suoi sensi e gli impedisce sia di associare un sapore al piatto, sia di scegliere risolutamente cosa comprare. Palomar è convinto di questo: c’è un legame atavico tra l’alimento eletto e l’elettore; eppure, lui non sa cosa desiderare, in quale pietanza riconoscersi. Allora, disturbato, desidera andare via. Ma lo stesso sperdimento lo coglie anche in una fromagerie e, messo in difficoltà dall’ampia scelta di formaggi, non è in grado di decidere su due piedi. Perciò, il suo sguardo si fa enciclopedico ed egli inizia a catalogare i formaggi e a esaminarne i nomi: «Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile». Qui, l’elucubrazione è insieme antropologica e linguistica. Come nel caso della gastronomia, anche nella formaggeria il protagonista osserva le cose che vengono vendute come se fossero reperti museali: «Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma».
Poi c’è Barcellona con il suo singolare gorilla albino, un esemplare unico che dà adito a una meditazione sulla diversità e, soprattutto, sulla comunicazione. Il gorilla canuto, dietro alla vetrata dello zoo, ha con sé un unico oggetto: il copertone di uno pneumatico. Cosa può significare con questo? Palomar qui parte a briglia sciolta: «che cosa meglio d’un cerchio vuoto è in grado d’assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli? […] come il gorilla ha il suo pneumatico che gli serve da supporto tangibile per un farneticante discorso […] così io ho quest’immagine di uno scimmione bianco». E così, spiega l’incompletezza del linguaggio, l’indicibilità di alcune sfumature del pensiero. Di nuovo a Parigi – ma non si conosce il rapporto temporale tra le situazioni descritte nei diversi capitoli -, si diletta a osservare un’iguana del rettilario del Jardin des Plantes. Ma questi sono solo alcuni dei tanti animali che costellano le pagine del libro.
Ci sono, infine, i viaggi lunghi in luoghi lontani dalla Roma in cui abita, come quello in Messico o in un non meglio specificato paese dell’Oriente. Di quest’ultimo, Palomar non vuole offrirci uno scorcio del paesaggio o un preludio dell’atmosfera, piuttosto racconta nuovamente di una bottega, un bazar in cui acquista delle ciabatte spaiate. Chi mai avrà l’altra metà della coppia? Si chiede il protagonista. Quale catena di errori succederà a questa anomalia? Come si può intuire, le osservazioni, mai epidermiche, di Palomar muovono da una porzione ben segmentata della realtà, per poi estendersi fino ai più disparati campi, dalla metafisica, all’antropologia, alla semiotica, tra gli altri.
L’avventura di Palomar inizia sui giornali. L’ultimo romanzo – in cui, però, la forma romanzo viene sfaldata, a partire dall’assenza di una precisa successione temporale delle situazioni presentate – di Calvino nasce a puntate sulla terza pagina del «Corriere della sera», per poi migrare ad altre testate e, solo in un secondo momento, i pezzi vengono raccolti e confezionati nella forma libro. Il volume è alquanto autobiografico, l’autore, perciò, traspare nitidamente in filigrana dai pensieri di Palomar – che sono comunque alla terza persona singolare – e il risultato ottenuto da Calvino è un compendio dell’arte dell’osservare. Il protagonista talvolta si propone di immergersi nelle acque profonde della riflessione e di risalire a galla con gli occhi pieni di ciò che ha visto, mentre altri lacerti sono vere e proprie prove dell’estro dell’autore nell’ecfrasi.
5 Marzo 2017 | Lo sguardo letterario
Qual è il ruolo delle donne all’interno della letteratura? Si chiede Virginia Woolf nel 1929, nel celebre saggio Una stanza tutta per sé. Se Shakespeare avesse avuto una sorella – chiamiamola Judith – con il tarlo della scrittura, cosa ne sarebbe stato di lei? Probabilmente sarebbe morta suicida, si risponde l’autrice: è impensabile che, ai tempi di Shakespeare, una donna possa aver avuto lo stesso genio del drammaturgo inglese. I manuali di storia della letteratura pullulano, infatti, di nomi maschili. Non perché le donne non abbiano davvero lasciato il segno, ma semplicemente perché le chiavi della cultura sono sempre state nelle mani degli uomini. Prendiamo come esempio il caso italiano: fino al Novecento non incontriamo nessuna Jane Austen, o, comunque, nomi come Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Amalia Guglielminetti, Sibilla Aleramo raramente si trovano nella rosa degli autori che si insegnano al liceo. Eppure molte delle nostre scrittrici hanno davvero fatto la storia, e questo è il caso di Grazia Deledda, l’unica donna italiana ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura.
La Deledda è stata proposta per l’ambìto premio a seguito del successo del suo più celebre romanzo, Canne al vento, scritto mentre si trovava a Roma e pubblicato prima a puntate per «L’Illustrazione Italiana», poi in volume nel 1913, anche se il Nobel è arrivato solo tredici anni dopo. Il libro è un grande affresco paesano: a fare da sfondo alla vicenda è, infatti, Galte, un piccolo paese della Sardegna ricco di costumi e tradizioni secolari. L’autrice, dunque, rimane inscindibilmente legata alla sua isola natale, tanto da farne rivivere i luoghi nei suoi romanzi.
Il protagonista della storia è Efix, il servo delle dame Pintor, che vive in condizioni di seria indigenza e che ha a cuore le sue padrone più della sua vita. In realtà, Efix non ha davvero i tratti del servo, ma si presenta più come una sorta di protettore e di saggio ed è lui a pronunciare, nelle ultime pagine, la massima che dà il titolo al libro: «siamo canne, e la sorte è il vento». Egli vive tutto solo in una capanna vicino al podere delle Pintor, di cui è incaricato di occuparsi. Ha sempre una parola conciliante per tutti e la sua etica è impeccabile. Non viene nemmeno più pagato per il lavoro che svolge perché le sue tre padrone (Ester, Ruth e Noemi), nonostante cerchino di fare il possibile per nasconderlo, sono cadute in disgrazia. Esse rappresentano la vecchia nobiltà terriera, incagliata nel passato e incapace di aprirsi al presente. La loro stessa casa è spia di questo moto retrogrado: essa sembra pervasa dalla morte e il fatto che sia attigua al cimitero non fa che confermare la percezione di un’atmosfera funebre.
L’arrivo di una misteriosa lettera gialla è il motore da cui la vicenda prende il suo avvio. Nella missiva è annunciato l’arrivo di Giacinto, il figlio di Lia, la quarta delle sorelle Pintor. Quella di Lia è una presenza ingombrante e incorporea all’interno del libro: non compare mai in carne ed ossa – anche perché al tempo della storia è già morta -, ma i ricordi legati a lei si affastellano nella mente dei personaggi, tanto da restituire al lettore l’immagine a tutto tondo di una donna che è riuscita nell’intento di ribellarsi all’acquiescenza delle sorelle e a un padre asfissiante come Don Zame, fuggendo lontano dal paese. Le sorelle non le hanno mai perdonato la fuga, e ora devono fare i conti con l’arrivo del figlio. Chi è davvero Giacinto? Che intenzioni ha? Perché è così refrattario a parlare del suo trascorso? Solo il servo riuscirà a carpire la vera identità del ragazzo.
Giacinto è il personaggio, per certi aspetti, più simile a Efix. Tutti e due, infatti, serbano un segreto sul loro passato peccaminoso. Ma, mentre Efix vive tutta la propria vita all’insegna dell’abnegazione per espiare il peccato indicibile, il ragazzo non sembra dar molto peso alle conseguenze delle proprie azioni. L’espiazione è, quindi, uno dei grandi temi che il romanzo affronta. Ma non l’unico: la vicenda è tutta un intarsio di segreti, passioni inconfessabili, matrimoni, credenze popolari.
C’è, in Canne al vento, la stessa atmosfera in cui sono immerse le storie della Austen, con in più un alone di mistero, una tensione sapientemente calibrata. Il tutto raccontato con una lingua moderna e sorprendente se si considera l’anno di pubblicazione del romanzo. Sono passati più di cent’anni dalla sua prima edizione, e il capolavoro di Grazia Deledda rimane una lettura sempre consigliata e invischiante.
10 Febbraio 2017 | Lo sguardo letterario
Gente in Aspromonte è il libro più ricordato di uno scrittore oggi immeritatamente tra i più dimenticati: Corrado Alvaro. Ad essere più precisi, Gente in Aspromonte è una raccolta di novelle in cui l’autore ripercorre, con l’ausilio della memoria, l’infanzia trascorsa a San Luca, un piccolo paese in provincia di Reggio Calabria. Da questo scavo nel passato risulta non un’autobiografia, bensì una serie di racconti, crudi, oggettivi, sulla vita degli abitanti dell’Aspromonte e sul mondo rurale in sé, con le sue tradizioni, la sua arretratezza e in particolare i suoi rapporti di potere: Alvaro guarda senza diaframmi la dura realtà degli oppressi, con l’occhio del romanziere e giornalista vocato al realismo e sempre attento ai problemi che attanagliano il mondo.
«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque», comincia a raccontare l’autore nella novella eponima che apre la raccolta. E non è, infatti, bella la vita di Argirò, pastore aspromontano e padre di quattro figli, che deve fare i conti, in un braccio di ferro spietato, con la sventura. Quelli come lui vivono in montagna, in case di frasche e di fango e si stupiscono quando, scendendo in città, scorgono case di muri. Quelli come lui devono ogni giorno tribolare per affrontare le asperità della vita, la ferocia dei potenti e dare da mangiare alla propria famiglia. Ma i tormenti sembrano non aver fine: prima Argirò viene licenziato da Filippo Mezzatesta, uno degli impietosi proprietari terrieri dell’Aspromonte; poi il torrente manda all’aria il suo raccolto. La famiglia del pastore è costretta, così, a un nuovo giro di vite: la moglie deve trovare impiego come domestica e il figlio Antonello viene mandato in città a lavorare, mentre Argirò percorre ogni giorno venti chilometri a piedi per fare servizio di trasporto tra il paese e il mare.
In questa catena di disgrazie, la nascita del figlio Benedetto si carica, per la famiglia, di grandi aspettative. Benedetto, difatti, si scopre da subito molto sveglio e veloce nell’apprendimento e Argirò decide di stringere ancora i denti e farlo studiare in seminario, perché possa in futuro riscattare la famiglia. Il vero protagonista della novella, però, non è Argirò, e nemmeno Benedetto. È Antonello, che, al pari di Agostino nella Malora di Beppe Fenoglio, deve vivere un’esistenza sacrificata e insapore come il pane e l’acqua di cui solo si nutre per supportare la famiglia e permettere al fratello più brillante di prendere i voti. Deve perfino rinunciare all’amore: «non ti invischiare, non t’innamorare, altrimenti siamo perduti» lo avverto il padre. Sarà proprio Antonello a insorgere, mettendo in atto una degna vendetta per liberare i compaesani dalla piaga-Mezzatesta.
Questa è una delle tredici storie condite di miseria e sopraffazione che Alvaro racconta, non senza una certa dose di moralismo, per far sentire la voce degli oppressi e fornire la testimonianza diretta di una terra in cui, all’inizio del Novecento, la modernità non è ancora riuscita a fare capolino. Scrive della Calabria nonostante la lontananza fisica dalla regione del sud Italia; torna col pensiero a San Luca anche dopo essere emigrato a Milano e aver viaggiato in Francia e Germania. Ma questo non deve stupire: come insegna Pavese «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (C. Pavese, La luna e i falò).
5 Dicembre 2016 | Lo sguardo letterario
Un nome di donna spicca all’interno di una letteratura quasi di monopolio maschile quale quella italiana. Il nome è Elsa, il cognome Morante. Segni particolari? Grandissima capacità affabulatoria, per merito della quale sono nate vere e proprie pietre miliari della narrativa del Novecento come Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo e La storia.
Elsa Morante nasce a Roma e qui muove i suoi primi passi da scrittrice. Sempre nella capitale, conosce lo scrittore e futuro marito Alberto Moravia e frequenta i più importanti ambienti intellettuali. Sebbene profondamente immersa nella città natia, l’autrice legò il suo nome anche a un altro affascinante luogo: Procida, un’isola tutta limoni e colori che contorna Napoli.
È il 1955 quando dalla penna di Elsa, nel giardino dell’Albergo Eldorado di Procida, nasce L’isola di Arturo, che Asor Rosa considera il suo risultato più alto e poetico e che, nel 1957, vince il Premio Strega. Procida è il palcoscenico su cui si muovono i personaggi del libro, ma non rimane un semplice sfondo: acquista un ruolo di rilievo per il significato che assume per il protagonista e narratore, Arturo Gerace. Arturo, orfano di madre e quasi abbandonato dal padre giramondo, vede nello spazio chiuso e ben delimitato dell’isola una sorta di grembo materno in cui rifugiarsi. Questo si comprende fin dalle prime pagine, in cui il narratore, dopo essersi presentato, dedica un capitoletto intero alla sua isola: disegna le strade, il porto, le botteghe, la chiesa, parla del penitenziario – nota triste e dissonante in questa musica festosa che è Procida – e della sua abitazione, la Casa dei Guaglioni. La descrizione è particolareggiata ed estremamente realistica e la vita sull’isola corrisponde all’infanzia e adolescenza di Arturo, trascorse in assoluta serenità: «La felicità per me era sempre stata una compagna naturale del mio sangue», conferma la voce narrante.
Arturo vive in uno stato di robinsonismo selvaggio: «Avrei voluto, con questo libro, scrivere una storia che somigli un poco in certe cose a Robinson Crusoe, cioè la storia di un ragazzo che scopre per la prima volta tutte le cose più grandi, più belle e anche quelle brutte della vita» dichiara la Morante (in un’intervista che compare all’interno del documentario di Francesca Comencini). Egli è in sintonia con la natura e totalmente ostile nei confronti delle donne, eccezion fatta per la sua cagna Immacolatella: «esse mi parevano figure goffe, quasi informi. Erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte […] certo io non mi sarei mai innamorato di una di loro, e non volevo sposare nessuna». Le uniche figure femminili che lo interessano sono quelle «regali e stupende» delle sue letture, ma è convinto che siano una mera invenzione libresca. Tale misoginia è un tratto ereditato dal padre, Wilhelm Gerace, che Arturo eleva ad eroe: «La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza, ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane». Se si considera il romanzo un sistema di pianeti, Arturo è un satellite che orbita attorno al padre, mentre Wilhelm è attratto da un altro personaggiopianeta, il carcerato Tonino Stella. Astro a parte è invece Nunziatella, il terzo elemento che mette in crisi l’equilibrio creatosi tra Arturo e il padre, incrinando definitivamente anche l’adolescenza del protagonista: il tre non è mai un numero felice, come ci insegna Le affinità elettive.
Nunziatella entra nella Casa dei Guaglioni in qualità di giovanissima sposa del padre, ma anche lei è totalmente trascurata da Wilhelm. Inizialmente, come in una sorta di strambo teatrino edipico, Arturo è avverso a Nunziatella perché viene a inserirsi tra lui e il padre e perché, facendo entrare una donna nella loro casa, Wilhelm va contro alla misoginia che il figlio condivide con lui. Ma l’avversione iniziale si tramuta in amore: Arturo arriva a dichiararsi a Nunziatella e a perdere quella serenità che aveva caratterizzato la sua vita fino al suo arrivo. Tenta addirittura di compiere un gesto disperato quale il suicidio, che, per fortuna, non va in porto. Alla fine, Arturo è costretto ad abbandonare la sua isola felice – ormai non più tale -, ovvero l’adolescenza, per salpare verso l’età della coscienza e della maturità: il romanzo si chiude con Procida che si nasconde alla vista del ragazzo, mentre lui e il balio Silvestro si stanno allontanando in nave.
L’isola di Arturo è dunque un Bildungsroman, un romanzo di formazione, in cui sono innestati alcuni motivi fiabeschi. Il protagonista, infatti, affronta una serie di prove iniziatiche, molte legate alla sua prima pulsione amorosa, che lo traghettano verso la maturità; inoltre, come rileva Giovanna Rosa (G. Rosa, Elsa Morante), sono presenti nella narrazione alcuni oggetti-amuleti che scandiscono l’avventura iniziatica di Arturo: l’orologio del padre, l’anello di Silvestro, gli orecchini di Nunziatella. Anche Procida, seppure isola reale ed evocata con dovizia di particolari realistici, assume le fattezze di un luogo fantastico e mitico: «Nelle figurazioni dei miti eroici, l’isola rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle terre ignote. L’isola, dunque, è il punto di una scelta: e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui nella sua isola l’eroe-ragazzo Arturo» (E. Morante, quarta di copertina della riedizione negli Struzzi del ‘75).
Insomma, l’astuzia della Morante è consistita nel prendere un luogo concreto e vestirlo di caratteristiche simboliche, per farne la concretizzazione della ridente giovinezza che il protagonista deve salutare.
5 Novembre 2016 | Lo sguardo letterario
Senza il contributo offerto dagli autori liguri, la letteratura italiana risulterebbe mutila e significativamente più povera. La Liguria, infatti, ha visto un cospicuo proliferare di autori, specie nel XX secolo: è la regione natìa del mostro sacro del Novecento italiano Eugenio Montale, del poeta crepuscolare Sbarbaro, di Sanguineti e, volgendo lo sguardo alla stretta contemporaneità, di Umberto Fiori.
Uno scrittore il cui nome è indissolubilmente legato al capoluogo ligure, Genova, è Giorgio Caproni. L’autore, nato a Livorno ma genovese per adozione, ha esordito nel primo Novecento e la sua produzione è perdurata fino agli anni Ottanta. La critica lo considera un antinovecentista, ovvero un poeta che non è possibile inquadrare in quelle che erano le due mode poetiche degli anni a mezzo tra le due guerre mondiali, la linea montaliana e l’Ermetismo, ma che ha percorso una strada tutta sua. Proprio per questa natura di outsider la sua storia poetica è rimasta a lungo, utilizzando un’espressione di Pier Vincenzo Mengaldo, «subacquea». Ma la produzione di Caproni è tutt’altro che di second’ordine, e Mondadori, che l’ha ben compreso, l’ha pubblicata nella collana I Meridiani, in cui figurano i più grandi nomi della letteratura italiana ed estera.
Per addentrarsi nelle liriche caproniane è necessario ricorrere a una dichiarazione dell’autore che è stata eletta a caposaldo della sua poetica: «Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri». L’adesione al quotidiano è, dunque, irrinunciabile
per scrivere versi, secondo Caproni. Non sono, però, solo bicchieri e stringhe ad essere ospitati nelle sue poesie: anche la funicolare, gli spaghetti, le biciclette acquistano dignità poetica ed entrano, come parte della quotidianità, di diritto nella sua opera. Perfino le sue due muse, la madre Annina e la moglie Rina, sono “in ciabatte”, colte cioè nel loro tran tran quotidiano e quindi inevitabilmente lontane dalle donne della tradizione, dalle Beatrici e dalle Laure. Oltre ad oggetti e persone della routine del poeta, prendono posto nelle sue composizioni anche luoghi come latterie, bar, e, immancabilmente, Genova.
Gli anni genovesi (1922-1933) sono decisivi per la formazione del poeta, nonché dell’uomo, e l’autore stesso confida: «La città più mia è, forse, Genova. Là sono uscito dall’infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato […] ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi». Là, inoltre, il giovane Caproni intraprende i suoi studi di violinista, poi interrotti nel momento in cui realizza di essere vocato alla poesia. Le liriche che da qui in poi compone sono spesso
un tributo alla città che l’ha introdotto al mestiere di scrivere. Litania (Il passaggio di Enea), in particolare, consente di scandagliare il sentire che lo legava alla sua città adottiva. I versi, fedeli alla poetica del quotidiano, abbracciano la realtà nella sua interezza e mostrano un’ampia gamma di oggetti, toponimi, autori liguri e sentimenti. Ne risulta un rapporto controverso con la città: Genova è «delizia» ma anche «croce», è «fidanzata» e subito dopo «bagascia». È «mercantile, / industriale, civile», ma anche marina e solare. Il ritmo piatto, da litania, contrasta con lo shock che i versi provocano nel lettore, sia per le parole impoetiche che contengono, sia per il continuo contraddirsi dell’autore. In questa Genova camaleontica tutto è possibile, anche arrivare tranquillamente in paradiso. Ne L’Ascensore (Il terzo libro e altre cose), infatti, il poeta immagina di poter prendere l’ascensore di Castelletto per salire in cielo ed incontrare Annina, la madre morta. L’incontro è desublimato, già a partire dal mezzo che permette l’ascesa, un normalissimo ascensore pubblico che connette una piazza di Genova al belvedere del quartiere Castelletto (ora, all’ingresso, per ricordare la poesia, è stata affissa una targa che riporta alcuni versi de L’Ascensore).
Infine, una tappa obbligatoria per chi volesse fare un tour nei luoghi di Caproni è Piazza Bandiera, con la statua di Enea che sorregge Anchise e Ascanio. Il titolo della raccolta Il passaggio di Enea è ispirato proprio alla storia del monumento, che, prima di venire collocato in Piazza Bandiera, ha fatto il giro delle piazze genovesi. La statua di Enea, rimasta integra nonostante gli spostamenti e le guerre, diventa per l’autore il simbolo dell’uomo che, nonostante tutto, resiste al tempo. Dell’uomo che, nel secondo dopoguerra, davanti alle macerie è «veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento».