EMILIO SALGARI. Il grigio della vita, il colore della letteratura

«La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere»: queste sono le parole vergate da Emilio Salgari, autore di romanzi e racconti d’avventura, padre del pirata Sandokan e del Corsaro Nero. Già, perché il celebre scrittore, a scapito di ciò che si potrebbe pensare, visse una vita tormentata, di segno opposto rispetto a quella dei protagonisti dei suoi libri. Veronese di nascita, a sedici anni si trasferì a Venezia per compiere i suoi studi all’Istituto Nautico; il suo sogno? diventare capitano di una nave. Il desiderio, però, non si avverò, perché Emilio interruppe gli studi al secondo anno di corso, dopo essersi imbarcato solamente una volta. Pochi furono i viaggi reali che compì, molti, invece quelli mentali e fantastici: i romanzi di Dumas e Verne, i libri della biblioteca civica, le mappe, gli atlanti e la sua mente vulcanica gli permisero, infatti, di conoscere terre lontane senza mai spostarsi; «scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli», affermò, a ragione. Egli fu, quindi, un autore di libri di avventura decisamente poco avventuroso; quello che desiderava fare e che, per una qualche ragione, non era in grado di mettere in atto nella realtà, riusciva a realizzarlo solamente grazie a carta e penna.

Terminata la poco fortunata esperienza scolastica, si dedicò all’attività giornalistica e iniziò a pubblicare i suoi primi racconti e romanzi. A trent’anni sposò un’attrice di teatro, Ida, che gli diede tre figli. Dopo la nascita della primogenita, la famiglia si trasferì in Piemonte, nel canavese; a quest’altezza cronologica, il nome dello scrittore non era ignoto, anzi, Salgari aveva raggiunto un discreto successo, anche se non era ben visto nei circoli letterari, perché i suoi romanzi venivano considerati troppo moderni e di poco spessore. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento diede alle stampe quello che è considerato il suo capolavoro, Il corsaro nero; il successo non fu mai accompagnato dalla prosperità economica: l’autore, difatti, visse una vita instabile e non riuscì né a far fruttare, a livello pecuniario, il proprio talento né a gestire gli scarsi guadagni. Infine, dopo la parentesi canavese, i Salgari si trasferirono per qualche anno a Genova, per poi tornare definitivamente in Piemonte, questa volta a Torino, in Corso Casale.

La malinconia fu un sottofondo costante della vita dello scrittore e diventò più acuta all’inizio del Novecento, quando Ida – moglie di Emilio – iniziò a dare segni di squilibrio e venne internata al manicomio; inoltre, anche la figlia Fatima non godeva di buona salute, poiché si ammalò di tisi. A questo punto, i debiti si moltiplicarono; lo scrittore iniziò a scrivere incessantemente, senza quasi ricontrollare ciò che ideava, per sostentare la famiglia e pagare le cure a Ida.

La vita di Emilio Salgari, a differenza dei suoi libri, non ebbe un lieto fine; nel 1909, l’autore tentò il suicidio e nel 1911 ripeté il gesto efferato, riuscendo nell’intento. L’epilogo della storia è degno di un’opera tragica: il romanziere, prima di togliersi la vita, scrisse alcune lettere – ai familiari, ai giornali, agli editori –, poi salì sul tram armato di rasoio e, giunto nel bosco di San Martino, nella zona collinare appena sopra Corso Casale, si uccise con la pratica giapponese dell’harakiri, squarciandosi l’addome e la gola; il suo corpo dilaniato venne successivamente ritrovato da una domestica. Persino il funerale passò in sordina, perché coincise con i festeggiamenti, nel capoluogo piemontese, per i cinquanta anni dell’Unità d’Italia.

Le ultime lettere attestano la premeditazione del suicidio, nonché l’amarezza dell’autore; Salgari si rivolse così agli editori, denunciando la propria condizione: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». Ai figli, invece, scrisse di non potere lasciare loro che pochi soldi: «Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600 […]».

La vera, inestimabile, eredità che lo scrittore ha lasciato è, in realtà, costituita dai moltissimi libri partoriti dal suo genio: ammontano a ottanta i romanzi attribuiti con certezza a Salgari, mentre altre opere vengono ritenute apocrife; al numero dei romanzi, poi, si deve aggiungere quello dei racconti, come prova della fecondità e della grandezza dell’autore veronese.

*Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf

Verso l’essenziale

Nel 1997, quattro anni prima di morire, Lalla Romano pubblica il “romanzo non-romanzo” In vacanza col buon samaritano, riedito nel suo ventennale da Einaudi e frutto di quello che Giulio Ferroni chiama lo “stile tardo” dell’autrice, uno stile dominato dal vuoto, dall’assenza, in cui il linguaggio viene privato di ogni orpello per recuperare la propria essenzialità.

Il “buon samaritano” del titolo è l’immagine da cui scaturisce il libro e che diventa il suo centro gravitazionale; si tratta, certamente, di una figura cristiana, ma filtrata attraverso le opere di Rembrandt: «Quando dicevo “buon samaritano” […] rivedevo […] due o più incisioni di Rembrandt. Un uomo, un orientale, visto di spalle, sta caricando sulla sua cavalcatura un uomo inerte, svenuto», scrive l’autrice.

Come emerge dalla lettura dei brevissimi capitoli, raccolti in sezioni, il “buon samaritano” è sintesi di umiltà, umanità, compassione, pazienza, è colui che «ama l’uomo sofferente, e ne ha cura: signorilmente»: è Antonio, che si prende cura di Lalla; è Luciana, che la aiuta nella sua ricerca angosciosa; è anche Frieda, la moglie di Alessio; ed è soprattutto quest’ultimo, lo zio Alessio, un prete che si sveste dell’abito ecclesiastico per potersi sposare e il cui ricordo attrae misteriosamente la voce narrante e protagonista.

La vacanza è proprio un’incursione nella vita dello zio, morto di una malattia indicibile contratta al fronte; Lalla ne ricostruisce l’esistenza ripercorrendo i suoi luoghi – primo su tutti Bordighera –, conoscendo le persone che gli sono state accanto, ma anche osservando le fotografie e le cartoline offertegli da Luciana.

Uno dei traits d’union del libro è costituito dalla presenza ricorsiva della pittura, altra grande vocazione della scrittrice: non c’è solo Rembrandt, ma anche Friedrich von Kleudgen, e molti altri quadri senza nome, pregni di significato per chi scrive. Il vero e proprio collante che conferisce uniformità all’opera è, però, il suo carattere meditativo: la narratrice riflette, spesso laconicamente, sui vari aspetti dell’esistenza e sui propri affetti, durante quella pausa dalla consuetudine che è la vacanza.

In vacanza col buon samaritano è dunque un diario diseguale, reticente, pieno di buchi narrativi, privo di unità temporale (la “vacanza” è, infatti, la somma di più vacanze, di diversi intervalli di tempo, anche distanti tra loro) in cui vengono isolati e offerti al lettore soltanto i momenti di scavo interiore, per ritrovare ciò che è perduto.

Euridice aveva un cane

Michele è un bambino sui generis: ai cambiamenti preferisce la fissità, all’apertura verso il mondo esterno una malinconica solitudine. Ogni estate torna a Scalna, un piccolo paesino della campagna milanese in cui ogni anno trascorre le vacanze estive con la famiglia; Scalna è l’emblema dell’infanzia che sta lentamente scolorando, è il tempo, contro cui il bambino combatte quotidianamente e con veemenza la propria battaglia, per impedire ai luoghi, alle persone, agli oggetti, alla sua stessa vita di cambiare. Ma una lotta contro un tale contendente è inevitabilmente destinata ad essere persa: e quindi, pagina dopo pagina, il bambino – che non è altri che l’autore – narra la propria debacle. Il racconto è disseminato di indizi che permettono di inferire questa disfatta: prima ci sono gli alberi che crollano e inducono Michele ad asserragliarsi nella biblioteca, per non sottoporre allo sguardo un tale sfacelo; la biblioteca diventa quindi un guscio, un fortilizio, che impedisce al giovane il contatto con l’esterno, e dunque con il cambiamento. Poi c’è l’abitazione di Flora, l’anziana vicina a cui Michele fa spesso visita: nella sua casa il tempo sembra non aver avuto la meglio, perché tutto è rimasto com’era prima della guerra; ma il presente intollerabile, sotto forma di una modernissima lampada, riesce a infiltrarsi anche in questo luogo. E infine c’è Tabù, il cane di Flora, con cui Michele instaura un tenero e divertente cameratismo. Il cane della vicina pare essere lo stesso da tempo immemore: appena il cane muore, la donna lo sostituisce prontamente con una sua copia identica. Ma nemmeno questo escamotage riesce a ingannare il tempo, ed ecco che di Tabù si perdono le tracce.
Ciò che contamina lo schema mentale con cui Michele ha incasellato il mondo e, più nello specifico, la vita a Scalna, suscita in lui un’acuta insofferenza e lo spinge ancor di più alla reclusione. A corrodere questo schema ci sono soprattutto i Baldi, la famiglia che abita accanto a quella del protagonista-narratore: il loro modo di vivere è agli antipodi rispetto a quello del bambino, i Baldi sono numerosi, rumorosi, sempre allegri e partecipano alla vita comunitaria. L’astio che prova nei loro confronti sembra, però, essere ambivalente e fa sorgere un dubbio: Michele li odia davvero, o il suo sentimento è colorato da una punta di invidia?
Michele Mari racconta un’infanzia diversa, dolceamara, riuscendo nell’ardua impresa di conciliare uno stile e una lingua davvero unici, una scrittura certamente barocca, ricercata, a tratti difficile, con una sorprendente fluidità.

Conversazione in Sicilia tra parole e immagini

Conversazione in Sicilia è probabilmente il libro più celebre di Elio Vittorini; nonostante la popolarità del testo, però, in pochi sanno che, sin dagli anni Quaranta, l’autore aveva in mente di illustrare l’opera.
Nella stesura del romanzo, Vittorini, memore dell’intervento censorio sul Garofano rosso, dovette prestare attenzione a non offrire alla censura fascista un motivo per intervenire sul testo; per questa ragione, lasciò molto all’intuizione del lettore. Terminata la fase compositiva, il libro venne pubblicato prima in cinque puntate su «Letteratura», dal 1938 al 1939, per poi uscire in volume nel 1941; nello stesso anno della pubblicazione in volume, lo scrittore stava meditando di completare il testo arricchendolo con alcune immagini che avrebbero avuto il fine di chiarire i passi più reticenti del libro, nei quali aveva dovuto lasciare spazio al non-detto per timore della censura. L’idea originaria era quella di illustrare il libro con i disegni del pittore neorealista Renato Guttuso, che si stava affermando proprio in quegli anni, ma il progetto non venne inspiegabilmente mai portato a termine, anche se l’artista aveva già approntato diverse illustrazioni.
La realizzazione di una prima edizione illustrata di Conversazione in Sicilia avviene solo nel 1953; tre anni prima, infatti, Vittorini sottopone l’iniziativa di impreziosire il libro aggiungendovi alcune fotografie – non più disegni – all’editore Bompiani, il quale accetta di buon grado. L’autore, a questo punto, torna sull’isola natale, nei luoghi della propria infanzia, per scattare le immagini che confluiranno nell’edizione del ’53. Le due parti, visuale e scritta, funzionano, in questa edizione, come le braccia di un uomo: sono necessarie l’una all’altra e si aiutano reciprocamente. Lo scrittore, scattando e pubblicando le fotografie, compie un processo a ritroso, naviga al contrario dal punto di arrivo al punto di partenza, come ha giustamente osservato Giovanni Falaschi: «all’origine del testo scritto c’è un’immagine reale, o meglio l’immagine di qualcosa di vero […]. Attraverso le fotografie […] Vittorini si autointerpretò, risalendo non al testo scritto ma alle immagini per così dire iniziali».
Una seconda edizione illustrata viene pubblicata nel 1973; le fotografie, questa volta, sono di Elio Ragazzini e il progetto è commissionato dalla Olivetti. Sebbene il volume non abbia potuto ottenere il benestare di Vittorini, morto ormai da sei anni, la selezione di fotografie sarebbe piaciuta all’intellettuale di origini siciliane per la carica simbolica delle immagini scelte, che consuona perfettamente con la natura realistico-simbolica del romanzo.
La vicenda testimonia il continuo lavoro dell’autore sul testo: come i migliori scrittori, egli non si dà pace, nemmeno quando l’opera è stata pubblicata, ma ritorna ossessivamente sui propri passi; la storia che vuole raccontare sembra, così, non avere mai fine. Vittorini posticipa all’infinito non solo la vera conclusione dei libri che scrive, ma anche quella dei romanzi che legge: «di tutti i libri che mi piacciono straordinariamente non conosco le ultime dieci o venti pagine. Ho dovuto sempre fermarmi prima della fine. Come se non volessi esaurirli. Come se volessi riservarmi un ignoto in loro. Ho letto quindici volte il Robinson […] ma ancora ho da conoscerne le ultime trenta pagine. Ho letto dodici volte Guerra e pace di Tolstoj ma non ho ancora letto (nemmeno una volta) il suo ultimo capitolo. Idem per Moby Dick che ho letto cinque volte. Coi libri suoi questo mi è successo per Farewell to Arms […] è uno dei libri coi quali voglio continuare a vivere, e voglio che non finiscano», scrive a Ernest Hemingway nel marzo del 1949.

Le due Napoli

 

Esistono due opzioni per chi vuole raccontare Napoli: si può scegliere di aderire al solito cliché, fatto di pizza, mandolino, Vesuvio e Pulcinella, di un popolo che mangia, canta e scherza spensieratamente, oppure si può raccontare la dura realtà del capoluogo partenopeo ed esautorare la trita immagine cartolinesca che viene proposta da secoli. Ai due modelli di narrazione corrispondono anche due Napoli, sideralmente lontane: da una parte troviamo quella edulcorata, in cui ogni asprezza è smussata, mentre nell’altra troviamo una città che pulsa, vive e, soprattutto, soffre. È questa seconda dimensione che Anna Maria Ortese decide di mettere in scena nella sua raccolta più celebre, Il mare non bagna Napoli; nei cinque racconti l’autrice si fa occhio, diventa un osservatorio vivente sulla plebe e ne narra le condizioni di vita disagiate, le speranze, le delusioni, la forza d’animo. Il libro è dunque un viaggio – una catabasi – nell’inferno dei vicoli cittadini, finalizzato a conoscere e far conoscere l’altro volto di Napoli, quello che spesso è passato in sordina; un viaggio che, per la scrittrice, si configura anche come un cammino dall’impersonalità, caratteristica dei primi racconti, all’estrema soggettività degli ultimi due, i quali, nei piani dell’autrice, dovevano essere due inchieste.

L’ultimo reportage è un unicum: qui, difatti, nel mirino troviamo gli intellettuali napoletani e non più gli indigenti; la Ortese offre al lettore il ritratto di un drappello di uomini che un tempo si erano battuti per sprovincializzare la cultura e aprirla a nuovi orizzonti, avevano impugnato le penne e scritto l’orrore dei vicoli ma non hanno trionfato nell’ardua lotta per il progresso. La tecnica dell’autrice consiste nell’esasperare la loro sconfitta: Erri De Luca, a proposito della fotografia di Luigi Compagnone (uno di questi vinti), scrive addirittura che lo scrittore, dal racconto della Ortese, «esce tritato fino e impacchettato in hamburger. Una polpetta umana disossata con cura, senza malanimo, anzi qua e là con tocchi amorevoli». Dunque, malgrado la volontà della Ortese, l’ultima narrazione non ha tutte le carte in regola per essere considerata un’inchiesta tout-court, perché la realtà viene alterata, i ritratti si fanno impietosi e, a causa dell’esagerazione, inverosimili.

Ricordiamo che i soggetti di questi quadri sono persone in carne ed ossa, le quali, alla lettura del testo, si sono profondamente risentite; Il silenzio della ragione – questo è il titolo del quinto racconto – e, più in generale, il libro che lo ospita, hanno dato adito a un tornado di polemiche da parte sia degli intellettuali chiamati in causa sia dei difensori della provincia partenopea: Il mare non bagna Napoli, infatti, è stato considerato da molti un libro contro la città e ha comportato persino l’esilio dell’autrice dal capoluogo campano.

Nonostante le inesattezze e il tono soggettivo di alcuni racconti, la raccolta resta comunque una stella luminosa nel firmamento delle opere che hanno segnato il Novecento, nonché una tappa fondamentale nel cammino verso il reale che, partendo dal neorealismo napoletano, è giunto fino a romanzi come Gomorra di Roberto Saviano.

«Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, con lumi brillanti a cerchio […]; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava male, e a strapparne in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava».

(Un paio di occhiali, da Il mare non bagna Napoli)

Ricordando Natalia Ginzburg

Ma il cancello che a sera

s’apriva, resterà chiuso

per sempre, e deserta

è la tua giovinezza.

Spento il fuoco,

vuota la casa.

(Natalia Ginzburg, Memoria)

Cent’anni fa a Palermo nasceva Natalia Levi, meglio conosciuta con il cognome del primo marito, Leone Ginzburg. Ma di siciliano l’autrice non ha conservato nulla, anzi, nascere in Sicilia è stato un evento del tutto accidentale: la famiglia Levi si trovava a Palermo perché il padre Giuseppe aveva ottenuto lì la cattedra di anatomia comparata. Ben presto, quando Natalia ha solo tre anni, i Levi si trasferiscono a Torino, in una grande casa in via Pastrengo. L’autrice dirà in seguito: «non avevo che un vago ricordo di Palermo, mia città natale […] mi immaginavo però di soffrire anch’io della nostalgia di Palermo […] cullandomi nella nostalgia, o in una finzione di nostalgia, feci la prima poesia della mia vita, composta di soli due versi: Palermino Palermino / sei più bello di Torino». E a Torino la vita di Natalia è legata a doppio filo: qui cresce, scopre sé stessa, inizia a scrivere e frequenta i più straordinari intellettuali dell’epoca. Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, l’infanzia della Ginzburg non si può propriamente definire felice. Natalia è stata istruita in casa da insegnanti private e questo è stato per lei motivo di solitudine. Quando veniva portata a scuola per sostenere l’esame di fine anno, un sommesso senso di invidia la pervadeva: anche lei avrebbe voluto essere povera come quei bambini, povera ma felice insieme agli altri, povera però come tutti. In questi anni a farle compagnia sono i libri a cui si appassiona e le poesie che scrive e che è costretta a nascondere ai fratelli per non venire derisa. Anche i primi tempi al Liceo Classico Vittorio Alfieri, quando studia finalmente in classe con altri coetanei, sono segnati da una nota di malinconia: è, ad esempio, l’unica a non avere un vicino di banco. In ogni caso, fin da subito si distingue per l’abilità nella scrittura con i suoi temi, che si guadagnano il plauso dell’insegnante e l’onore di esser declamati alla cattedra. Nel periodo liceale legge Anton Chekhov e Alberto Moravia, che erge a suo maestro: «Lessi e rilessi Gli indifferenti più volte, col preciso proposito di imparare a scrivere. Quello che volevo che mi fosse insegnato, era la facoltà di muovermi in un mondo impietrito, e Moravia mi sembrava il primo che si fosse alzato e mosso camminando nella precisa direzione del vero», spiega.

Occorre ora fare un salto di circa trent’anni e piombare nel 1963, quando Natalia Ginzburg vince il premio Strega – scalzando autori di notevole statura come Beppe Fenoglio e Tommaso Landolfi – con il suo Lessico famigliare. Il libro è, come dichiara in un’intervista rilasciata per la Rai, una sorta di «diario diseguale», di «autobiografia scoperta» in cui l’autrice ripercorre la sua vita dagli anni Venti agli anni Cinquanta. L’intento primario era quello di mettere per iscritto il vocabolario sui generis che la sua famiglia utilizzava e trasformarlo in un racconto, ma poi il materiale si è infittito ed il progetto si è concretizzato in un romanzo.

In realtà, è difficile catalogare il libro come romanzo, e anche l’etichetta “autobiografia” gli sta stretta. Certo, i fatti raccontati sono realmente accaduti, così come veri sono i personaggi, ma l’autrice stessa tiene a precisare nell’Avvertenza che Lessico famigliare «benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare». È la memoria, per quanto frammentaria, a fare da propulsore ed a scandire il ritmo del libro, ed i ricordi che affiorano vengono messi su carta in maniera spontanea, senza seguire un preciso ordine cronologico, così che i vari piani temporali finiscono per intersecarsi. Il risultato è un flusso continuo di memorie, separate solo da spazi bianchi e non suddivise per capitoli o, come accade ad esempio ne La coscienza di Zeno, grandi aree tematiche. Inoltre, fatto piuttosto insolito per un’autobiografia, la protagonista non è la voce narrante: «questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia» scrive sempre nell’Avvertenza. Natalia-personaggio rimane, infatti, in ombra e a campeggiare fin dalla prima pagina è il padre, vera fucina di espressioni come «sempio» (stupido), «negrigura» (gesto inappropriato), «babe» (amiche di sua moglie), che costituiscono quel lessico valido solo tra le mura di casa a cui rimanda il titolo: «una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati».

Le pagine di Lessico famigliare permettono di intrufolarsi nella vita dell’autrice e di capire cosa accadeva nella Torino di quegli anni. Sarà ad esse, quindi, che si ricorrerà per continuare a raccontare gli anni Trenta di Natalia. Riprendiamo dal periodo del liceo, che è lo stesso del fascismo, a cui tutta la famiglia Levi è avversa, in particolare il fratello Mario, che faceva parte della cellula torinese del movimento antifascista «Giustizia e Libertà» insieme a Leone Ginzburg. È proprio Mario a far sì che Leone e Natalia si incontrino, nel ’33. Lei aveva scritto un paio di racconti, Mario li aveva passati a Leone e Leone li aveva spediti alla rivista «Solaria». Fu così che l’autrice pubblicò il suo primo racconto, I bambini. Poi, lei e Leone si legarono sempre di più e, nel ’38, pochi anni dopo la fine del liceo, i due convolarono a nozze e andarono a vivere nella casa di via Pallamaglio (ora via Morgari 11). Ginzburg fu un convinto dissidente del fascismo: «Leone, la sua passione vera era la politica». Fu anche socio fondatore della casa Editrice Einaudi, anch’essa nata negli anni Trenta.

Il libro fa ben comprendere ciò che è stata Einaudi ai suoi albori, le amicizie tra einaudiani come Cesare Pavese, Balbo e lo stesso Ginzburg, l’ascesa della casa editrice. Natalia racconta, ad esempio, che Leone e Giulio Einaudi dovettero insistere per convincere Pavese a lavorare con loro: «Diceva: – Non ho bisogno di uno stipendio […] –. Aveva una supplenza al liceo. Guadagnava poco, ma gli bastava. Poi faceva traduzioni dall’inglese […] Scriveva poesie. Le sue poesie avevano un ritmo lungo, strascicato […] alla fine si persuase, entrò anche lui a lavorare con Leone in quella piccola casa editrice». La casa editrice consiste, inizialmente, in due locali al terzo piano di un palazzo in via Arcivescovado 7, ma poi si ingrandisce e, quando la sede antica crolla durante un bombardamento, si trasferisce in corso Re Umberto.

La Ginzburg scrive anche della Seconda Guerra Mondiale e di ciò che ha comportato per lei ed i suoi cari. Prima della guerra, Leone insegnava letteratura russa a Torino ma perse presto il posto perché si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al Partito Fascista; poi anche il padre di Natalia, Giuseppe, perdette la sua cattedra e si trasferì a Liegi, in Belgio, per continuare ad insegnare. Quando, nel ‘38, entrarono in vigore le leggi razziali, a Natalia e suo marito fu ritirato il passaporto e Leone, essendo antifascista, ogni volta che un’autorità politica giungeva a Torino, veniva arrestato in misura preventiva. In seguito, venne mandato al confino, in Abruzzo, dove Natalia lo seguì con i loro figli e diede alla luce Alessandra. La vocazione alla scrittura, negletta in questo periodo, viene risvegliata grazie all’ausilio di Pavese, che scrive: «Cara Natalia, la smetta di fare bambini e scriva un libro più bello del mio», il libro in questione è Paesi tuoi, in cantiere in quell’anno. Nel ‘42 esce finalmente il primo vero romanzo ginzburgiano, La strada che va in città, che l’autrice, a causa delle leggi razziali, è costretta a pubblicare con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Nel luglio del ’44 Leone lascia il confino per Roma e la moglie a novembre lo raggiunge: «Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice […] Leone dirigeva un giornale clandestino […] Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più». Muore lì, in prigione, torturato dai tedeschi, e la Ginzburg più tardi riverserà nella poesia Memoria il suo dolore per la morte del marito.

Terminato il confitto mondiale, l’autrice si sofferma a ragionare sulle tendenze letterarie del dopoguerra. Ora lavora all’Einaudi e scrive: «Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare […] Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia». Sono, questi, gli anni del neorealismo, in cui tutti sono presi dalla smania di raccontare l’esperienza vissuta. Sono anche gli anni Cinquanta – aperti dal suicidio di Pavese, di cui la Ginzburg non manca di scrivere -, sui quali si conclude Lessico famigliare.

Il valore documentario del romanzo è considerevole, anche se non c’è un vero intento cronachistico. C’è solo, più forte di tutto, la voglia di raccontare saltellando qua e là tra i ricordi.

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