Basterebbe la frase che fa da copertina a questa rubrica per raccontare il rapporto carnale, intimo, per chi non lo ama ridicolo, che lega lo sport e l’Italia in un legame indissolubile. Autore Winston Churchill, ovvero colui che con gli italiani si trovò prima costretto a trattare e poi a combattere, mentre questi pensavano a vincere un Mondiale dopo l’altro e a fare bella figura alle Olimpiadi organizzate dall’amica Germania.
Abbiamo votato. Si è detto (e sbraitato) tanto. Sicuramente le parole non finiranno qui, anzi, verosimilmente sono proprio iniziate con il 4 marzo. Ed eccolo ancora una volta qui, il puntuale riassunto di come lo sport abbia avuto una relazione stabile anche con questo importante evento del mese.
Difficile non partire dalla madre di tutte le vicende sportive ad impatto politico in Italia. Era la prima Italia senza un re, quella di una o forse due (visti gli ultimi verdetti elettorali) repubbliche fa. Per la prima volta si doveva votare per decidere quale immagine dare al mondo di sé e quale linea dare al futuro del Paese e a quei 30 anni successivi che sarebbero stati gli anni della Grande Crescita. Due mondi a confronto, quello della Dc e quello del Pci, che affidarono alle due ruote la loro resa dei conti. Anno 1948, in piazza la tensione alle stelle. Fuori dalla penisola la nazionale italiana a più di un’ora di ritardo dalla vetta della carovana per la vittoria del Tour de France (si correva ancora divisi per Paesi). Poi una chiamata, un misto di verosimile storia fatta attraverso due cornette e leggenda: era De Gasperi che implorava Gino Bartali, “Ginaccio il democristiano” di fare l’impresa, perché il leader comunista Togliatti era appena stato colpito in un attentato, creando scompigli di piazza. Il resto è storia, con un’impresa quasi impossibile di Bartali che si trasformò nel principale antidoto per l’odio intestino italiano: la guerra civile imminente era scongiurata dalla vittoria al Tour de France e l’Italia ringraziò per la prima volta il campione toscano. Passeranno ottant’anni per il secondo “Grazie”, quando si scoprì che proprio in sella ad una bicicletta “Ginaccio” aveva salvato decine di ebrei durante la guerra, pedalando da nord a sud con i loro falsi documenti nel telaio.
Quasi trent’anni dopo fu uno sparo a mettere in crisi quella democrazia raggiunta con tanta fatica (e sangue) dai nostri (bis)nonni. Ad esploderlo nel 1977 un gioielliere romano, che decise di farsi giustizia da sé per sedare una presunta rapina avvenuta nel suo negozio proprio in orario di chiusura. Una legittima difesa ante litteram, insomma. Peccato che ad essere colpito ed a morire fu Luciano Re Cecconi, nato quando Bartali vinceva in Francia salvando l’Italia e poi diventando centrocampista della Lazio campione d’Italia nel 1974. Una squadra strana, di capelloni comunisti e pistoleri neofascisti, come molti racconteranno. La morte del biondo laziale gettò caos in un Paese già afflitto da esplosioni ben più roboanti da otto anni a quella parte, tra terrorismo di destra e di sinistra. C’era chi parlò di uno scherzo finito male, con il gioielliere che sparò per timore, ma molti paventarono un regolamento di conti di stampo politico, a testimonianza della grande tensione del tempo. La verità non è mai venuta a galla.
Terzo ed ultimo balzo del nostro racconto in quel di Milano, venticinque anni fa. A portare il calcio nella politica (e, prima, la politica nel calcio) un noto imprenditore lombardo, che divenne per tutti il Cavaliere. Stiamo parlando ovviamente di Silvio Berlusconi e di quel suo Forza Italia, il primo partito personalizzato (e personale) della storia, nato proprio nel 1993 per tentare un’impossibile scalata a Palazzo Chigi in vista delle elezioni del 1994, le prime dopo l’apocalisse di Tangentopoli. Vincerà, il Cavaliere, trasferendo nelle urne una narrazione che conosceva bene: quella del suo Milan, campione d’Europa a più riprese a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, prima di essere definito “la squadra del secolo” per il suo calcio rivoluzionario. Forza Italia, appunto, come i tifosi cantavano guardando la nazionale, guarda caso vestita d’azzurro, proprio come i nuovi liberali italiani. E poi “la squadra di ministri”, la proverbiale “discesa in campo”, gli “avversari”. Il calcio di un imprenditore, poi divenuto presidente vincente, che trasformava la politica, addomesticandola e accompagnandola nel mondo post-crollo del Muro.
Tre aneddoti, ma ce ne sarebbero a migliaia, in Italia e non. Dagli Usa delle Black Panthers all’endorsement della nazionale francese nei confronti di Chirac nel 2002. Che lo si voglia o meno, siamo la società dello sport, e lì ci raccontiamo. Dimmi che fai nello sport e ti dirò chi sei.
Finalmente ci siamo. Dopo un conto alla rovescia lungo quattro anni, prenderanno il via proprio nel fine settimana i XXIII Giochi Olimpici Invernali dell’era moderna. I giochi che, tanto per essere sintetici, sono già entrati nella storia per due ragioni: essere riusciti a riavvicinare Corea del Nord e Corea del Sud, ammansendo quel laccato inferocito di Kim Jong-un, ed aver riscritto la storia del nome più impronunciabile per una sede olimpica, con quel Pyenongchang che nasconde più insidie di una discesa sotto la bufera (anche più di Garmisch-Partenkirchen 1936).
Scherzi a parte, saranno di nuovo un crogiuolo di emozioni come pochi altri eventi (sportivi e non) sanno essere nel mondo. Qualche esempio? Come sempre è la pillola sportiva a darveli. Sono nomi di gente comune, perché spesso questo sono state le Olimpiadi: il racconto del ragazzo di tutti i giorni che diventa leggenda, anni di sacrificio trasformati in oro o sfumati per una scivolata all’ultima piroetta. Ed è proprio per questo che le amiamo.
Steven da Camden
Partendo da lui, l’ultimo divenuto primo, il Davide che sconfisse tutti i Golia ma perché i Golia non fecero altro che auto-distruggersi. È servito un video della Gialappa’s per rendere immortale l’impresa di Steven Bradbury, un nome una leggenda. Capello platinato stile Ringo, sguardo da pazzo e quell’insana follia che contraddistingue i baciati dalla fortuna. Questo è Steven da Camden, Australia, dove nacque nel 1973. Pattinatore sgraziato, dopo la vittoria della medaglia di bronzo nella staffetta dei Giochi di Lillelhammer 1994, quando si presentò a Salt Lake City nel 2002 sembrava non avere più nulla da chiedere alla carriera. Poi, l’incredibile. Difficile riassumere, lasciamo al video.
Successe sì, successe davvero. Vinse così e come solo i veri eroi sanno fare, salutò tutti da campione, lasciando il pattinaggio. Divenne commentatore, poi automobilista, uomo da francobollo e infine protagonista del programma Tv australiano “Dancing with the stars”. Chissà se avrà vinto anche lì…
Joannie da Montréal
Lasciate da parte l’ilarità suscitata da Steven, perché la storia di Joannie, invece, è storia di lacrime e bellezza. Storia di una donna, o meglio due. Joannie e Thérèse, entrambe da Montréal, entrambe a Vancouver, nell’inverno del 2010, per l’Olimpiade della prima. Joannie Rochette ha ventiquattro anni, specializzata in pattinaggio artistico ed è pronta a far sognare tutto il Canada perché si sente pronta al salto decisivo della sua carriera. Thérèse, invece, è sua madre, donna orgogliosa di 55 anni, che ha scelto di spostarsi perché sua figlia, no, non può restare da sola per un giorno così importante. Poi la tragedia: a due giorni dalla gara Thérèse muore, colpita da un attacco cardiaco, gettando nello sconforto la figlia ed una nazione intera. Eppure Joannie non si sente sola, sceglie di gareggiare, stupisce tutti e giunge terza. Non aveva mai vinto una medaglia olimpica fino a quel momento e mai più ne otterrà altre. Qualche giorno dopo, al funerale di Thérèse, Joannie posa quel bronzo sulla bara della madre e lo lascia lì, per sempre. Quella medaglia è sua, quella medaglia è stata vinta dall’amore.
Michael Thomas da Cheltenham
L’ultimo salto nelle favole olimpiche è nel Regno Unito. Qui, negli anni ’80, Michael Thomas Edwards, per tutti Eddie, un muratore di poco più di vent’anni, decise di fare ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato. Aveva una passione: sciare. Aveva un sogno: partecipare ad un’Olimpiade. Peccato che la sua madre terra non avesse una grande tradizione negli sport invernali, visto che da decenni, ormai, nessuno sportivo fosse in attività. Per di più, scelse di andare oltre: voleva essere ricordato come saltatore con gli sci, non proprio la specialità più comune.
Quella di Michael Thomas diventa a questo punto storia di perseveranza, prima di trasformarsi in leggenda. Dalla seconda metà degli anni ’80 non fece altro che saltare. Si trasferì addirittura a Lake Placid, negli Usa, dove continuò ad allenarsi, perché lui un’Olimpiade voleva farla. E questa arrivò, nel 1988 a Calgary. Michael Thomas Edward c’era, come rappresentante del Regno Unito, grazie ad un regolamento che consentiva ad ogni nazione di portare almeno un’atleta per specialità.
E poco importa se Eddie a quel punto, fece ciò che era più pronosticabile. Nessun “effetto-Bradbury”, insomma. Chiuse ultimo, in entrambe le specialità affrontate, con un punteggio di molto inferiore alla metà di quello ottenuto dal penultimo classificato. Eppure Eddie divenne il più amato, la vera ragione d’interesse di quell’Olimpiade. Salti sgraziati, l’abbonamento all’ultimo posto e dei grandi occhiali da vista sotto quelli da sciatore, che spesso si appannavano durante il volo rendendo più complesso l’atterraggio. Eddie divenne l’eroe normale, l’esempio dell’uomo qualunque che ci prova, ottiene e lotta contro le avversità di ogni giorno.
Eddie, soprattutto, divenne “l’aquila”, così come ebbe a definirlo il presidente del Comitato organizzatore nella cerimonia di chiusura (“In questi giochi, alcuni atleti hanno vinto la medaglia d’oro, alcuni hanno battuto dei record, e alcuni di voi hanno addirittura volato come un’aquila.”). Da lì fu per tutti “Eddie the eagle”, tanto da ispirare un film del 2016 dal titolo “Eddie the Eagle. Il coraggio della follia”, dopo essere stato tedoforo del braciere olimpico per le Olimpiadi di Vancouver del 2010. Una leggenda, appunto.
Benvenuto 2018. Anche noi appassionati sportivi abbiamo accolto con grande entusiasmo il nuovo anno. Quello delle Olimpiadi invernali e della speranza Ferrari in Formula Uno. Quello del centunesimo Giro d’Italia. Quello che avrebbe dovuto essere delle notti mondiali in estate. Quello che, infine, celebrerà i cinquant’anni dalle Olimpiadi di Città del Messico, tra le edizioni più concitate della storia.
Proviamo ad accoglierlo segnandoci su un immaginario calendario gli appuntamenti da non perdere, usando come penna una qualsiasi produzione, un libro, un film, una canzone, che possa ricordarlo. 12 contenuti per 12 mesi, adatti per stimolare in noi le giuste emozioni in vista di quegli eventi. Partiamo dal primo semestre che ci attende, tra motori, pedalate, neve e sport di squadra.
Gennaio
Mese di attesa, come sempre e più che mai, perché preludio all’edizione 2018 dei Giochi Olimpici invernali, che avranno sede a PyeongChang a febbraio, incrociando ancora una volta grandi tematiche socio-politiche internazionali, come spesso hanno fatto nella loro storia. Gennaio mese freddo e di ricordo. 31 giorni che hanno nella data del 27 un punto cruciale per la Memoria, con la M maiuscola. Ecco perché il primo input è un libro: la storia di Matthias Sindelar, “il Mozart del pallone”, morto in circostanze sospette a soli 36 anni nel 1939 per avvelenamento da monossido di carbonio nella sua abitazione austriaca. Fuoriclasse del “Wunderteam”, una delle più grandi nazionali di sempre, non si piegò mai alle leggi razziali e all’avvento del nazismo a Vienna, pagando sulla propria pelle quella scelta. Morì, ma il suo ricordo, di campione e persona vera, non è mai tramontato.
Consigliato: Nello Governato, La partita dell’addio. Matthias Sindelar, il campione che non si piegò a Hitler, Arnoldo Mondadori Editore 2007.
Febbraio
Eccole, le ventitreesime Olimpiadi dell’era moderna, segnate dalle grandi speranze azzurre e dal possibile disgelo tra la Corea del Sud, ospitante, e la Corea del Nord. Caricatevi con il più bel trionfo azzurro nell’edizione del 2006, quella tutta italiana. Mentre Torino centrò un successo organizzativo senza precedenti, in grado di fare scuola nel mondo del turismo, sul ghiaccio Enrico Fabris riscriveva la storia. Quattro minuti da godimento puro, per un ragazzo che è entrato nel cuore di tutti gli appassionati!
Consigliato:
Marzo
Il mese della Formula Uno, tanto moderna quanto profondamente nostalgica, perché porta con sé i successi di un tempo e chi su quelle piste (o fuori) ha perso la vita. Con la Ferrari pronta a battagliare ancora una volta con la Mercedes del campione in carica Louis Hamilton, la speranza è che il rosso di Maranello possa tornare a splendere nel mondo. Il consiglio è per un libro, vincitore del Premio Bancarella Sport 2015, che racconta, romanzandola, l’ultima notte di Ayrton Senna, uno dei grandi rimpianti delle quattro ruote di cui sopra. Un testo da leggere tutto d’un fiato, dall’alta qualità letteraria. Un mix di tenerezza, ricordi e ragionamenti sull’animo umano e sulla sua fragilità.
Consigliato: Giorgio Terruzzi, Suite 200. L’ultima notte di Ayrton Senna, 66th and 2nd 2014.
Aprile
Con l’avvento della primavera arriverà anche uno degli eventi più attesi nell’intero panorama sportivo internazionale. Stiamo parlando dei playoff Nba, che prenderanno il via il 14 aprile per chiudersi quasi alle porte dell’estate. Facile consigliarvi di rivivere il racconto della leggenda Michael Jordan fatto da Federico Buffa, probabilmente il più grande storyteller sportivo italiano ( https://www.youtube.com/watch?v=X3RMdUXZ8Vk ). Meglio stupirvi, però. Perché non (ri)vedere Space Jam, che fece di MJ definitivamente una leggenda, tutto impegnato con i Looney Tunes a sconfiggere dei mostri cattivi, senza mai abbandonare le amate Nike? Il cinema degli anni Novanta in un film.
Consigliato: Space Jam (Warner Bros, 1996)
Maggio
Da centouno anni a questa parte, è il mese del Giro d’Italia. Le due ruote pedalano per la Penisola e raccontano l’Italia, dalle scorribande di Girardengo ai trionfi del “figlio di tutti” Pantani. Tutti lo corteggiano, perché tanti ne riconoscono il fascino e l’importanza. Tra questi, Indro Montanelli, inviato d’élite tra il 1947 ed il 1948 per <<Il Corriere della Sera>>. La raccolta dei suoi testi, tra narrazione romanzata e mera cronaca, è imperdibile.
Consigliato: A. Schianchi, Indro al Giro. Viaggio nell’Italia di Coppi e Bartali, Rizzoli 2016.
Giugno
Chiudiamo con giugno, il mese del grande rimpianto. Se la storia avesse fatto il proprio corso, saremmo in grande trepidazione per l’Italia ai Mondiali, infuocati dentro ed accaldati fuori. Niente notti magiche, però, ma, ovviamente, il Campionato del Mondo si giocherà anche con una Svezia in più ed un’Italia in meno. Per celebrarlo, una canzone. Non i grandi classici come Un’estate italiana o Waka waka. Sarà più romantico viverli, mentre saremo frastornati dalle più che scontate ed affascinanti pubblicità della Coca Cola, con Marmellata #25 di Cesare Cremonini. Non il più grande testo d’amore della storia, ma una canzone che con quelle sue poche righe <<Da quando Senna non corre più… da quando Baggio non gioca più… non è più domenica>> ha dato un senso alla passione sportiva di molti. Chi scrive, quando la ascolta pensa al 1994 (toh, guarda, il suo anno di nascita), l’anno dell’addio a Senna, di cui si è già detto, e del punto più alto e contemporaneamente più basso della storia di Roberto Baggio, il codino più famoso ed amato del mondo. Sbagliò un rigore nel caldo torrido di un pomeriggio di Pasadena, ma quando si sente la parola “Mondiali”, la testa va subito a lui.
Consigliato:
Qualche settimana fa a balzare agli onori della cronaca italiana e non è stata una notizia proveniente direttamente dalla Norvegia, dove, spinti in parte anche dalla pressione dell’opinione pubblica, i calciatori della nazionale di calcio hanno scelto di farsi tagliare di qualche migliaio di euro lo stipendio così da consentire alle colleghe al femminile di raggiungere lo stesso salario fornito per rappresentare il loro Paese nel mondo. 639 mila euro per ognuna delle due squadre, senza distinzione di sesso e di prestazione. Un passo importante, visto e considerato che spesso erano e sono proprio le girls di Oslo ad ottenere i risultati migliori sul campo, con i maschietti lontana copia della bella nazionale norvegese in rosa.
Un incipit, questo, apparentemente lontano dal fulcro dell’articolo. Una libertà editoriale, insomma. Già, ma con una volontà precisa. Quella di far percepire il senso di invidia che si può provare per un movimento all’avanguardia che, nel 2017, riconosce l’insensatezza di una distanza sostanziale di remunerazione tra uomini e donne, equiparando il trattamento dei due sessi. Bello, quasi irraggiungibile. Eppure, quando ancora l’Italia, che oggi si sta lentamente risvegliando dal torpore che l’ha posseduta per anni nel mondo del calcio, si aggrovigliava in strane teorie rispondenti tutte al motto “il calcio è uno sport per uomini”, proprio Cuneo fu per certi versi paladina e pioniera del calcio in rosa nel Belpaese.
Correva l’anno 1969, l’uomo era da poco andato sulla Luna, il presidente del consiglio era Mario Rumor ed i temi di dibattito erano legati a quel Sessantotto che avrebbe cambiato la storia. Appena tre anni prima, una diciassettenne siciliana di nome Franca Viola aveva scatenato un dibattito infuocato nell’Italia intera rifiutando il matrimonio riparatore con il suo stupratore Melodia e macchiandosi del nomignolo di “donna svergognata”. Poco più di dieci anni prima, invece, la “Dama bianca” Giulia Occhini e Fausto Coppi avevano scatenato l’indignazione del mondo democristiano del tempo per la loro relazione, costata alla donna la condanna ad un mese di carcere per adulterio ed abbandono del tetto coniugale. Nel calcio maschile dominava la Fiorentina di Pesaola e De Sisti, mentre di lì a poco la famiglia Agnelli avrebbe fatto conoscere anche al mondo del pallone al maschile la parola “miliardo”, raggiungendo un’offerta a nove zeri per poter avere Gigi Riva dal Cagliari.
Mario Sanino premia Nino Callipo
In quel trambusto, due giorni dopo l’inizio della primavera, tre uomini “folli” di nome Mario Conterno, Mario Sanino e Antonio, detto Nino, Callipo decisero di dare vita, ai piedi del Monviso, alla prima squadra di calcio femminile cuneese, nominandola Alta Italia, per la sua vocazione a rappresentare un territorio più ampio. Erano gli albori di un mondo che in quasi cinquant’anni di storia avrebbe fatto lenti passi verso la parità dei sessi. Prima la creazione di un gruppo da zero, quindi i primi tornei nazionali, fino alla Serie A, raggiunta nel 1972-73 e giocata alla grande, con un ottavo posto finale su undici squadre che significava tantissimo. Massa, Bella I, Bella II, Giordano, Romero, Minolfi, Viara, Sampò, Arnaudo, Peirona (cap.), Porrati, Tesio, Barbero, Ambrogio: queste le ragazze vestite di biancorosso in quella storia annata.
«Erano dei pionieri, in un tempo in cui la donna non aveva ancora quelle libertà che oggi possiamo immaginare». A parlare è Eva, figlia di Nino Callipo, entrata nella storia come presidentessa dell’ultimo Cuneo, quello che ha disputato negli ultimi tre anni due campionati di Serie A e di cui è stata al timone dal 2012, pur avendone seguito la parabola fin dagli albori.
Pionieri o meglio visionari, che scelsero il marketing del tempo per convocare a sé il maggior numero di ragazze possibili: volantini, manifesti sui muri ed un comunicato stampa che racconta un altro mondo, anche dal punto di vista sportivo, terminando con un laconico «si ricevono pertanto le adesioni di tutte coloro che vorranno cimentarsi con le scarpe bullonate».
Eva Callipo il giorno della seconda promozione in A con alcuni collaboratori
«In un tempo di incertezze, mio padre e gli altri avevano le idee chiare. Venivano dal mondo delle assicurazioni, già più abituato a vedere la donna in un ruolo diverso da quello di “angelo del focolare”. Si muovevano con l’auto lungo tutta la provincia: prima per reclutare le ragazze, poi, durante l’anno, per riportarle a casa dopo aver mangiato una pizza in amicizia dopo l’allenamento. Ricordo una Cuneo interessata come non mai a quelle giovani donne che correvano e tiravano calci ad un pallone al “Paschiero”, lo stadio più importante della città».
Storia di una comunità vera, che con alterne vicende è arrivata fino ad oggi, legata al filo conduttore della famiglia Callipo. «A quattro anni camminavo già nel rettangolo di gioco mano a mano con mio padre. Proprio di quel tempo serbo uno dei ricordi più belli: un giorno, non avevo più di cinque anni, decisi che dalla panchina non volevo proprio andarmene nonostante si stesse per giocare, costringendo l’arbitro ad allontanarmi dal campo quasi a forza. Era quello il mondo in cui ero cresciuta».
Le giocatrici ed i dirigenti dell’Alta Italia si ritrovano – Dicembre 2014
Quelle ragazze, anch’esse pioniere, hanno mantenuto contatti forti tra loro, divenendo poi spettatrici del Cuneo di Eva, tornato per la prima volta in Serie A nel 2014/15, al termine di una cavalcata epica: «L’emozione più grande legata al calcio da donna matura: il sintetico pieno zeppo di persone e la festa per una cavalcata portata a termine con tanta fatica. Momenti scritti nel cuore».
Il 25 luglio del 2016 Nino Callipo, primo allenatore dell’Alta Italia, se n’è andato, portando con sé i ricordi di un’esperienza unica, fatta di amicizia e di coraggio. Al suo funerale c’erano tutti, comprese quelle pioniere che mai avevano dimenticato la bellezza del fare squadra.
L’1 luglio 2017, quarantotto anni dopo quel 23 marzo 1969, il Cuneo Calcio Femminile ha ufficialmente cessato di vivere, cedendo il proprio titolo sportivo ed il diritto di partecipazione al campionato di Serie A alla neonata Juventus, brand imponente dal potenziale economico impareggiabile. Nulla è finito, se non la bellezza del massimo campionato nazionale, che la città di Cuneo non ha, per certi versi, saputo trattenere con sé. Resta Eva, con la passione del babbo mantenuta viva e pronta ad essere rilanciata in nuove avventure. Resta, soprattutto, un movimento che scricchiola ma è vivo più che mai, con focolai che si illuminano nel saluzzese, nelle Langhe, a Savigliano e qua e là nella provincia.
Da Mario Sanino, il primo presidente, a Eva Callipo, l’ultima. Da Franca Giordano, storico stopper dell’Alta Italia ed oggi Assessore Comunale a Cuneo, a Simona Sodini, forse la stella più luminosa delle biancorosse nell’ultima Serie A. Non sarà la Norvegia, ma quel che Cuneo ha fatto per il calcio femminile vale tanto.
«È stato il Natale più meraviglioso che io abbia mai passato. Eravamo in trincea la vigilia di Natale e verso le otto e mezzo di sera il fuoco era quasi cessato. Poi i tedeschi hanno cominciato a urlarci gli auguri di Buon Natale e a mettere sui parapetti delle trincee un sacco di alberi di Natale con centinaia di candele. Alcuni dei nostri si sono incontrati con loro a metà strada e gli ufficiali hanno concordato una tregua fino alla mezzanotte di Natale. Invece poi la tregua è andata avanti fino alla mezzanotte del 26, siamo tutti usciti dai ricoveri, ci siamo incontrati con i tedeschi nella terra di nessuno e ci siamo scambiati souvenir, bottoni, tabacco e sigarette. Parecchi di loro parlavano inglese. Grandi falò sono rimasti accesi tutta la notte e abbiamo cantato le carole. È stato un momento meraviglioso e il tempo era splendido, sia la vigilia che il giorno di Natale, freddo e con le notti brillanti per la luna e le stelle».
Siamo nei giorni che vanno tra la notte di Natale ed il capodanno del 1914. A parlare, anzi scrivere, è Leon Harris, caporale del 13° battaglione del London Regiment. L’Europa da qualche mese non è più quella che i nostri trisnonni avevano imparato a conoscere. Quella della Belle Epoque, dell’avvento dell’automobile, del Novecento come il secolo della macchina e della pace. No. Da qualche mese un’era, anzi un secolo, il «secolo lungo» per dirla con le parole di Eric Hobsbawm, è finito, lasciandosi alle spalle i ricordi di un’Europa riappacificata e delle lunghe lotte romantiche dell’ ‘800. Dall’estate, infatti, il vecchio continente è afflitto da quella che al tempo verrà ribattezzata Grande Guerra, poi meglio conosciuta come Prima Guerra Mondiale.
Sono i giorni, quelli precedenti alla lettera di Harris ai genitori, tra i più tragici del conflitto. Si è infatti da poco compreso che quella che doveva essere una guerra lampo, blitzkrieg nella teorizzazione bellica tedesca, si è invece trasformata in una contesa che porterà malattie, tragedie umane, drammi psicologici e milioni di morti, coinvolgendo l’intero emisfero.
In quella cornice drammatica, il quadro dipinto dalle parole del soldato britannico. Perché proprio nella notte di Natale 1914 si consumò forse la più grande pillola sportiva della storia dell’umanità, una pillola nel marasma bellico.
Soldati britannici e tedeschi insieme, gli uni contro gli altri, senza armi come oggetto della contesa e morti avversari come obiettivi da raggiungere. Solo un pallone di pellame, la voglia di segnare un gol e gli stessi stivali bellici, indossati fino al giorno prima delle trincee, divenuti scarpe da gioco. Già, il calcio come simbolo della tregua. Tutti felici e contenti, a centinaia dietro ad una sfera, senza pensieri per la testa per ventiquattr’ore. Da lì, la leggenda della partita di Natale. Quel match che si sarebbe chiuso sul 3-2 per gli Alleati, ma del quale non si ha alcuna certezza. Più probabile che si giocò senza compagni di squadra o avversari, rendendo il tutto ancora più magico, in un melting pot di razze (al tempo quel termine era ancora in voga), lingue e schieramenti. «I should think there were about a couple of hundred taking part. I had a go at the ball. I was pretty good then, at 19. Everybody seemed to be enjoying themselves. There was no sort of ill-will between us. There was no referee, and no score, no tally at all» – dirà Ernie Williams, altro reduce britannico in un’intervista rilasciata nel 1983, quasi settant’anni dopo quella partita.
A fare da contorno, Walgherem, la terra di nessuno. Provate a fare una breve ricerca su internet e vi renderete conto della forza di quel miracolo. Walgherem è cittadina del nord del Belgio, divenuta tragicamente famosa, a suo modo, per alcuni attacchi con il gas letale compiuti nel 1916 dall’esercito degli Imperi Centrali.
Quel giorno no, avevano vinto la pace, il Natale ed il calcio. Il giusto modo per avvicinarsi alle feste, ricordando che cosa producono gli odi nazionali, di che cosa è capace lo sport e quanto l’uomo possa essere infinitamente forte anche nelle avversità.
Quarantadue anni fa l’Italia ed il mondo perdevano uno dei loro più grandi letterati, uno dei simboli del Dopoguerra nello Stivale. Il 2 novembre 1975 moriva nell’idroscalo del Lido di Ostia Pier Paolo Pasolini. Una morte tanto tragica quanto misteriosa, sulla quale, a più di quattro decenni di distanza, non è ancora stata fatta luce.
Figura complessa, amata, odiata e spesso trattata con sospetto dai contemporanei, con i quali aveva però un aspetto in comune: lo sfrenato amore per il pallone. Del calcio, però, Pasolini non amava solo ed esclusivamente il tifo di squadra, il gioco in sé, l’attaccamento ad una maglia. Ne amava la sua rappresentazione del reale, il suo modo di raccontare il reale con un linguaggio equiparabile a quello della stessa letteratura.
“[…] Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato. Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto (…)” “(…) Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico. Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un “prosatore realista”; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”. Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, extravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul “Corriere della Sera”: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti. Il calcio “è” un linguaggio con i suoi poeti e prosatori”. (“Il Giorno”, 3 gennaio 1971)
Da lì una lunga narrazione di quel che il calcio sapeva raccontare dei popoli, del loro modo di intendere la vita in modo prosastico o poetico, del loro modo di battagliare nel sociale attraverso il pallone. Il calcio era la cultura popolare e la cultura popolare era il terreno ideale per la lotta politica che avesse come principale obiettivo quello di dare voce agli ultimi, ai diseredati.
Giocò come attaccante a Casarsa negli anni Quaranta, il paese materno nel Friuli del Dopoguerra, e nei campi battuti di Roma, dove molti amici giurano di averlo conosciuto per la prima volta mentre rincorreva un pallone su terreni il cui fondo era in carbon fossile.
Un giorno, due anni prima di morire, incrociò sulla sua strada colui che divenne uno dei grandi del giornalismo italiano: Enzo Biagi. Il bolognese, che al tempo scriveva per La Stampa, gli fece una lunga intervista, nella quale seppe riassumere in due uniche battute tutto Pasolini:
Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare? «Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri».
“La Stampa”, 4 gennaio 1973
Il calcio come società che si racconta e come terreno di lotta contro le convinzioni e le convenzioni degli italiani, l’amore per il “suo” Bologna, tifato ogni domenica in prima fila. Ecco Pier Paolo Pasolini, in un video conclusivo che lo vede impegnato in un’anacronistica intervista ai giocatori rossoblù (nel 1964!).
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