Dicembre, mese di festività, sogni sull’anno venturo e bilanci. Così è per la vita, così è per lo sport, che ad essa si lega spesso in modo inscindibile.
Così, arrivati agli ultimi trenta giorni dell’anno non si può non pensare a quelli che sono stati i trecentotrenta precedenti e a che cosa questi ci lascino in eredità. Anzi, qualcosa in più: che cosa di questi giorni non potremo proprio dimenticare.
L’ennesimo elenco, direte. Ma non c’è modo migliore per fare chiarezza e renderci conto di come gira il mondo e di quale ritratto esso concede di sé attraverso lo sport. «Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita», diceva Marx. E di questo “processo”, lo sport, nel Ventunesimo secolo, è diventato uno degli elementi cardine.
L’argentina (sportiva) alla ricerca di se stessa e George presidente
Boca Juniors-River Plate era la partita delle partite. Il cosiddetto Superclasico: una delle gare più sentite del calcio mondiale, che andava a coincidere con la finalissima della Copa Libertadores (la Champions League del Sudamerica), cioè il trofeo che coinvolge di fatto gran parte del Nuovo Continente. Insomma, un evento unico, pubblicizzato ovunque, ed una grande possibilità di presentarsi al mondo per la nazione che ha dato i natali a Diego Armando Maradona. Il doppio incontro, però, ha raccontato altro, con i fattacci della gara-non gara di ritorno, preceduta dall’assalto di centinaia di tifosi del River Plate al pullman dei “cugini” del Boca in una Buenos Aires sotto assedio, con feriti, furti e quant’altro. Un’immagine oscena, che racconta di un Paese che ancora molto ha da cambiare. Sulle pagine di «Internazionale», il giornalista Martin Caparròs ha riassunto il tutto in modo laconico: «Il mondo ha visto com’è messa davvero l’Argentina. Speriamo che serva a qualcosa».
Ma fuori dal nostro continente, si è assistito ad un altro fatto rilevante che coinvolge lo sport: l’elezione a presidente della Liberia di George Weah, primo Pallone d’oro africano, chiamato a rialzare una nazione ferita da anni di sofferenza. Ad oggi, pare questo il dribbling più difficile della sua vita.
Sara, Emiliano e Davide: campioni ed umani
Il 2018 è anche stato l’anno degli addii. Dolorosi, forti, indimenticabili. A Davide Astori, il capitano della Fiorentina, il classico campione in apparenza immune a tutto. Portato via da un malore improvviso, nel sonno, come il più umano degli esseri umani. Resta il ricordo di una nazione unita, indipendentemente dai colori e dalle passioni, per omaggiare chi rappresentava un patrimonio di tutti. E chissenefrega di cori e scritte sui muri apparsi qua e là, che non rispettano nemmeno la morte: dimentichiamoli, questi.
Ad Emiliano Mondonico, che ci ha insegnato l’umiltà e la voglia di non sottostare ai soprusi. Di lui non dimenticheremo mai un gesto del 1992: quella sedia alzata al cielo per mostrare il proprio dissenso nei confronti di una decisione arbitrale. Voglia di dire no, ma nei ranghi della compostezza.
A Sara Anzanello, la ragazza magica. Campionessa nel volley dei grandi, nella rosa delle vincenti ad inizio anni Duemila. Di lei, basta un video, con la sua ultima lettera.
Il/la Var
C’è ancora chi discute sull’articolo, ma quel che conta è l’apocalisse generata da questa introduzione. La tecnologia che aiuta l’uomo e che limita proteste ed accuse, arrivando là dove l’uomo stesso, ahinoi, non era in grado di arrivare. Sospinta dal calcio italiano, è divenuta solida realtà al Mondiale, con ben nove rigori assegnati già nella prima giornata. Le innovazioni, se ben utilizzate, servono e non ci privano dello spettacolo. E sono pure italiane…
Due rinvii e l’abbraccio di Genova
Resteranno indelebili nelle nostre menti, infine, i fatti di Genova, nel più brutto Ferragosto degli ultimi decenni per l’intero stivale. Il crollo del ponte Morandi, un popolo ferito, diviso in due e chiamato ad uscirne ancora una volta, dopo aver già lottato contro le intemperie del maltempo per anni. Non si giocarono Sampdoria-Fiorentina e Milan-Genoa, e non poteva essere altrimenti. L’abbraccio tra tifosi rossoblù e tifosi blucerchiati in una vignetta fortissima è l’esatto antidoto al dolore e la risposta ai fatti argentini con cui abbiamo aperto: lo sport deve unire.
Fake news. “Feicnius” ovunque. Questo nuovo doppio vocabolo anglosassone, nel novembre 2018, è ormai diventato un must nel bagaglio conoscitivo di chiunque voglia avvicinarsi al mondo dell’informazione per conoscere i fatti nazionali ed internazionali, di politica e non. Non esiste competenza linguistica che tenga: sapere che nel mondo, complice l’avvento della comunicazione 3.0 e 4.0, sia ormai ampiamente diffuso il fenomeno di notizie false, o comunque volutamente travisate, è diventato d’obbligo per chiunque.
Ce lo dice la tv, ce lo conferma la constatazione che tutti i principali fatti dell’ultimo lustro politico sono stati più o meno colpiti da questa piaga: i finanziamenti russi per l’elezione di Trump, l’apparente influenza di una stratosfera riconducibile a Putin anche per le presidenziali francesi e le ultime politiche italiane, fino all’ultimo caso dei messaggi fittizi su Whatsapp finanziati dagli imprenditori vicini a Bolsonaro in Brasile, per screditare gli avversari politici del candidato della destra.
È quello della politica il mondo nel quale la “notizia falsa” significa denaro, spostamento di interessi e di influenza. Insomma, qualcosa di forte. Ma tutto il mondo dell’informazione ha dimostrato di non esserne immune, calcio compreso.
Ecco qualche caso degli ultimi mesi in questo senso, rigorosamente legato a fatti e personaggi di una certa rilevanza nel dibattito calcistico nazionale ed internazionale. Ammettetelo, qualche volta ci siete cascati anche voi…
La patriottica Croazia. Estate 2018. I Mondiali russi sono un’agonia per il nostro calcio, che non li può vivere direttamente per via della mancata qualificazione della nostra nazionale. Ecco perché l’opinione pubblica tende ad affezionarsi alle favole ed a chi è in grado di toccare qualche corda particolare nella nostra indole. Tocca, questa volta, alla Croazia del Ct Zlatko Dalic, capace di arrivare fino all’atto finale della Coppa più amata, prima di soccombere di fronte alla Francia. Ed è qui che la retorica anti-europeista fa ancora una volta capolino: da un lato i transalpini, fortissimi, simbolo dell’Unione che domina e schiaccia; dall’altro i croati, figli dell’Europa di periferia, spesso dimenticata, che, guarda caso, annunciano in una lettera di voler cedere tutti i premi dei Mondiali ai loro connazionali. Ma la lettera non è casuale: ci sono gli attacchi diretti all’Europa (“un’organizzazione criminale”) ed ai politici croati (“qui non siete i benvenuti”), oltre alla narrazione del mondo che si vorrebbe (“ora, tutti i bambini croati avranno l’opportunità di trascorrere almeno sette giorni al mare”). Peccato che la lettera fosse solo la trovata di un simpatizzante anti-europeista, tale Prezumic, che giustificherà dicendo di aver voluto rappresentare un mondo parallelo dentro una lettera. I croati, giusto anche così, i soldi se li terranno eccome. La beffa? Sarà proprio il massimo rappresentate della Francia campione, il giovane Mbappé a dare in beneficienza gli incassi del trionfo. I casi della vita…
Il mea culpa dell’arbitro dei fruttini. È stato uno dei temi più dibattuti della primavera pallonara, soprattutto per via dell’infuocato dopo gara: il rigore siglato da Cristiano Ronaldo nei minuti finali di Real Madrid-Juventus, che ha eliminato gli ospiti scatenando l’ira di Buffon, fino all’ormai proverbiale “un arbitro della sua età dovrebbe sedersi in tribuna con i fruttini invece di scendere in campo”. Parole e note rivolte al direttore di gara di quel match, l’inglese Oliver, suo malgrado finito poi vittima di una virale fake news, con tanto di fonte autorevole a validarla (marca.es), secondo cui egli avrebbe parlato (cosa rarissima per un arbitro) con un laconico: “Ho rivisto le immagini, ho sbagliato”. Nulla di più falso e poco credibile: un fischietto difficilmente parla e tantomeno dopo un’azione da scandalo nazionale. Con buona pace dei molti: “Ecco vedi, te l’avevo detto”.
Il crociato di Piatek. La più bella, perché ultima in ordine di tempo e perché “non ha fatto male a nessuno”. L’uomo dei primi mesi della nuova stagione calcistica è sicuramente l’attaccante Krysztof Piatek, (impossibile da scrivere il nome, enigmatico il cognome da pronunciare): 13 gol fatti nelle prime dieci uscite stagionali ed un grande campo d’azione sulla mente degli appassionati rappresentato dal fantacalcio, uno dei fenomeni più diffusi di vita collettiva nello sport. Proprio lui nei giorni scorsi è stato al centro di una mega-fake news, con qualche buontempone che ha invaso i social (soprattutto whatsapp) con immagini che sembravano essere screen delle principali testate nazionali (Gazzetta dello Sport, Sport Mediaset, Televideo) ed un titolo a caratteri cubitali: “Piatek fa crack: rottura del crociato e stagione finita”. Panico tra i fanta-allenatori, i vocaboli “Piatek” e “crociato” che schizzano nelle ricerche Google in pochi minuti, fino alla smentita: non è vero, l’attaccante è sano e vegeto e giocherà regolarmente. Tante risate, ma quanti ci sono cascati?
Riforme, debito, deficit, reddito di cittadinanza, 780 euro. Sono parole e cifre ormai entrati stabilmente nelle nostre case negli ultimi giorni, perché al centro del dibattito mediatico che ruota attorno alla nuova manovra “giallo-verde” che Movimento Cinque Stelle e Lega, le due forze politiche al governo, hanno presentato per il futuro prossimo dell’Italia.
Proprio di reddito di cittadinanza si è a lungo discusso un po’ ovunque, dai salotti televisivi alle colonne dei quotidiani, fino ai più o meno preparati (e pacati) campi di confronto sui social network: sarà una buona cosa? Darà quell’effettivo impulso all’economia, contribuendo veramente a ridurre la disoccupazione? Ma soprattutto, non rischierà di produrre dei “quasi poveri” che campano alle spalle dello Stato?
Tanti quesiti, che portano in dote un’altra domanda: con quanto sopravvive un italiano oggi?
Dubbio facilmente risolvibile con alcune ricerche economico-sociologiche, al quale abbiamo voluto aggiungere però qui una postilla, che più ci compete: quanto è ampio il divario tra il reddito base di un cittadino comune, il cosiddetto “uomo qualunque”, e chi invece percepisce lo stipendio che tutti sognerebbero, ovvero i calciatori? Quanto si sono allontanati negli anni?
All’origine fu l’Inghilterra. Là è nato il calcio e là ovviamente sono nati i primi “rimborsi spese”, ancora oggi dominanti nel nostro calcio dilettantistico: i calciatori giocavano ed ottenevano rimborsi per i loro spostamenti, spesso “gonfiati” per farne uscire uno stipendio. Il calcio all’origine, però, non consentiva una retribuzione. Il primo freno fu posto nel 1891, quando fu stabilito che un giocatore non avrebbe potuto guadagnare più di 10 sterline al mese cambiando maglia. Un dato interessante, perché, spulciando negli archivi dell’età vittoriana, si constata che un operaio medio avrebbe superato di poco le 4.5 sterline. Insomma, già il doppio.
In Italia, invece, il boom fu più lento ma arrivò, portato in dote dalla famiglia Agnelli, divenuta proprietaria della Juventus ad inizio anni ’20 ed intenzionata a fare del calcio un’altra Fiat. Raimundo Orsi, storica ala sinistra argentina naturalizzata, negli otto anni in bianconero, tra il 1927 ed il 1935, arrivò a guadagnare 8000 lire al mese, più una Fiat 509, non poca roba in un’epoca in cui le auto erano ancora un lusso. Un operaio dell’epoca? Non superava le 300 lire al mese, ovvero 3600 lire annue, equivalenti insomma al 3.75% dello stipendio dell’attaccante della Juventus.
Il boom, però, dopo il 1960. Alla fine degli anni Settanta, Gianni Rivera, il primo pallone d’oro italiano, incassava 70 milioni di lire annui, mentre lo stipendio medio di un operaio era di 352 mila lire mensili, ovvero 4mln 224mila lire ogni dodici mesi (10.56%). Un divario calante, ma quei settanta milioni, amplificati dal fattore pubblicità, erano destinati a crescere a dismisura.
Da lì, con l’avvento delle sponsorizzazioni massive, il dato non è stato quasi più equiparabile. In Italia, nel 1983, lo stipendio medio lordo annuo di un calciatore di Serie A era di 130 milioni di lire (7.2 milioni per un operaio generico), di 782 nel 1994 (15.6 per un operaio) e di 2150 nel 2001 (16.8).
Un divario in crescita esponenziale, che ha trovato oggi il vero boom con i top player: Cristiano Ronaldo incassa 30 milioni annui solo di stipendio, un operaio circa 14mila euro. Non è tutto oro ciò che luccica, però: solo il 9% dei calciatori professionisti supera i 700mila euro anni di retribuzione, e lo fa per poco più di dieci-quindici anni nella migliore delle ipotesi.
Il meno pagato? Titas Kaprikas, della Sampdoria, che si accontenta di 20mila euro annui: non male, ma, certo, non potrà permettersi una Ferrari.
Come promesso, rieccoci sei mesi dopo. Ci eravamo lasciati con l’inverno e con il freddo, ci ritroviamo con la pioggia che non tende a placarsi e con l’estate alle porte. Come filo conduttore, ancora una volta il binomio sport-cultura: quali saranno gli eventi sportivi della prossima metà anno che ci terranno incollati al divano? Proviamo a scoprirli, ancora una volta facendo un tuffo tra video, immagini, scritti e tanto altro che hanno saputo rendere in concreto le grandi emozioni regalate dallo sport.
Si riparte da luglio, che sarà, va bene, il mese della finale Mondiale. Ecco perché abbiamo citato la Coppa del Mondo di calcio già sei mesi fa: fa troppo male tornare a parlarne, mentre noi italiani assisteremo da spettatori alle gesta delle altre nazioni. Meglio voltare pagina.
Luglio: ma che ce frega del Mondiale. C’è un altro sport a cui siamo legatissimi e che ci porta in migliaia nelle strade: il ciclismo. E luglio è per il ciclismo una sorta di “mese maximo” per via del Tour de France, il re tra i grandi giri delle due ruote. Da Bartali a Coppi, passando per Pantani, fino a Nibali. Con la maglia gialla abbiamo spesso flirtato, sognando ogni anno di vedere un italiano alzare le braccia al cielo negli Champs Elysées lasciando a bocca aperta i cugini francesi. Tour de France che è però anche sinonimo di grandi misteri, non ultimo quello della possibile positività di Chris Froome, il nuovo mito a due ruote. Tra questi, anche quello di Riccardo Riccò, che anni fa ci ridiede il sapore di avere davanti agli occhi Marco Pantani. Poi, proprio una provetta lo condannò: più di dieci anni di squalifica ed una carriera rovinata. È finito nell’oblio, ma ha trovato il modo di essere utile a tutti noi, con un libro uscito pochi giorni fa. Ed è proprio questo che vogliamo consigliare. Leggetelo, capirete quanto sono umani i campioni che ci esaltano.
Consigliato: Cuore di cobra. Confessioni di un ciclista pericoloso, D. Ricci e R. Riccò, Piemme, 2018.
Agosto: il mese dell’Assunta è invece da sempre campo dell’atletica, con il picco raggiunto negli anni olimpici. Quest’anno, ad imperversare saranno gli Europei, in scena all’Olympiastadion di Berlino. La voglia dell’Italia è quella di tornare protagonista, magari trascinata da Filippo Tortu, lombardo classe 1998 che sta stupendo tutti e che potrebbe togliersi grandi soddisfazioni. Pippo era però là da venire al mondo nel lontano 1980, quando a Mosca un pugliese portò il tricolore sul tetto olimpico nei 200 metri. Stiamo parlando ovviamente di Pietro Mennea, eroe italiano scomparso cinque anni orsono lasciando un vuoto quasi incolmabile nel movimento. Chi era? Per lui parlano i numeri ed una miniserie, uscita tre anni fa e prodotta dalla Rai. Vederla sarà un buon modo per caricarsi a mille e sognare con i ragazzi che si prepareranno per la spedizione tedesca.
Consigliato: Pietro Mennea – La freccia del Sud
Settembre ed ottobre: con l’avvento dell’autunno, torneranno d’attualità anche gli sport di palestra. Quest’anno, al centro dell’attenzione sarà il volley, che invaderà mezza Italia, a partire da Torino, chiamata in causa come città ospitante di alcune gare del Campionato Mondiale (l’altra nazione di casa sarà la Bulgaria). Il consiglio? Nessun libro, nessun video: andate a vederla! Chi scrive ha già avuto nel suo piccolo esperienze dal vivo dentro ai palazzetti: contesti di questo tipo sono impagabili. Vietato perdersi una manifestazione di questo tipo quando è così vicina!
Consigliato: Campionato Mondiale di Volley Maschile – 9-30 settembre 2018
Abbiamo deciso di accorpare i due mesi per via dei molti eventi congiunti che si svilupperanno lungo i sessanta giorni. Resta da seguire anche il canottaggio, che dal 9 al 16 settembre vedrà all’opera tutte le nazioni impegnate nel Campionato del Mondo di Plovdiv (Bulgaria). Sport poco rinomato, forse, ma che all’Italia ha dato momenti indimenticabili. Tra leggenda ed ironia, resta un pezzo della nostra storia il trionfo dei fratelli Abbagnale da Castellamare di Stabia ai Giochi Olimpici di Seul 1988 con telecronaca di Giampiero Galeazzi. Non li conoscete? Obbligatorio recuperare guardandosi il video di 4 minuti e cinquantaquattro secondi su youtube: risate e patriottismo sono garantiti.
Novembre: si chiude in questo mese il Campionato del Mondo di Formula Uno, che si è dimostrato molto più equilibrato degli anni passati, tra colpi di scena e scuderie che hanno riequilibrato i propri rapporti di forza verso l’alto. La faida Vettel-Hamilton è ormai da libri di storia del genere, proprio come lo fu quella tra James Hunt e Niki Lauda negli anni Settanta ed Ottanta dello scorso secolo, tra scandali e litigi, fino al famoso incidente che rovinò per sempre il volto del secondo. “Più sei vicino alla morte, più ti senti vivo”: così Hunt riassume la sua filosofia di vita nel film del 2013 che racconta la loro rivalità. Da vedere.
Consigliato: Rush (2013)
Dicembre: è il mese che lentamente introduce alla nuova stagione degli sport invernali, chiudendo un anno solare che ricorderemo come certamente intensissimo, ma è anche il mese da sempre ricordato per l’assegnazione del Pallone d’Oro. Il premio ideato da France Football per individuare il calciatore più forte al mondo è da sempre molto discusso per via de giudici non sempre imparziali e per le diverse vedute degli espertoni di tutto l’emisfero. Divenuto da una decina d’anni strumento di contesa a due tra Messi e Ronaldo, poco più di due lustri fa era in realtà quartiere di casa anche del calcio nostrano, che ha gioito per quattro volte grazie ad un nostro giocatore. L’ultima nel 2006 con Fabio Cannavaro, che la spuntò all’ultimo sul compagno di nazionale Gianluigi Buffon. Proprio nell’autobiografia del portierone che quest’anno ha salutato la Juventus ci sono pagine esilaranti legate a quel secondo posto: tutte da scoprire per comprendere quanto a volte l’amicizia sia messa in difficoltà, se si compete per una stessa palma…
Consigliato: Numero 1, Gianluigi Buffon con Roberto Perrone, BUR, 2010.
Ci sono quei nomi propri di città, persone, indirizzi, che vivono nell’anonimato per secoli e poi, un giorno, decidono di entrare nella mente di tutti e di non uscirne mai più, suscitando emozioni sempre forti anche a decenni di distanza. Ci pensi un attimo e sono subito lì, via Fano, lo svincolo per Capaci, Ustica. Ma, perché no, anche Wittenberg, Waterloo, Portella della Ginestra. Nomi dati dall’uomo così, che sembrano nati per essere storia ma che in realtà non lo erano, prima che qualcuno o qualcosa decidesse di renderli immortali.
Lo stadio Heysel fu immaginato e costruito a Bruxelles alla fine degli anni Venti dello scorso secolo, dal Belgio che aveva voglia di sport ad alti livelli e che voleva darsi uno stadio degno degli eventi che desiderava vivere. In più di cinquant’anni di storia ospitò tre finali di Coppa dei Campioni, tre di Coppa delle Coppe e la finale dell’Europeo di calcio del 1972 tra Germania Ovest ed Urss. Era già storia quello stadio ma decise di diventare tragicamente leggenda, proprio come i nomi sopracitati, il 29 maggio 1985.
Quella notte gli occhi di tutto il mondo erano ancora una volta puntati sull’Heysel, pronto ad ospitare la quarta finale di Coppa dei Campioni della sua storia. Di fronte il Liverpool, squadra storicamente abituata a giocare ad alti livelli in Europa, e la Juventus, che da poco era riuscita a togliersi qualche soddisfazione internazionale ma che, spinta dalla famiglia Agnelli, puntava al trofeo più ambito.
Attesa trepidante, voglia di vivere il grande calcio, ma poi fu tragedia. I tifosi del Liverpool non erano appassionati di tutti i giorni: erano gli hooligans della Kop, la più terribile tifoseria del mondo, figlia del lavoro duro nel porto della città e di quella tradizione d’Oltremanica che, proprio negli anni Ottanta, vedeva il calcio come arena del Ventesimo secolo e come occasione per sfogare frustrazioni e disagi successivi alla crisi di fine anni Settanta. Una sorta di lotta di classe sfogata sugli spalti, un modo per rispondere alla crudezza della vita in età thatcheriana, coltivando nel frattempo ideologie al limite, tra odio verso l’altro e disprezzo dei ceti più abbienti. Proprio quegli hooligans decisero di fare come sempre anche quel giorno: assalti e provocazioni costanti al tifo italiano presente in una fetta dello stadio, con la voglia di impaurirlo, magari di scagliare anche qualche pugno, come quasi nell’ordinario. Lì, il fattaccio: i giovani ragazzi italiani che, spaventati, si ammassarono lungo il muro delimitante il settore, la mancanza di controlli da parte delle autorità e quel muro che crollò, portando con sé la vita di trentanove appassionati, morti sul colpo o schiacciati dalla massa inferocita che cercava di scappare, terrorizzata. Trentanove morti per un gioco, per una partita di calcio.
Tutto drammaticamente assurdo. Già, da non crederci. Fortunatamente nel Regno Unito proprio Margaret Thatcher sarà la prima a porre un freno, con severe limitazioni all’interno degli stadi, catapultando il mondo britannico nel futuro e riducendo in modo deciso la violenza tra tifosi, primi, del resto, a vivere il calcio senza barriere.
Che mondo lontano, verrebbe da dire. Ci sono, poi, però, i numeri. Freddi, forti, clamorosamente efficaci senza grandi spiegazioni. Trentatré anni dopo l’incubo Heysel la conta del calcio italiano recita diciassette. Diciassette come le vittime, tifosi, semplici appassionati, ragazzi giovanissimi, poliziotti, provocate dalla violenza per il pallone. Da Nazzareno Filippini, ferito ed ucciso dopo Ascoli-Inter del 9 ottobre 1988, a Ciro Esposito, morto cinquanta giorni dopo essere stato colpito da un proiettile prima di Fiorentina-Napoli, il 25 giugno 2014.
Cosa abbiamo imparato dall’Heysel? A piangere di quel che fu ed a commettere gli stessi drammatici errori? Una decina di giorni fa, Sean Cox, guarda caso tifoso del Liverpool, è stato accoltellato da alcuni ultras della Roma prima della semifinale di Champions League tra le due squadre, lottando tra la vita e la morte a lungo. Ancora il Liverpool, questa volta come vittima. A quasi trentatré anni dall’Heysel la pillola sportiva di questo mese si ferma e si limita a chiedersi se questa chiusura del cerchio non debba e possa rappresentare l’occasione per cambiare una volta per tutte. Perché la storia non possa più appropriarsi di alcuni nomi e renderli drammaticamente leggendari.
I giovani italiani, almeno quelli degli ultimi quindici anni, sono stati spesso descritti come “bamboccioni”, “immaturi”, e quant’altro. Un’idea forte a tal punto da avere spinto alcuni critici ad ipotizzare un ritorno della maggiore età a 21 anni, proprio in un’ottica di rivalutazione di quello che è il teenager, delle sue competenze e della sua capacità di saper stare nel mondo degli adulti nel XXI secolo.
C’è un ragazzo, però, oggi trentaduenne, che la maturità, volente o nolente, l’ha vissuta davvero, imparando a sudare, lottare e sacrificarsi per restarci in quel mondo, già a diciotto anni. Imparando a vivere.
Il suo nome è Paolo Priolo, classe 1985 di Monteu Roero, da quasi quindici privo dell’avambraccio destro a causa di un incidente motociclistico. Il nostro orgoglio. Già, perché appena un mese fa Paolo ha vissuto la più grande esperienza che uno sportivo possa sognare: quella di partecipare alle Paralimpiadi di PyeongChang, specialità snowboardcross, come unico piemontese presente nella spedizione azzurra.
Partiamo proprio dall’esperienza sudcoreana, Paolo. Che cos’è stata per te? Porta un po’ dello spirito olimpico anche a noi!
“Per me le Paralimpiadi sono state la realizzazione di un sogno, l’affermazione della mia carriera agonistica, la miglior ricompensa per tutti coloro che mi sono stati vicino e mi hanno accompagnato a questo grande evento. Siamo stati al centro dell’attenzione di migliaia di persone e questo, anche a settimane di distanza, crea grandi emozioni, come se fossi ancora là. In ogni momento ti rendevi conto che c’erano un sacco di persone lì per te, pronte ad aiutarti, a darti qualsiasi cosa di cui avessi bisogno, e, più in generale, c’era una grande armonia tra tutti noi atleti, nonostante la competizione, come se fossimo stati una grande famiglia. La lealtà prima di tutto”.
La gara?
“Sono contento, l’obiettivo era il decimo posto ed ho chiuso ottavo, che è per me un gran piazzamento, ma soprattutto lo spirito con cui l’ho conquistato è un punto di svolta, una base su cui migliorare, sicuro di me stesso come mai prima d’ora. Certo, quell’errore inseguendo il fortissimo Mike Minor non verrà dimenticato facilmente, ma ho capito che ho spazio per lavorare sull’allenamento e mettere la mia tavola davanti la sua”.
Parliamo di te. Com’era il Paolo di “prima” e quanto è cambiato dopo l’incidente? Che cosa si pensa quando si inizia il “dopo” e quale consiglio daresti a chi si trova nella tua situazione?
“Prima… beh è successo tutto il giorno dei miei diciotto anni, a causa di un incidente stradale. Com’ero prima? Sicuramente non curante e non consapevole della vita. Da quel momento non è che ho voltato pagina, ma inconsciamente alcune cose ti cambiano dentro: oggi comprendo dei valori che anni fa non avrei saputo apprezzare. Di certo non è stato l’incidente, sono stati gli anni passati e le mille esperienze che conseguentemente a questo ho affrontato, per volontà o per obbligo, negative e positive. Certo quando comincia il “dopo” non sai cosa stai facendo, non sai cosa vuoi fare e dove andrai, ma per fortuna, nel mio caso, grazie a tante persone, è iniziato subito nella giusta direzione, verso la reazione, verso la costruzione di una nuova vita, senza dimenticare quella vecchia, ma adeguandola alla condizione in cui mi trovavo”.
Come sei oggi, a più di dieci anni di distanza?
“Ora è facile parlare, ma per esperienza mi sento di poter dire che un po’ di sana sfida quotidiana, il fatto di reagire trovando il modo di fare una cosa apparentemente “impossibile” a causa della propria limitazione fisica sono piccole vittorie quotidiane personali, che ti aiutano a ritrovare la giusta strada, la voglia di vivere, che avevi perso a momenti, soprattutto in giovane età, dopo certi “imprevisti” di percorso. Oggi posso aggiungere che lo sport è un’ottima “medicina alternativa”, che riduce le distanze tra normodotati e disabili, e spero che il far conoscere le nostre attività sportive favorisca il coinvolgimento sportivo delle persone meno fortunate”.
Essere un atleta paralimpico, che cosa significa? Sono tanti i sacrifici?
“È un piacere ed una fortuna, ma comporta molte fatiche, soprattutto per chi lavora, perché richiede molto tempo e sforzi notevoli per gli allenamenti e limita i weekend di riposo, almeno fisico. Dopo una giornata di lavoro, allenarsi non è facile, ma la passione alla fine ha sempre ragione”.
1000Miglia è un mondo immaginato da ragazzi per ragazzi. Cosa ti senti di dire loro per il loro futuro?
“Lasciatevi appassionare da uno sport o da qualsiasi altra attività nel tempo libero, senza dimenticare la vita reale. Sognate, ma con i piedi per terra, per non dimenticare i veri valori della vita, senza privarvi di una passione, di una cosa che vi fa stare bene, qualunque cosa succeda”.
In ultimo, d’obbligo, obiettivi personali e sportivi?
“L’obiettivo a breve termine è quello di concentrarmi sul mio lavoro, che ho trascurato in questi ultimi mesi per le trasferte e gli allenamenti. Da “sportivo”, invece, dopo una pausa post-paralimpica, riprenderò ad allenarmi per arrivare pronto alla stagione agonistica, che quest’anno ci riserva il Mondiale, dove di certo non mi voglio accontentare dell’ottavo posto”.
Sognate, ma con i piedi per terra. Il nostro orgoglio.
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