27 Febbraio 2017 | Fotogramma
Con una mano prese il piccolo contenitore di vetro con dentro un lumino e lo avvicinò ad una candela, sottile e accesa, che teneva nell’altra mano. Si sfiorarono e subito brillò una piccola luce all’interno del vasetto. Accese così, una dopo l’altra, altre sette fiamme sottili in altrettanti contenitori di vetro posati per terra di fronte alla pedana.
Quando ebbe finito tornò a sedersi tra gli altri ragazzi sul tappeto rosso che copriva tutto il pavimento del padiglione.
Cantavano insieme scandendo le strofe sul ritmo lento della musica.
«Nada te turbe, nada te espante, quien a Dios tiene, nada le falta»
In un attimo le voci si spensero e fu silenzio. Rimanevano solo le parole limpide di un uomo che, inginocchiato sopra la pedana, leggeva:
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce»
Il brano continuava e l’uomo diede voce a quei versi millenari. Poi un altro, accanto a lui lo rilesse in una lingua diversa e poi un altro, in un’altra lingua ancora.
Intorno a lui alcuni avevano chinato la testa sulle ginocchia raccolte al petto, altri rivolgevano lo sguardo verso gli occhi della figura dipinta sul legno di fronte a loro. La ragazza che aveva acceso i lumini ora si rigirava tra le dita quella candela sottile con cui aveva acceso tutte le altre.
Dietro la pedana un telo arancione pendeva dal soffitto, fino a toccare il pavimento di pietra. Tre fili trasparenti lo tenevano teso verso l’alto. Era saldo, assicurato com’era a quei fili invisibili.
Ancora più indietro c’erano diversi faretti che riempivano l’aria di una luce arancione come il telo e gialla come le fiamme delle candele.
Quando l’ultimo uomo sulla pedana finì di leggere ci fu silenzio e poi di nuovo l’immenso padiglione si riempì di musica, poi ancora silenzio.
Ogni persona prendeva parte a quel susseguirsi di canti e meditazioni. Si sovrapponevano lingue diverse, volti pallidi e scuri.
Ad un tratto alcune persone si alzarono e si incamminarono verso il fondo del padiglione, subito altri li seguirono. Arrivati di fronte alla pedana si inginocchiarono, per qualche minuto appena. Alcuni chiudevano gli occhi e muovevano le labbra pronunciando parole mute. Poi un po’ alla volta si rialzavano, tornavano indietro, raccoglievano le loro giacche e gli zaini, e parlando e sorridendo silenziosamente uscivano.
(Foto di Caterina Basiglio)
30 Gennaio 2017 | Fotogramma
1849
La polvere bianca si alzava dalle strade di campagna, danzava portata dal vento, attraversava il silenzio dei paesi e, finito il suo viaggio, si adagiava di nuovo a terra.
Alcuni granelli di polvere entravano nelle case abbandonate e si posavano sulle sedie rovesciate, sui portagioie vuoti buttati sul pavimento, sul tavolo ancora apparecchiato, nell’angolo in fondo alla cucina. Altri invece, nel loro percorso, incontravano porte chiuse, luci spente, campi lasciati incolti, occhi spaventati che si nascondevano dietro finestre con pesanti tende di tela bianca.
Un uomo era seduto su uno scalino davanti alla porta di casa, la schiena appoggiata al muro, mentre teneva fra la braccia la figlia. La mano piccola e delicata della bambina appena nata si muoveva, guidata da quella forte del padre, nel tentativo di salutare un altro uomo dietro la macchina fotografica.
Sullo stesso scalino di pietra, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, avvolta in un vestito nero, una donna li guardava. Con gesti precisi, meccanici, incrociava fili di lana ispidi, creando un panno marrone informe. Sembrava esausta, schiacciata da una forza invisibile.
«Sa di tempo rubato alla morte, Marco»
Nessuna risposta.
La bambina arricciò il naso e strinse gli occhi infastidita, avvicinò le mani al viso paffuto agitandole davanti a sé e sternutì: alcuni granelli di polvere avevano cercato di posarsi davanti alle sue narici. Il rumore echeggiò cupo tra le strade deserte per disperdersi poi nell’aria limpida di marzo.
«Marco rispondimi! È questa libertà che cercavamo? È per questo silenzio che sono morti i miei fratelli e tutti gli altri partigiani come loro?»
L’uomo alzò lo sguardo dalla figlia, che si stava dolcemente addormentando, per lasciarlo vagare tra i sentieri di montagna che vedeva davanti a sé, lo lasciò scivolare lungo le creste ancora innevate, giù fino alle valli, dove si scorgevano i primi paesi.
Poi lentamente si girò, fissò negli occhi la donna che aveva affianco, e rispose:
«Sì, è per questo silenzio, per non sentire più il rumore sordo degli spari.»
30 Novembre 2016 | Fotogramma
Simone era rannicchiato sotto il suo letto nell’angolo più buio, quello tra la parete e l’anta bianca dell’armadio. Le mani piccole e paffute disponevano scrupolosamente in file di cinque alcuni areoplanini di carta, spolverandoli e controllando che fossero piegati nel modo giusto. Rimase fermo un attimo ad osservare lo spicchio di luce che si era posato sul suo schieramento di areoplanini.
Quel lampo di luce fu subito seguito da un tuono: «Simone, dove sei?»
I passi della madre si avvicinavano al letto.
Il bambino si infilò rapido tra uno scatolone ed un altro e in un attimo fu in piedi, tra la mamma e il suo rifugio.
«Hai il pigiama pieno di polvere, cosa facevi sotto il letto?»
Simone spostò il peso del suo corpo da una gamba all’altra in un dondolio incerto, le sue mani si cercavano per stringersi in un groviglio di dita in continuo movimento. Abbassò lo sguardo e sfregò tra di loro le ginocchia, fino a che il batuffolo di polvere che si era aggrappato alla morbida stoffa del pigiama non cadde a terra.
La madre proseguì: «Cosa hai fatto alla mia agenda?»
Il bambino aprì la bocca un paio di volte, ma il suo sforzo di dare una spiegazione finiva sempre in una silenziosa smorfia di disagio.
Alzò timidamente i grandi occhi neri sulla mamma, che teneva minacciosamente in mano l’agenda con le pagine strappate agitando quello che rimaneva dei suoi appunti davanti al suo viso.
Gli occhi di Simone iniziarono a rimbalzare velocissimi da un punto ad un altro della stanza fermandosi per pochi secondi su alcuni oggetti per poi scartarli e continuare nella loro ricerca.
«Non cercare scuse»
Allora Simone si chinò piano, strisciò sotto il letto con l’abilità di un esperto, di chi percorre quella strada tutti i giorni. Le sue piccole dita afferrarono con delicatezza gli aereoplanini. Dopo interminabili minuti il suo viso paffuto, incorniciato dai riccioli neri, fece capolino da sotto il letto. Si fermò ancora qualche secondo, Accovacciato sotto le assi di legno e poi, esitante, uscì dal suo nascondiglio, cercando di proteggere tra le braccia una pila di areoplanini.
30 Ottobre 2016 | Fotogramma
Appoggiato alla parete sinistra della cucina c’eraun divano su cui era stata buttata una coperta con pallidi disegni floreali, mentre nel centro della stanza era sistemato un tavolo di legno usurato. Di fronte alla porta, sopra i fornelli, erano stati fissati dei mobiletti con le ante bianche, ai cui bordi si insinuava il marrone della ruggine che a poco a poco stava erodendo il bianco laccato. Il frigo lì vicino era di un verde sbiadito e produceva un borbottio metallico che si diffondeva per tutta la cucina confondendosi con le voci provenienti dal televisore lasciato acceso. Sopra ogni cosa fluttuava uno spesso strato di polvere.
Nella parete a destra c’era una porta a vetri socchiusa che dava sul balcone.
Lì fuori, di spalle, un uomo con un maglione di lana marrone era chinato verso la ringhiera. Aveva la mano rugosa sollevata, mentre stringeva una paletta. La ruotò facendo scivolare il mucchietto di polvere che aveva raccolto dal pavimento e lasciandolo cadere verso strada, quattro piani più in basso.
Per un attimo stette fermo a guardare la polvere che creava una nuvola dorata e si disperdeva nell’aria.
Poi si girò e rientrò in casa trascinando le gambe con fatica. Prese la scopa e gli stracci e ricominciò a pulire, raccolse la polvere in un angolo, la mise sulla paletta e uscì sul balcone per liberarsene. Di nuovo una nube d’oro si allargò nell’aria e così altre ancora, una dopo l’altra.
La luminosa luce del pomeriggio era diventata pallida e soffusa e la polvere rimaneva, impalpabile, a coprire ogni cosa in quella casa. L’uomo si accasciò su delle sedie lasciate disordinatamente intorno al tavolo.
Una lacrima scese lenta sul suo volto seguendo i solchi incisi sulla pelle secca e ruvida. Guardandosi intorno sussurrò tra sé: «rimane la polvere come rimangono queste rughe e la mia vecchiaia».
I suoi occhi velati si fermarono sui flaconi e sulle confezioni di medicinali posati sul tavolo. Qualcuno aveva lasciato un foglietto con scritto: «Ricordati di prendere le pastiglie per la pressione tutti i giorni, l’antidolorifico se la schiena ti fa male e mezza compressa bianca dopo i pasti. Vedrai che ti riprenderai presto papà!» Si alzò, prese tutti i farmaci e sollevando a fatica il coperchio del cestino della spazzatura con il ginocchio li buttò.
Andò a prendere la giacca e un cappello e si vestì. Prima di uscire scarabocchiò qualcosa su un biglietto e lo posò sul tavolo. «Lasciatemi invecchiare» furono le parole che scrisse sorridendo.
30 Settembre 2016 | Fotogramma
La strada che passava davanti all’ospedale era deserta all’ora di pranzo. Il caldo di fine estate asciugava le pozzanghere sparse ai lati della strada, residui di una notte di pioggia. Si stavano avvicinando due bambini, undici, dodici anni al massimo. Camminavano, saltellavano ogni tanto e nel frattempo parlavano e ridevano fra di loro. Si fermarono sul margine del marciapiede di fronte ad una delle pozzanghere.
«Che schifo»
«Sembri proprio una femmina»
«Allora salta tu se hai coraggio, Adam»
«Certo che ho coraggio»
Adam aveva delle ciabatte grandi, troppo lunghe per lui, i suoi piedi scalzi lasciavano vuota metà della suola. Aveva la pelle olivastra costellata di leggeri graffi sulle ginocchia e sui gomiti. Il bambino vicino a lui, stesso colore della pelle e stessi vestiti consumati, teneva in mano un sacchetto di plastica vuoto.
Uno, due, tre, uno sguardo e Adam saltò. L’altro, pantaloni macchiati dalle gocce di acqua sporca, rideva mentre usciva dalla pozzanghera sorridendo e togliendosi una dopo l’altra entrambe le ciabatte.
La loro pelle bagnata rabbrividì al passaggio del vento leggero che aveva iniziato a soffiare verso di loro. Il sacchetto di plastica si gonfiò lievemente, andando a scontrarsi con la gamba di Adam che abbassò lo sguardo.
«Dammelo, ti faccio vedere una cosa»
Senza aspettare una risposta, Adam gli prese il sacchetto dalle dita strette a pugno, mise una mano dentro per aprirlo del tutto e, tenendolo per i bordi, lo sollevò sopra la testa.
«Guarda, questa è la vela della nostra nave e noi siamo i pirati»
«E possiamo andare dove vogliamo con la nostra nave?» La plastica blu ondeggiava seguendo il vento.
«Certo»
«Sei sicuro? Non ci servono le barche grandi, quelle dei film?»
«No, basta immaginarsele»
Adam iniziò a correre con il sacchetto sempre sollevato in alto e l’altro bambino lo seguiva, procedevano a zigzag sul marciapiede. Intanto Adam gridava:
«Timoniere, dobbiamo allontanarci dalla costa o andremo a sbattere»
«Agli ordini capitano» Presero una via a destra e le loro risate si persero tra i vicoli silenziosi.