Attese

Torino, 21 settembre 2017

Due ragazzi, stretti tra il finestrino del tram e gli altri passeggeri, parlano tra di loro.
Hanno entrambi occhi scuri, dello stesso colore della loro barba che sale ispida dal collo al mento fino ad arrivare alle guance.
Luca è il più alto, ma non fosse per questo dettaglio si assomigliano molto.
«Ci arrivi a schiacciare?»
Uno dei due infila la mano tra le spalle di due anziane signore e si tende fino a raggiungere il pulsante rosso, preme.
Una manciata di secondi, una curva e poi il tram si ferma. Le mani si stringono intorno alle maniglie e alle sbarre, si tendono i muscoli per rimanere saldi al proprio posto, per resistere alla frenata.
«Mi scusi, permesso»
Si fanno largo tra i gomiti, tra le mani ancora serrate intorno ai corrimani, tra i corpi della gente e scendono.
«Ha detto che sta arrivando».
Luca si aggiusta la giacca, china la testa e tira sù la cerniera. Si incammina a passo svelto per la strada e si volta indietro per controllare che l’altro lo segua.
«Non è lontano da qui, se andiamo veloce dovremmo fare in tempo»
Abbassa la cerniera e riapre il giubbotto.
«Fa caldo. Tu stai bene così?»
Nessuna risposta. Rimangono in silenzio per un po’, si sente solo il ritmo veloce del loro respiro. Poi Luca si volta di nuovo: «Secondo te come sarà?»
Ora camminano uno di fianco all’altro, anche se ogni tanto devono dividersi per oltrepassare un gruppo di anziani o una scolaresca.
«Chissà cosa dirà, se è proprio come ci hanno raccontato».
Cala di nuovo il silenzio, fino a che Luca si gira all’improvviso e afferra per il braccio il compagno e quasi gli urla contro.
«Smettila di essere arrabbiato. Non poteva tenerci, lo capisci? È stato meglio così per noi».
Continua a parlare, ad agitare le braccia, a controllare l’orologio.
Poi ad un tratto si ferma in mezzo alla strada: «Io non lo so se abbiamo fatto bene a decidere di incontrarla, ok? Tu però se vuoi puoi non venire. Torna indietro. Ma io vado, ho passato questo anni a chiedermi chi fosse, come fosse fatta, se mi somigliasse o no, ora non torno indietro».

 

Gli Invisibili

Cuneo, 5 settembre 2017

Un calcio colpì con forza la schiena avvolta in un coperta gialla usurata.

«Arrivano»
L’uomo socchiuse gli occhi e si girò su un lato facendo scricchiolare il cartone sotto di lui. Il vetro che aveva davanti, illuminato dalla luce pallida del mattino, rifletteva l’immagine delle decine di biciclette legate alla rastrelliera, del marciapiede rossiccio e della ringhiera che lo delimitava, interrotta da una scalinata. Sul vetro si vedevano anche ombre scure muoversi frettolose alle spalle dell’uomo ancora coricato. Gli altri erano già tutti in piedi a raccogliere le loro cose.

«Arrivano», gli disse di nuovo con voce roca il vecchio che lo aveva svegliato, mentre gli passava accanto, stringendo tra le mani raggrinzite due sacchi neri della spazzatura, pieni fino all’orlo. Cinque o sei uomini si muovevano rapidi intorno a lui, correndo da una parte all’altra, chinandosi, afferrando, raccogliendo, in un silezio soffocato.
Scostò la coperta e si alzò.
Poco distante, tra le ruote delle bici, c’erano un paio di ciabatte nere con la suola rossa, se le infilò rapidamente nei piedi scalzi e corse verso la ringhiera. Afferrò i jeans scuri e la maglietta appesi al corrimano polveroso, erano ancora umidi. Mentre tornava dove aveva lasciato le sue coperte, un ragazzo, correndo verso le scale, gli tirò una spallata facendogli perdere l’equilibrio. Cadde su una delle tante bici, ma fu un attimo, e poi era di nuovo in piedi, chianato sulla sua borsa di plastica verde, per cercare di stipare più cose possibili. Buttò dentro i vestiti e le coperte e piegò i lunghi pezzi di cartone che erano rimasti a terra. Raccolse rapidamente alcune scatole di cibo scaduto che erano ancora sparsi sul marciapiede e li spinse negli angoli della borsa che erano rimasti liberi. La appoggiò, ormai piena, contro la parete di vetro, di fianco alle striscie di cartone.

In quell’istante, due ragazzi corsero giù dalle scale, lasciandolo solo sul marciapiede ormai vuoto. Si guardò intorno, gli occhi che guizzavano da una parte all’altra. Non c’era nesuno. Si chinò ancora una volta, frugò senza sosta tra i sacchi neri abbandonati, tra le scarpe incastrate nei raggi delle ruote delle bici, finchè trovò un paio di scarpe da ginnastica bianche sotto una pila di cartone. Le strinse al petto con una mano, con l’altra afferrò i manici della borsa verde e affrettando il passo scese anche lui le scale.
Arrivato al fondo, si infilò nel sottopassaggio e si diresse verso un angolo riparato dalla penombra. Sistemò le sue cose in un affranto del muro, vicino ad altri sacchi e ad altre coperte e si diresse verso la fine del tunnel. Salì le scale riemergendo in superficie e sparì tra le strade ancora silenziose.

Il cielo si schiariva ad ogni minuto, preparandosi all’arrivo del sole e facendo risplendere la costruzione di vetro che copriva le scale da cui era appena emerso l’uomo. Sopra la scalinata spiccavano quattro quadrati colorati con la scritta Movicentro.

6724.85 ¥

Sul display della cassa del supermercato la scritta in verde indicava 6724.85 ¥. Le piccole dita di un bambino divisero rapidamente il denaro già contato dal resto che gli rimaneva sul palmo della mano: una banconota da mille yen, una moneta da dieci, una da cinquecento e pochi altri spiccioli. Il bambino alzò lo sguardo verso la nonna e scosse la testa.
La donna anziana allora, rivolgendosi alla cassiera, chiese: “Mi scusi, possiamo lasciare la torta?”
Le sue dita, così fragili da sembrare di carta stropicciata, tirarono fuori la torta ancora ben confezionata da uno dei sacchetti di plastica e la posarono sul banco, sporgendosi poi per mettere nelle mani della cassiera qualche banconota con sopra alcune monete.
Finì di riempire i sacchetti e, voltandosi, incontrò gli occhi neri a mandorla di una bambina che dal basso si fissarono in quelli della nonna: “Ma la torta era l’unica cosa che volevo.”
La donna si chinò fino ad arrivare all’altezza della nipote: “La prossima volta Haruna, va bene? Quando potremo permettercela”
“Anche l’ultima volta hai detto così” e diede le spalle alla nonna. Si sollevò sulle punte dei piedi e afferrò alcune delle borse della spesa. Stava per allontanarsi quando il bambino le si avvicinò prendendogliele dalle mani: “Non arrabbiarti, non era buona quella torta. Compreremo qualcos’altro.”
La nonna annuì con un sorriso, sfiorando i capelli scuri e lisci della bambina e si incamminarono tutti e tre verso l’uscita.
Il cliente successivo posò davanti alla cassiera un confezione di plastica contenente vari tipi di sushi e una bibita e indicò la torta abbandonata sul bancone: “È buona?”
“Sì molto”
“Prendo anche quella allora”
Pagò in fretta, si allontanò dalla cassa a grandi falcate e con pochi passi raggiunse la bambina che, per mano alla nonna, stava parlando vivacemente. Le sfiorò una spalla e, prima ancora che lei si fosse girata, tese le braccia verso di lei. In mano aveva la torta.
“Questa è per te”
Sul volto di Haruna si spalancò un sorriso, la pelle ambrata si infossò ai lati della bocca e la bambina allungò a sua volta le braccia verso l’uomo di fronte a lei. Poi con un movimento rapido ma silenzioso le riportò vicino al corpo e, improvvisamente timida, chiese: “Posso?”
“Certo, è tua”
Prese la torta con delicatezza, tenendola con entrambe le mani e quando questa scivolò leggermente da un lato fu subito pronta a riportarla in orizzontale, prima che si schiacciasse contro i bordi della scatola. La guardava con gli occhi spalancati, con lo stesso sguardo carico di gratitudine che, alzando la testa, rivolse all’uomo ancora chinato verso di lei.

Maschera Bianca

Girò lentamente la testa, ora lo specchio rifletteva la parte destra del collo e del viso. Passò il pennello sulla pelle lasciando una scia di cera profumata e inclinando ogni tanto il capo all’indietro per raggiungere ogni punto. Dopo che ebbe spalmato la cera su tutto il viso, allungò le braccia fino a raggiungere la schiena e dipinse di bianco le spalle, fino alle scapole, lasciando due spicchi di pelle scoperta dietro il collo.
Con un pennello sottile ripassò di rosso le labbra e di nero le sopracciglia.
Avvolse il kimono di seta intorno al corpo e uscì nel giardino.
L’aria era fredda e umida, un passo dopo l’altro si incamminò su uno dei sentieri di pietra che si aggrovigliavano tra gli alberi intorno al padiglione e che erano ricoperti da una patina di acqua scivolosa.
Già sulla soglia del padiglione l’odore dell’erba e della pioggia si mischiava a quello dell’incenso.
In fondo alla stanza, sul pavimento di legno, era adagiato il corpo di una donna. Un uomo era chinato su di lei, intento a lavare il viso cereo con un panno bianco.
Si avvicinò ancora e si inginocchiò.
Davanti a lei il corpo della donna era coperto con una stoffa azzurra sottile, su cui serpeggiavano fili argentei. Soltanto il viso era scoperto, con i capelli sciolti che ricadevano sul cuscino.
L’uomo intanto continuava a pulire il corpo e a cospargerlo con olii profumati. Quando ebbe terminato prese con delicatezza da sotto la stoffa le mani rigide della donna e gliele unì sul petto.
La geisha chinò la testa fino a sfiorare con la fronte quelle mani e stette ferma, con gli occhi chiusi.
In piedi vicino alla soglia un bambino le guardava.
L’uomo prese un pennello e stava per appoggiarlo sulla pelle della donna quando la geisha chiese: “Permette?”
Gli sfilò la cipria bianca dalle mani e iniziò a coprire il viso della donna.
L’uomo la fissava, gli occhi seguivano ogni suo gesto. Le parole gli uscirono in un soffio, come se temesse il suono della sua stessa voce: “La conosceva bene?”
“È stata la mia sorella maggiore, la geisha che mi ha insegnato ad essere un donna d’arte. Quand’ero un’apprendista era lei a truccarmi.”
La donna finì di dipingere la pelle della geisha, le acconciò i capelli in uno chignon intorno a cui appoggiò dei piccoli fiorellini bianchi, poi fece scivolare un piede in avanti e si alzò.
Quando uscì dal padiglione, sul mobile basso nell’angolo a destra, stava ormai cadendo sul portaincenso la cenere del terzo bastoncino bruciato.
Uscendo prese per mano il bambino che fino a quel momento aveva aspettato attonito all’inizio del padiglione. I suoi lineamenti infantili si confondevano con quelli della donna che giaceva fredda sul pavimento di legno alle sue spalle. La geisha gli strinse la mano e lo portò via con sé.

Alice

I ragazzi giocavano nel cortile sul cemento scaldato dal sole. In un angolo, all’incrocio di due linee bianche tracciate per terra, era inginocchiata Alice. Di fronte a lei passavano di corsa gambe e grida, palloni e risate. Aveva sulle ginocchia un quaderno un po’ consumato sui lati. Le mani pallide guidavano con sicurezza la matita sul foglio e a poco a poco prendeva forma il corpo di un animale. Ogni tanto sollevava lo sguardo dai suoi disegni e fissava il cielo sistemandosi i ricci rossi dietro l’orecchio. A tenere fermi i capelli c’era anche una fascia di un azzurro pallido. Tutto di lei era pallido: le mani delicate, gli occhi di un azzurro quasi trasparente, i pantaloni con piccoli fiorellini. Tutto, tranne i capelli.
Poi proseguiva il suo disegno. Ad un tratto posò la matita e guardò attentamente la volpe che aveva tratteggiato, mancava ancora il muso. Rimase qualche istante ferma, poi si chinò e tracciò una curva per la bocca. Il muso della volpe aveva la fisionomia del volto di un ragazzo: gli occhi grandi, coperti dalle palpebre e la bocca piegata in una smorfia di tristezza.
Quando finì di disegnare chiuse il quaderno e lo mise nella borsa marrone che aveva posato lì vicino, si alzò e tenendola stretta tra le braccia fece il giro del cortile. Raggiunse una porta di legno ed entrò in un’ampia aula. Tra i banchi erano sparsi zaini aperti, alcuni fogli di carta stropicciati e qualche penna lasciata cadere a terra. Alice si sedette in un banco in prima fila di lato, vicino alla finestra. Era l’unico ordinato: i quaderni impilati uno sull’altro, i pennarelli allineati in base al colore.
Suonò la campanella ed entrarono gli altri studenti accompagnati dal rumore delle loro chiacchiere. Alice chiuse gli occhi, li strinse e si coprì le orecchie con mani. Disse soltanto, sottovoce, «Sshh, fate silenzio».
Lentamente abbassò le mani, tremava. Quelle voci e quei visi la terrorizzavano: erano troppo per il suo fragile essere.

Margherita

Una bambina bionda, con una pinzetta rosa fra i lunghi capelli lisci, se ne stava rannicchiata con le ginocchia al petto, seduta sul bordo di una finestra. Con una mano stringeva il filo sottile a cui era legato un palloncino rosso.
Si guardava intorno, giocherellava con il bordo della gonna, tirava a sé il palloncino arrotolando il filo attorno al dito e poi lo lasciava di nuovo allontanarsi verso l’alto. Ogni tanto lanciava brevi occhiate verso uno dei balconi della casa che si trovava sul lato opposto della strada.
Ad un tratto la finestra si aprì e un bambino uscì correndo sul balcone e urlò «Marghe! Marghe!»
La bambina era concentrata ad osservare un gatto arancione che si strusciava contro il muro sotto di lei, ma appena sentì pronunciare il suo nome si voltò di scatto. Sorrise e agitò una mano in aria in direzione del bambino di fronte a lei.
«Finalmente! È un sacco che sono qui ad aspettarti.»
Il filo tirava verso l’alto e Margherita lo afferrò anche con l’altra mano. Allungò le gambe oltre la finestra e per un attimo le lasciò penzolare, poi le piegò una per volta e si mise in ginocchio sul davanzale.
Finì di sistemarsi e gridò: «Mi scappa! Sei pronto? Lo prendi?»
La risposta del bambino arrivò confusa. Lui però si sporse in avanti con le braccia tese nel cielo azzurro.
Margherita si sollevò tenendosi con una mano allo stipite della finestra, allungò il braccio e allentò la presa delle dita intorno al filo, fino a lasciar scivolare via il palloncino.
Rimase lì immobile, in bilico sul davanzale della finestra, con lo sguardo fisso su quella chiazza rossa che si perdeva nel cielo.
Un secondo, due secondi, tre secondi.
Gli occhi si spostarono sul bambino, che aspettava dall’altra parte l’arrivo del palloncino. Margherita si abbassò lentamente, con cautela, si sedette e di nuovo si strinse le ginocchia al petto, chiudendo tra le mani la punta dei piccoli piedi coperti da calze blu con pois bianchi. Si morsicò le labbra continuando a tenere gli occhi incollati al palloncino che danzava in balia del vento, dirigendosi con un percorso tortuoso verso il lato opposto della strada.

Foto di Caterina Basiglio

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