18 Marzo 2020 | A caccia di eventi
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Questi famosissimi versi della poesia Itaca di K. Kavafis esprimono lo spirito dello spettacolo teatrale Thanks for vaselina, con cui ormai da sette anni Carrozzeria Orfeo delizia il suo pubblico: la dolcezza con cui racconta un pezzo di storia di Fil, Charlie, Wanda, Lucia e Annalisa; la determinazione con cui ci mostra i difetti umani, ma anche la possibilità di riscattarsi e le potenzialità nascoste; la speranza con cui ci lascia alla fine.
Carrozzeria Orfeo, compagnia nata a Mantova nel 2007, tra febbraio e i primi di marzo è passata allo Stabile di Torino, con Thanks for vaselina (2013), ma anche con altre due produzioni più recenti: Animali da bar (2015) e Cous Cous Klan (2017); per poi continuare un tour nei maggiori teatri italiani. Di loro dicono: «Nel nostro lavoro abbiamo deciso di stare su quel fragile confine dove, all’improvviso, tutto può inevitabilmente risolversi o precipitare, provando a fotografare un’umanità socialmente instabile, carica di nevrosi e debolezze, attraverso un occhio sempre divertito e, soprattutto, innamorato dei personaggi che racconta». Dal 2007 hanno realizzato otto spettacoli, di cui Thanks for vaselina è il sesto, vincendo numerosi premi.
È uno spettacolo difficile da raccontare: le emozioni impediscono una sintesi chiara e concisa. Incominciando da una trama di base che tuttavia non rende onore a quello che lo spettacolo è, direi: Fil e Charlie (che appaiono fin dall’inizio opposti, l’uno cinico, l’altro idealista, ma lo spettacolo ci riserberà sorprese) sono soci nel progetto di esportare marijuana dall’Italia al Messico (in un immaginario scenario in cui l’America ha bombardato il Messico per estendere lì la sua democrazia, distruggendo tutte le piantagioni del luogo). Tuttavia il primo tentativo di iniziare l’affare è da poco andato a finire male: infatti un pluricitato carlino (che mai si vede in scena, questo rende il tutto così spassoso!) vaga per le strade della città dopo essere scappato dall’aeroporto dove stava per essere inviato in Messico. In quel carlino c’è la marijuana. I due, con la madre di Fil, Lucia, e una grassa e insicura ragazza di nome Wanda, escogiteranno e cercheranno di mettere in pratica un nuovo piano, mentre improvvisamente si presenterà a casa il padre di Fil, anni prima scappato di casa.
Si vede subito che lo spettacolo punta a farci ridere, fin da quando Fil si lamenta urlando contro Charlie: «Dovevi proprio scegliere un carlino con l’anca rifatta, un carlino handicappato?». E Charlie: «Disabile, non handicappato!». Ma poi quando Wanda, divenuta parte del nuovo piano, inizia a parlarci della sua vita, lo spettacolo prende quella curva delicata che non perderà mai per il resto della performance, diventa racconto delle fragilità e delle potenzialità umane. Anche Lucia è un personaggio che rispecchia la doppia natura dello spettacolo: ha col figlio un rapporto disastroso, ma nasconde un legame che solo a fine spettacolo si scoprirà; è da poco uscita da una cura per ludopatici, che non sembra abbia molto funzionato, perché continua a chiedere in giro spiccioli per giocare. Ma appare subito un donna generosa, infatti si occupa di una prozia malata, e altruista: non appena Wanda entra nelle loro vite, se ne prende cura e la incoraggia a lottare contro la sua insicurezza.
Emergono spaccati di vita emozionanti, in particolare dall’ingenua Wanda e dall’ex marito di Lucia e padre di Fil: non credo che potrò mai dimenticare la sensazione provata guardando la scena in cui parla con Lucia seduto sul divano. Non credo che mai dimenticherò il racconto dell’atto di amore di Wanda verso suo fratello.
Il valore di una vita, la cura uno per l’altro, il difficile rapporto tra figli e genitori, le scelte personali portate avanti con convinzione per la propria vocazione, il riscatto dalle difficoltà. Sono tante le cose che mi rimarranno nel cuore di questo spettacolo, grazie soprattutto alla sincerità delicata con cui i personaggi sono descritti e fatti interagire. Sembra davvero che siano stati amati dal regista e dagli attori stessi – protagonisti di una recitazione impeccabilmente coinvolgente – che infatti a fine spettacolo hanno accompagnato il pubblico nelle lacrime. Il senso generale che mi ha dato è stato di tristezza, ma mi sono sentita anche spinta a riflettere sul valore della vita, sulle proprie scelte, sul ricercare il proprio benessere. E cercherò in tutti i modi di andare a vedere altri spettacoli di Carrozzeria Orfeo, se questo è il risultato, e invito tutti voi a fare altrettanto. Aspettando che ripassino qui in Piemonte.
Visto domenica 9 febbraio 2020 al teatro Gobetti, Torino.
drammaturgia Gabriele Di Luca
con Gabriele Di Luca, Pierluigi Pasino, Massimiliano Setti, Beatrice Schiros, Francesca Turrini
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
musiche originali Massimiliano Setti
luci Diego Sacchi
costumi e scene Nicole Marsano
e Giovanna Ferrara
Carrozzeria Orfeo – Marche Teatro
Per info su Carrozzeria Orfeo e lo spettacolo: https://www.carrozzeriaorfeo.it/ ; https://www.carrozzeriaorfeo.it/spettacolo/thanks-for-vaselina
7 Febbraio 2020 | A caccia di eventi
Viaggi e migrazioni, siamo sicuri di sapere già tutto su questi temi così attuali? In vista delle prossime proiezioni dell’emozionante documentario SUITCASE STORIES ecco un’intervista con l’associazione MiCò, realizzatrice del progetto insieme al regista Francesco Scarafia e il giornalista Francesco Rasero.
Un documentario per conoscere un po’ di più, per conoscere in modo nuovo. Per viaggiare oltre i luoghi comuni grazie a chi ci apre la porta sulla sua storia di vita.
1) Come nasce e di cosa si occupa l’associazione MiCò?
MiCò in piemontese vuol dire “Anch’Io”: questo nome sottolinea la nostra vision improntata all’accoglienza e alla cittadinanza attiva. Siamo un’APS (Associazione di Promozione Sociale) nata a Cuneo nel 2015. Abbiamo molteplici obiettivi: creare una rete non istituzionale autofinanziata a sostegno di richiedenti asilo e rifugiati in uscita dai Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS); promuovere la cultura dell’accoglienza e dell’inclusione e contrastare le discriminazioni e l’intolleranza; realizzare progetti di inclusione sociale e lavorativa per i migranti; promuovere l’Intercultura, intesa come dialogo tra le culture, come processo complesso che implica la de-costruzione delle nostre categorie e l’ascolto curioso dell’altro e di sé.
MiCò è attualmente costituita da un gruppo intergenerazionale di volontari, molti dei quali erano già attivi nel 1992 nell’accoglienza di famiglie in fuga da Sarajevo. Con la nuova ondata migratoria, si è sentita la necessità di ripetere l’esperienza. Sosteniamo i beneficiari nella ricerca della casa e del lavoro, nella conoscenza del territorio e nella creazione di una rete sociale. Numerosi sono stati i/le ragazzi/e entrati/e e usciti/e dal progetto, dopo un periodo definito di sei mesi o un anno, con cui sono stati mantenuti i legami creati. Oggi fanno parte del progetto tre ragazzi, due del Mali e uno dal Senegal, che vivono nello stesso appartamento, e un ragazzo del Gambia che è ospite di una famiglia. Questo progetto di Terza Accoglienza, il Social network solidale, è totalmente autofinanziato tramite quote private. I/le volontari/e son organizzati/e in tre gruppi operativi: Busso alla porta, che si occupa di questioni pratiche legate all’accoglienza; Entefanag (che significa “anch’io” in lingua bambara), che organizza e comunica azioni per creare una cultura di rispetto e inclusione, parlando della migrazione con prospettive e linguaggi nuovi e insoliti; e il gruppo Azione politica, che agisce insieme ad altre realtà del territorio attraverso la rete Minerali Clandestini.
Micò intraprende anche altri progetti finanziati, promossi e realizzati da un’équipe professionale formata dalle psicoterapeute Elena Elia ed Elisa Dalmasso e dagli antropologi Giulia Marro e Claudio Naviglia. SUITCASE STORIES – Storie di viaggio e migrazione (Italia, 2019, 23’) è uno di questi progetti.
2) Come nasce nello specifico l’idea di SUITCASE STORIES?
Nella primavera dello scorso anno siamo stati contattati da un regista di Bra, Stefano Scarafia, e un giornalista di Carmagnola, Francesco Rasero. Stavano cercando un’associazione cuneese con cui co-progettare un reportage da proporre a Frame, Voice, Report!, un bando europeo con l’obiettivo di aumentare l’impegno dei cittadini per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. Li abbiamo incontrati e ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda. L’idea iniziale prendeva spunto da Airport security, reality americano in cui gli intervistati potevano raccontarsi davanti alle telecamere attraverso oggetti che stavano trasportando in valigia. Noi di MiCò abbiamo proposto di inserire nei luoghi di transito, oltre all’aeroporto di Levaldigi, anche la stazione ferroviaria e quella dei bus, il Movicentro. Questo per dare uno spaccato più ampio delle migrazioni nel territorio cuneese: quelle iniziate decenni fa, che ora vedono persone spostarsi in aereo per far visita ai paesi d’origine, e quelle recenti, che vedono ancora molti in attesa del riconoscimenti di uno status valido per ottenere documenti per viaggiare o per restare.
2) Come avete scelto i protagonisti delle storie di vita e di viaggio che il documentario racconta? Quali sono state le reazioni e quanta la disponibilità dei protagonisti di fronte alla richiesta di raccontarsi?
Questa fase non è stata semplice, perché volevamo riuscire a coinvolgere protagonisti di età, sesso e provenienza diversi. Abbiamo quindi attivato molti canali per incontrare persone provenienti da paesi più o meno lontani: Ilham, quindicenne nata in italia da genitori Marocchini; Fejzian, giovane praticante avvocato che a dodici anni ha lasciato l’Albania per raggiungere il padre; Ousseni, della Costa d’Avorio, che da sei anni raccoglie la frutta nel saluzzese; Belowe, giovane mamma originaria della Nigeri; Clarence, camerunese in Italia da tre anni, che ha fondato un’associazione per aiutare i migranti ad integrarsi in Piemonte; Nisveta, originaria di Sarajevo, arrivata in Italia come profuga di guerra; Dabo, maliano, che non ha ancora conosciuto la sua piccola nata dopo l’inizio del suo viaggio; e Alexandra, rumena, mediatrice culturale. Insieme a queste storie vi è anche quella di Paolo e Lucia che hanno scelto di far diventare la loro casa quella che quarant’anni fa era meta di vacanza e dalla Sardegna si sono così spostati a Cuneo.
Partecipare alle riprese è stato straordinario: i protagonisti non avevano un copione da seguire, venivano messi a loro agio dal regista e si aprivano passo dopo passo rispondendo alle domande del giornalista. Chi ha mostrato un oggetto estratto dalla propria valigia ha raccontato storie di quotidianità, intrecciate con ricordi passati e speranze per il futuro. Storie che arrivano da lontano, che richiamano odori, suoni e colori cari ai protagonisti, che li ricordano con nostalgia e sorrisi malinconici.
5) Che cosa vi piacerebbe portare nella provincia di Cuneo e fuori con la diffusione di SUITCASE STORIES, con i diversi spaccati di realtà che offre?
La nostra intenzione è quella di raccontare la migrazione da prospettive differenti rispetto alla retorica dominante. Vogliamo dare la possibilità di ascoltare le parole di chi vive sulla propria pelle la migrazione, attraverso il racconto intimo e personale, per umanizzare il fenomeno e raccontare dettagli che spesso vengono omessi. Facendo questo, il nostro desiderio è quello di portare i cuneesi a riflettere sul fatto che siamo tutti inseriti in regimi di mobilità. Viaggiamo continuamente per lavoro, per studiare, per conoscere, per divertirci, per abitare e ri-abitare i luoghi. Risulta quindi anacronistico distinguere ancora un “noi” stanziale e un “loro” che migra. E risulta fuorviante rispetto alla realtà: tutti siamo in mobilità, solo in modalità, tempi, spazi e confini diversi. Questo cambio di prospettiva e di paradigma può aiutare a osservare i fenomeni migratori con un’altra consapevolezza, nella direzione di un’accettazione della diversità che ci accomuna tutti. Questa riflessione condivisa, su cosa siano la migrazione e il viaggio, è un elemento che accomuna tutte le presentazioni del documentario che organizziamo in provincia nei cinema, nelle scuole o all’interno di eventi di paese.
6) Dove si può trovare il documentario e quando e dove saranno le prossime proiezioni in Cuneo e provincia?
Il documentario è disponibile online sul sito www.suitcasestories.it suddiviso in tre puntate oppure in versione integrale. Sta avendo inizio anche un tour di proiezioni a partire dalla prima serata lunedì 3 febbraio alle 21 al Cinema Teatro Magda Olivero di Saluzzo, inserita nell’appuntamento DIRITTI/ROVESCI. Nelle settimane successive il documentario toccherà diversi paesi della Granda, circuito dei Presìdi di Piemonte Movie aderenti a Movie Tellers – narrazioni cinematografiche: giovedì 13 febbraio a Cuneo al Cinema Lanteri; mercoledì 19 febbraio a Barge al Cinema Comunale; martedì 25 febbraio a Savigliano al Cinema Aurora; giovedì 27 febbraio a Dronero al Cinema Iris; martedì 10 marzo a Bra al Cinema Vittoria; giovedì 12 marzo a Busca al Cinema Lux e martedì 17 marzo a Ceva al Cinema Sala Borsi.
22 Gennaio 2020 | A caccia di eventi
Una veranda di vetro trasparente che dà su un podere della campagna russa. All’interno sei personaggi ululanti di risentimento, legati da arzigogolati legami familiari e triangoli sentimentali. Una distesa senza fine, non degli alberi che tanto ama il medico e amante dei boschi Astrov (l’unico che in qualche modo riesce a vedere al di là del proprio naso e dell’asfissiante veranda), ma di monologhi senza fiducia in risposte altrui.
Produzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, ad opera della regista ungherese Kriszta Székely, Zio Vanja di Čechov, debuttato nel lontano 1900, rivive per noi al teatro Carignano di Torino a gennaio.
Serebrjakov, intellettuale in pensione che da una vita riceve i proventi della tenuta senza essersene mai occupato, è da poco tornato in campagna con la seconda moglie, la bellissima Jelena. Qui ad aspettare l’anziano ci sono l’odio di Vanja, fratello della prima moglie defunta, che da anni si occupa del podere; e l’ossequenza di Sonia, sua figlia di primo letto, e della nonnina Maria Vassiljevna, madre della prima moglie, che hanno passato gli ultimi anni a seguire estasiate le sue attività. Il quadro si complica con l’affascinante e originale medico Astrov, chiamato per i presunti sintomi di malattia di Serebrjakov. La convivenza è segnata da trame sentimentali segrete, ma soprattutto, come si diceva, di tesi discorsi sul futuro e sul passato. E di cosa vaneggiano questi personaggi? Infatti non dialogano con gli altri, che forse sarebbe l’unica possibilità di una prospettiva di comune felicità, ma pensano ad alta voce. Vaneggiano: su come hanno sprecato il loro passato e non sanno da dove ricominciare per un futuro diverso; sulla vecchiaia; sulle scelte sbagliate e l’infelicità; sull’ottusità dell’umanità che distrugge senza prevedere le conseguenze.
Sembrerebbe una miscela capace di farti deprimere al primo istante, ma personalmente sia il testo di Čechov sia la messa in scena di questa emergente regista hanno avuto un effetto catartico. Su un pubblico giovane questo effetto è prevedibile: dal contrasto tra tutti questi rimpianti e la sensazione di avere il proprio futuro in mano, un giovane non può che uscirne rafforzato e rinvigorito. Čechov scrisse: < Io non ho scritto (le mie opere) per far piangere la gente.[ ] Volevo soltanto dire onestamente alla gente. “Dovete capire in che modo noioso e terribile vivete!” Cosa c’è da piangere su questo? > Credo che in questa frase si nasconda lo sguardo ironico che punta sui suoi personaggi, ironia espressa in questa messa in scena, nata da una scelta di riadattare un testo che è più che mai attuale: non solo per l’universo umano oggetto del testo, che si conferma immutato, ma anche per il bisogno che abbiamo di guardare alla realtà in una maniera satirica, che aveva Čechov, come abbiamo noi oggi.
Quindi non ho potuto che uscire dalla sala con un sorriso beffardo per la forte sensazione di presa sulla mia di vita, in contrasto con tutta la confusione dei personaggi sul palco. E questo nonostante un finale che non alleggerisce la tensione della prima parte, anzi la conferma coprendola con un velo di accettazione. Si tratta di un finale che non ci si dimentica, che vale tutto lo spettacolo, pieno di rassegnazione dolorante ma ispirata. Sonia ripete stancamente: “Io credo, zio, credo, con tutte le mie forze, con tutta l’anima, credo…”, “Riposeremo!” Buio.
Visto il 15 gennaio 2020 al Teatro Carignano di Torino.
di Anton Čechov
adattamento Ármin Szabó-Székely e Kriszta Székely
traduzione Tamara Török
curata da Emanuele Aldrovandi
con Paolo Pierobon, Lucrezia Guidone, Beatrice Vecchione, Ivan Alovisio, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Franco Ravera, Federica Fabiani
regia Kriszta Székely
scene Renátó Cseh
costumi Dóra Pattantyus
luci Pasquale Mari
suono Claudio Tortorici
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Per avere informazioni sullo spettacolo visita il: https://www.teatrostabiletorino.it/portfolio-items/zio-vanja-7-26-gennaio-2020/
21 Dicembre 2019 | A caccia di eventi
Urla. Scontri. Malintesi. In questo spettacolo teatrale ce ne sono fin troppi. Al punto da credere di avere davanti agli occhi un universo non reale, un sogno o una visione distorta della realtà. Sicuramente l’esagerazione con cui i tre personaggi di “Lucido” se le danno di santa ragione con le parole non è priva di effetti godibili: lo spettatore ride entusiasta, una battuta dietro l’altra.
E’ proprio sulla risata che JuriJ Ferrini punta nella sua trasposizione dell’opera Lucido del regista argentino Rafael Spregelburd, Premio Ubu 2011 come nuovo testo straniero: «Per apprezzare nella sua interezza un’opera di Spregelburd occorre ridere; ridere molto, lasciarsi andare» .«La risata, anche amara o atroce, è l’unica porta d’ingresso nel suo mondo, nella sua realtà scenica». L’opera del “teatrista” argentino si è già affermata nel panorama internazionale, venendo molto ben recepita in Italia, dove già numerose compagnie l’hanno messa in scena. E ora Ferrini, debuttando a dicembre 2019, la porta nuovamente in giro per l’Italia in una produzione TPE – Teatro Piemonte Europa e Progetto U.R.T. per la stagione TPE 19.20 del Teatro Astra.
In scena: ai giorni nostri, un’esile madre, Teté, e i suoi due figli, ormai adulti, Lucrezia e Luca. E una vicenda del passato che torna a galla, con il ritorno di Lucrezia, e scatena il finimondo. O almeno sembra. Perché non si è mai certi se ci troviamo in un sogno, in particolare di Luca, che sta seguendo un terapista che lo allena al sogno lucido, o nella realtà. Ma di inganni in questo spettacolo ce ne sono molti, e si finisce di scoprirli solo alla fine, con il fiato sospeso. Assistendo a come i tre personaggi, ai quali se ne aggiunge un quarto (che rimane però dai contorni un po’ sfumati, quasi a volerci dire “guardate che questa non può essere la realtà”), cercano di districarsi nel pasticcio venuto a galla, assistiamo a molteplici narrazioni, oniriche o reali poco importa, perché ad un certo punto tutto si mescola. Sottesa c’è l’idea che la realtà e il passato siano rivisitabili infinite volte da una mente umana e possano essere ricostruiti a proprio piacimento. La mente è un’infinita fonte di narrazioni, lineari o distorte. E se pensiamo al titolo, ci viene da chiederci se ci sia qualcuno di lucido in scena o se la lucidità, intesa come oggettività universale nel narrare i fatti accaduti, non sia esclusa da qualunque universo umano.
Uno spettacolo che va visto per l’ottima recitazione, che riesce ad emozionare senza essere troppo affettata, soprattutto quella della madre – interpretata da Rebecca Rossetti –, e di Luca – Federico Palumeri. E soprattutto per la frizzante costruzione testuale di Spregelburd, di cui Ferrini dice: «La sua comicità non è mai banale, è caustica, spietata, scorretta verso gli abitanti di quella parte del globo che risponde al nome di “occidente”. Sbugiarda i falsi valori e l’ipocrisia su cui si impernia il nostro patto sociale». Un testo che vale la pena leggere, per farsene un’idea al di là di questa trasposizione.
L’effetto infine è di un loop infinito di battute ripetute più e più volte, passando ininterrottamente dal sogno alla realtà. Si ride. Ma c’è qualcosa che stona, si crea una certa tensione. Stremati dal cercarne un senso, il ritmo è diventato insostenibile: il finale, che in fondo forse preferivamo rimandare, pone una conclusione amara a questa esagerazione. Il grido di Teté infatti ci fa capire tutto: tutti i pezzi si ricompongono, mentre vediamo già la luce oltre la porta; giungiamo così a leggere il libro che è sempre stato in scena. Buio.
Visto il 6 dicembre 2019 al Teatro Astra di Torino
Regia di Jurij Ferrini
Tetè / Rebecca Rossetti
Lucrezia / Agnese Mercati
Luca / Federico Palumeri
Dario / Jurij Ferrini
traduzione di Valentina Cattaneo e Roberto Rustioni
luci e suono Gian Andrea Francescutti
assistente alla regia Andrea Peron
foto di scena Stefano Roggero
promozione e distribuzione Chiara Attorre
produzione esecutiva Wilma Sciutto
L’opera Lucido ha vinto il PREMIO UBU 2011 – Nuovo testo straniero
I diritti dell’opera Lucido di Rafael Spregelburd sono concessi da Zachar International, Milano
UNA PRODUZIONE PROGETTO U.R.T. CON IL SOSTEGNO DI REGIONE PIEMONTE
Lo spettacolo è stato presentato a fine ottobre 2018 in forma di studio per effettuare riprese video e per avere qualche presentazione giornalistica. Lo spettacolo debutta a dicembre 2019 al TPE – Teatro Piemonte Europa.
Le citazioni sono state tratte dal sito, dove puoi trovare il calendario della tournée e la presentazione dello spettacolo: http://www.progettourt.it/lucido/
2 Dicembre 2019 | A caccia di eventi
Andrea Fabbri è un narratore…ma non solo. Dando un’occhiata alla breve biografia che compare sulla sua pagina web (https://andreafabbri.it/) verrebbe proprio da definirlo, prendendo in prestito un termine dalla psicologia, un «multipotenziale»: si è diplomato alla Scuola Holden di Alessandro Baricco come miglior studente del suo corso, è autore di un romanzo, Paradiso, e di alcuni racconti pubblicati per Mondadori, è laureato con lode in Economia e ha fatto parte del progetto musicale SPOP come autore, cantante e musicista. Ma soprattutto ha portato a Cuneo la sua passione per la narrazione e le sue competenze in materia, dando vita al Corso di scrittura creativa “Dalla A alla Z”, che ha visto conclusa la sua quinta edizione ad ottobre, mentre la sesta edizione è già in preparazione. Ho deciso di fare qualche breve domanda ad Andrea per far conoscere a tutti gli appassionati di scrittura nei dintorni il suo mondo e questa opportunità di apprendere un nuovo approccio teorico alla narrazione mettendosi in gioco, lavorando con esercizi pratici sul proprio modo di scrivere!
1) Com’è nata la tua passione per la scrittura?
In maniera collaterale e imprevista. Avevo ventuno, ventidue anni, suonavo la chitarra in un gruppo e avevamo deciso di scrivere i testi in italiano. Così ho fatto la Palestra Holden alla sera, per un anno. Poi l’ho rifatta l’anno dopo. Poi ho fatto il Master…ed è finta che adesso non ho più un gruppo musicale!
2) Qual è l’obiettivo dei tuoi corsi di scrittura?
Come dico sempre ai corsisti, il mio obiettivo è quello di condizionare lo sguardo. Le storie ci circondano, adesso come non mai ce le ritroviamo ovunque: nei videogiochi, nei giornali, sui computer e addirittura sopra il barattolo dello yogurt. L’obiettivo che mi pongo, attraverso lo studio e l’analisi dei meccanismi delle storie, è far sì che ognuno, una volta fuori, possa riconoscerle in quello che lo circonda. È come guadagnare un super potere oppure indossare un nuovo paio di occhiali.
3) Chi partecipa ai tuoi corsi?
Un sacco di gente, per fortuna. In questo senso Cuneo si è dimostrata una zona molto ricettiva, sia per i corsi collettivi che per i corsi individuali. Fino ad adesso i gruppi sono stati molto eterogenei: dai 18 anni (qualche volta anche meno) agli over 60. Credo che questo dipenda dal fatto che le storie stanno diventando una passione trasversale, un po’ come la musica ma forse di più. In fondo, dietro ogni cosa c’è una storia e così c’è una storia anche dietro a ogni nota. Che è un modo per dire che le parole continuano sempre, anche quando la musica finisce.
4) Cosa sono per te le parole e a cosa servono?
Le parole sono il modo che abbiamo per capirci. Se dico «sigaro» tu sai cosa intendo, perché «sigaro» è il modo che abbiamo che chiamare il sigaro. Se non esistessero le parole forse riusciremmo lo stesso a capirci, ma sarebbe davvero complicato fare qualsiasi cosa.
Ma le parole non sono solo questo, sono anche strumenti strani perché non hanno forma e possono andare ovunque, anche nelle teste. Attraversano il tempo e lo spazio. E questo è molto bello ma anche molto pericoloso, perché il rischio è di farle prevalere sull’esperienza diretta, personale.
Oltre a vivere in un tempo che è pericoloso perché sta dimenticando le parole, viviamo in un tempo che è pericoloso perché assomiglia al gigantesco mondo delle storie, in cui riceviamo racconti su fenomeni a cui non assistiamo in prima persona, ma ci vengono raccontati da terze fonti, che poi diventano quarte o quinte e così via. È come quando si lancia un sasso in un lago e l’acqua si increspa. Ecco, oggi qualcuno ci dice che è stato lanciato un sasso e che l’acqua si è increspata: noi interpretiamo il fatto, ma forse non abbiamo neanche mai lanciato un sasso in un lago. Mi chiedo se tra dieci anni sapremo ancora cosa voglia dire la parola «acqua».
5) La top three dei tuoi autori del cuore?
Ci sono solo due tipi di musica: quella bella e quella brutta…ma non ricordo chi l’ha detto! In realtà i miei autori preferiti cambiano sempre, i miei gusti sono costantemente in evoluzione…in questo momento però sto leggendo Le acque del nord di Ian McGuire… pazzesco, ve lo consiglio!
Per contattare Andrea puoi scrivere all’indirizzo: cuneo@andreafabbri.it
14 Novembre 2019 | A caccia di eventi
«Quando muore un eroe, per quanto tempo viene ricordato? E la spalla dell’eroe? Per quanto tempo viene ricordata?”: queste le domande ispiratrici che, insieme alle lettere che Vincent Van Gogh scriveva al fratello Theo, guidano la narrazione in “Theo – Storia del cane che guardava le stelle.»
Monologo teatrale debuttato a maggio 2019 al Torino Fringe Festival, questa nuova produzione di Anomalia Teatro si rivela ricca, originale, coinvolgente, al pari delle precedenti opere di questo gruppo di artisti, formatosi a Torino nel 2016 con il progetto di «stringersi insieme per percorrere la strada del teatro, che spesso si rivela impervia», come sono soliti esordire quando si presentano. L’idea da cui nasce è indagare il dietro le quinte dei geni della Storia: il «braccio destro», la «spalla sinistra, che spesso viene relegata a poco più che una semplice comparsa destinata ad essere dimenticata dalla Storia». In scena, l’agile Marco Gottardello interpreta alternativamente l’«eroe», Vincent, e la «spalla» nell’ombra, Theo Van Gogh. Dietro di lui una scenografia minima, ma d’impatto: il rosso e il giallo, un’abat-jour a sinistra e una lucina in gabbia a destra, in mezzo una cassapanca che regalerà colpi di scena. Certo è che la performance a cui assistiamo sul palco non è solo la narrazione nel tempo di un rapporto tra l’eroe e la sua spalla nell’ombra – anche perché eroe Vincent Van Gogh lo diventò solo dopo la sua morte – ma molto di più.
È prima di tutto una dolcissima narrazione di un rapporto bambino. Ci sono gare a chi tiene più il fiato in piscina. Ci sono fedeltà in società segrete immaginarie: «Io sapevo che se Vincent avesse creato una società segreta, sarei stato il suo primo fedelissimo». C’è una stanzetta al buio, con i suoi lettini uno accanto all’altro e le lucine, nella quale due fratelli parlano nella notte. Se già allora Vincent mostrava segni di una personalità originale, nel voler superare un record impossibile di respiro trattenuto sott’acqua o voler provare il caffè amaro, Theo era con lui, era il suo primo alleato, senza troppi se o ma. Ma l’infanzia non dura per sempre. E allora la performance si trasforma nella narrazione di una crescita travagliata: di Vincent, di Theo, del loro rapporto. Abbiamo un uccellino che sbatte contro le sbarre della gabbia, in un continuo sforzo per trovare ciò in cui realizzarsi; un altro rimane tranquillo nella gabbia, sulla strada segnata. Abbiamo tigri volanti, corse per raggiungere giganti. Abbiamo l’espressione corrucciata e pensierosa di Vincent che ben mostra i suoi mille pensieri: «Bello!» dice davanti al mistero dell’abat-jour; il buio, Dio, le stelle, le foglie secche diventano oggetto di riflessione.
Di fronte al palco si passa così, dopo aver apprezzato la bellezza dei ricordi bambini, a riflettere sulla crescita. Non solo del caso di una crescita come quella di Theo Van Gogh, sempre al confine tra l’ingombranza del fratello e l’istinto di prenderlo come ispirazione, sempre in bilico tra l’amore di sé e l’ammirazione per Vincent. In scena vengono fuori tutte le crescite, che per essere vere crescite abbisognano di uno scontro con l’altro, di una misura tra chi sono “io” e chi è “l’altro”. Viene messa in luce l’importanza di uno sguardo critico ma che sappia comprendere l’altro, invece che giudicarlo, che sappia prendere da lui spunti per lavorare sui propri lati negativi: non invidia mascherata da incomprensione, ma sguardo aperto su cosa io e l’altro possiamo donarci a vicenda.
Uno spettacolo che inizia sott’acqua, continua sotto un mare di coriandoli, è quasi giunto alla sua conclusione “in giallo” e finisce circolarmente dove è iniziato. E se non capiamo fin dall’inizio questo Theo che piange (o non piange?) il fratello morto (e per questo ci piace così tanto), alla fine lo capiamo benissimo: «Io, cane bastardo, sono andato a guardare le stelle», quello che solo Vincent riusciva a fare per ore. Buio.
Di e con Marco Gottardello
Drammaturgia Debora Benincasa
Regia Amedeo Anfuso
Scenografia Alessandro Rivoir
Progetto grafico Nachos
Foto e video Antonio Giacometti
La comunicazione è stata realizzata con il contributo di Valerio Cancellier (tattoo)
Visto il 17 ottobre 2019 al circolo ARCI Molo di Lillith, Torino
Le citazioni presenti in questo articolo sono tratte dallo spettacolo e dalla sua presentazione reperibile qui: http://www.anomaliateatro.it/spettacoli/theo-storia-del-cane-che-guardava-le-stelle/
Per conoscere il lavoro e le altre produzioni di Anomalia Teatro visita il sito http://www.anomaliateatro.it/ e segui Anomalia Teatro su FB.