Torino, 13 febbraio 2024
Non ero mai stata prima d’ora all’inaugurazione di una mostra. C’é una differenza tra visitare una esposizione, girare a zonzo tra le opere esposte, e invece avere la consapevolezza del perché e del come si è scelto di far vedere proprio quel soggetto lì, proprio in quel luogo.
È quello che mi è successo martedì 13 febbraio, quando mio papà mi ha invitata all’inaugurazione di tre mostre fotografiche alla Camera di Torino. All’inizio, non mento, non sapevo bene come comportarmi: sono una studentessa universitaria che ancora non sa cosa vuole fare nella sua vita e della sua vita, ma l’interesse e l’amore che provo nei confronti della cultura in generale bastava a motivare, almeno a me, il perché fossi lì. Anzi, forse proprio il fatto di non sapere su cosa concentrarmi, su quale strada prendere, ma essere aperta a tutte, ha giocato in mio favore.
Esco da lezione di Teatro educativo e sociale con qualche minuto di anticipo, e mi avvio verso la Camera che è vicinissima alla mia università. Fuori vedo giornalisti, chi con delle cartelline in mano, chi con le videocamere e microfoni, chi semplicemente senza niente se non sé stesso e un’aria tranquilla stampata in volto. Seguo mio papà dentro, e scrivo “1000Miglia” nello spazio indicato con “testata”, nel registrarmi all’entrata: mi fa stranissimo! Pensare di essere lì per poi scrivere, è una cosa che mi sembra così lontana dalla mia vita che ora è prevalentemente studio, mentre i lavoretti che ho svolto fino a questo momento sono sempre stati qualcosa di lontano dal mio percorso di studi: il Dams. Invece ora mi sembra di stare facendo qualcosa legato a quello che sto studiando: qualcosa che c’entra con il mio possibile futuro lavoro? Chissà…
“Divertiti”, mi dice Fabri (mio papà), e allora faccio proprio come mi sento. Giro con le mani incrociate dietro la schiena, come Socrate, (o almeno, come io mi immagino facesse Socrate), e inizio a osservare le fotografie di Michele Pellegrino, che è nato proprio a Cuneo, nel 1934, e che è inoltre presente lì in quel momento. Da subito ciò che vedo mi colpisce, perché le prime foto sono quelle di montagna, ritraggono le valli che frequento io d’estate soprattutto, ma anche in inverno. C’è il Lago di san Bernolfo, sopra i Bagni di Vinadio, ripreso in una luce calda e con un’atmosfera bloccata nel tempo. Osservare la bellezza di luoghi in cui sono stata, mi ha suscitato un sentimento di gratitudine e di orgoglio per la mia terra. Proseguo e vedo volti lontanissimi da quelli che per la maggior parte del tempo invece scorrono sullo schermo del mio telefono, sulle riviste di moda, sui giornali.
Gli scatti di Michele riportano l’indole di gente che non desidera apparire, che non sa nemmeno il perché dovrebbe mai lasciarsi fotografare, e che magari, infatti, nemmeno era del tutto d’accordo. Su quei volti sono segnate le fatiche di una vita vissuta nelle terre dure e sconfinate della montagna, in alto, lontani da tutto e da tutti. La fatica concreta di procurarsi il cibo giorno dopo giorno, di riscaldare la casa, di crescere i propri figli sani e forti. Niente a che vedere con i ritratti di oggi, dove vedo tanta voglia di apparire, tanta ansia di ricevere approvazione per avere degli occhi così ben truccati, dei corpi così tonici, perfetti, una pelle liscia e senza cicatrici.
Ciò che vedo mi riporta con la mente ad una realtà che sembra essere ormai lontana nel tempo, e nello spazio, ma non del tutto estinta; mi fa venire voglia di cercare quelle persone che ancora non sono state toccate dalla società di oggi, così piena di falsità e superficialità, quelle persone che ancora pensano un pensiero alla volta: prima mungo la mucca, poi faccio il formaggio, poi pianto i semi, poi accendo il fuoco. Mi affascina sapere che ancora esistano persone così. Proseguo e i miei occhi incontrano gli edifici austeri e isolati dei monasteri, e poi gli sguardi indecifrabili delle coppie in prossimità del matrimonio; chissà cosa passava nelle loro menti, quali erano i loro pensieri, se da lì a poche ore si sarebbero sentiti liberi e infinitamente felici oppure se sarebbe iniziata per loro una vita che non avrebbero mai desiderato.
Quando ascolto, durante la conferenza stampa, i racconti di Michele, tutto mi sembra ancora più vero e concreto. Racconta di come lui ha sempre cercato di cogliere la verità, che non necessariamente significa bellezza. Parla di quando era arrivato in Valle Stura “un americano”, come lo chiama lui, che aveva iniziato a fotografare la montagna, e se ne era innamorato. Le sue foto erano state esposte, premiate, all’interno di alcune mostre, e ogni anno il fotografo tornava a Cuneo, chiamato per documentare la bellezza dei paesaggi alpini. Michele afferma che quando vide le fotografie scattate dallo straniero, non riconobbe i luoghi che lui pure conosceva come le sue tasche, avendo passato la vita in quei posti (riporta l’esempio di Vinadio: “nella didascalia c’era scritto Vinadio, ma a me non pareva proprio per niente Vinadio!”). Questo perché lui era sempre stato interessato a riportare la vita di chi ci viveva, in montagna, di chi sapeva cosa voleva dire avere a che fare ogni giorno con le fatiche e le sofferenze che un luogo così porta, mentre “l’americano”, aveva colto forse solo la bellezza superficiale della Valle, senza indagare a fondo cosa significasse davvero un filo d’erba, una roccia, una sorgente, per gli abitanti.
Bello come Michele abbia deciso di donare tutto il suo portfolio alla fondazione CRC nel 2017, così che “finalmente”, dice lui, “la gente ha potuto conoscere cosa stava succedendo davvero nelle valli cuneesi, che si stavano lentamente, ma inesorabilmente, spopolando”. Lo dice con orgoglio, con soddisfazione, ma non lascia trasparire il dolore che, sotto sotto, tutto questo gli provoca. E la collaborazione con Camera sicuramente riesce a realizzare la volontà più forte e urgente del fotografo, quella di raccontare tutto ciò che lui aveva ascoltato, visto, vissuto, nell’arco di una vita. E nel profondo io mi sento di ringraziare Michele, per la forza che ha avuto nell’intrufolarsi nelle case di chi non accetta altri, di chi non desidera farsi conoscere, di chi non può incontrare nessuno all’esterno della clausura. Per aver avuto il coraggio di portare avanti la passione, pensandola proprio come una priorità, senza fretta e aspettando il momento perfetto, oppure cogliendo proprio l’istante di uno sguardo, una lacrima, un pensiero che si fa fotografia.