Casa è mondo

Pasta, pizza e mafia. Per un australiano l’Italia è questo. Surf, barriera corallina e canguri. Per un italiano, invece, questa è l’Australia. Che si viaggi con l’intento di tornare, o con quello di restare, lo scambio è garantito. Londra è una capitale multinazionale: lingue provenienti da ogni angolo di mondo, fisionomie a ricordarci il valore della diversità, occhi che hanno visto chissà quali meraviglie, chilometri di distanza riuniti in una sola città.
Quartiere Soho, in un qualunque Starbucks, dipendenti indiani ti preparano il caffè. Sorridono e proponendoti un assaggio della famosa english breakfast, ti salutano con un “Buongiorno” dall’accento straniero. Anche se qui, il termine “straniero” quasi non esiste. Scendi in metro, ed ecco, una civiltà quasi disarmante: la moltitudine si muove senza intralciare nessuno, l’organizzazione non lascia spazi a ritardi, e la prevenzione corregge i guasti. Fuori dalla metro, due controllori di origine africana a testare il corretto funzionamento dei totem all’uscita. È immediato il paragone italiano: a Torino i controllori hanno paura degli immigrati neri che viaggiano sui pullman, tanto da venir meno al loro lavoro, non controllando i biglietti.
Quartiere di China Town, il cielo si fa rosso e a scritte cinesi sopra Londra. Una spagnola ci chiede di fargli una foto, favore poi ricambiato. Ci congediamo con un “Muchas gracias” e un sorriso, con direzione ristorante cinese. La cultura culinaria cinese, con la nostra mentalità italiana, poste in contatto dalla lingua inglese, da considerarsi patrimonio dell’umanità. In un comune McDonald londinese, incontriamo Giulia, che ci riconosce dai nostri discorsi in italiano, e che ci racconta un po’ di sé. Lei studia a Milano, vive a Londra; con il lavoro riesce a mantenersi da sola. È arrivata qui che non sapeva una parola di inglese, lo testimonia il fatto che ha tentato per dieci volte l’esame di inglese prima di passarlo. Qualche giorno di disorientamento, qualche settimana per adattarsi, e poi eccole, le radici. Non se ne andrà più via da lì. Così come Andrea, che lavora in coppia con il suo amico inglese in un Caffè nero, che riconosciamo dalla pronuncia di un inglese troppo scandito. E’ qui da qualche mese, ma è già casa sua. Giovani che con coraggio e un po’ di ingenuità, hanno deciso di trasferirsi all’estero, così come anche Emanuele, inserviente di un altro McDonald, che sogna in grande, ma per il momento, viene preso in giro da un gruppo di nigeriani che cena con hamburger e patatine. È un razzismo per noi inconsueto, che ci lascia stupefatti, perché in mezzo a tanta civiltà, ebbene sì, rimane ancora questa ignoranza, per fortuna sporadica, che fa credere inferiori i diversi.
La sera in ostello, a parlare con Josh, Tim e Troy, australiani di nascita, spiriti di mondo. Noi a sforzarci di capire il loro inglese stretto e ad esprimerci nel nostro inglese scolastico, e loro a farsi capire, parlando lentamente; perché ancora una volta l’inglese è il ponte, l’elemento comune di due civiltà, poste agli antipodi del mondo. Acquistato un camioncino, con dei soldi da parte, hanno viaggiato per tutta l’Europa, meravigliandosi della Sagrada Familia di Barcellona, dei paesaggi della Croazia, e avendo visitato più Italia di quanta ne abbia vista io. Siamo fortunati noi, dicono, che sappiamo parlare –a loro dire- due lingue, l’inglese e l’italiano, e che viviamo in Europa, il sogno di ogni australiano. Infatti Josh, pensa di trasferirsi proprio a Londra, perché in poco tempo potresti raggiungere qualsiasi città d’Europa. L’isolamento geografico dell’Australia, invece, costringe a ore di volo. Paradosso se penso che proprio questa voglia di mondo, si manifesta all’inverso nei sogni concretizzati di molti italiani: Alessandro che ci vive ormai da tempo, dirige un ristorante giapponese dove vi lavorano anche indiani, e Elena, interprete nell’ambasciata italiana australiana, insegna danza alle bambine.
Ritorni in Italia, e incontri un’amica, di ritorno da un viaggio di volontariato in India, dove a far da ponte non può essere l’inglese, parlato da un piccola parte di popolazione, contrariamente al comune pensiero, ma la propria umanità: un bacio di un bambino, uno sguardo di diffidenza, un gesto di gentilezza, l’adattarsi a costumi diversi. Lo stupore e la meraviglia, circondati da una completa mancanza di parole, che esprimono tutto.
La voglia di scoprirsi è la migliore comunicazione tra diversi. Il coraggio di partire è la più efficace opportunità. Spegnere il cellulare è il miglior modo per entrare nel mondo.

Giornalismo: missione verità

Non siamo soli. Concretamente parlando, nessuno è solo. Viviamo in un contesto sociale che ci obbliga a confrontarci con l’altro. E il confronto è d’obbligo anche con il mondo in cui siamo inseriti. Che lo vogliamo o meno, siamo tutti animali sociali, con un intrinseco desiderio di curiosità, che si lega in maniera quasi indissolubile alla nostra volontà di sapere tutto ciò che concerne le cose del mondo. Questo è il giornalismo.

490 a.C.: l’uomo sembra nuovo nel mondo, benché ci sia da sempre vissuto. La democrazia, la filosofia, la geometria. La cartografia con terre mai viste, il timore dei mari, il coraggio di attraversarli. Il nuovo modo di esserci dell’uomo lo fa sentire diverso. La volontà di comunicarlo non è attenuato dai limiti imposti dai mezzi. Così gli uomini hanno iniziato a correre. Ma non sapevano fino a dove sarebbero arrivati.

Atene ha appoggiato alcune colonie della Ionia insorte al controllo dell’Impero Persiano. All’Imperatore, questo, non sta bene. L’esercito persiano si prepara all’attacco. Ordina a Dati e ad Artaferne di organizzare le truppe per attaccare Atene. Le flotte salpano nel Mediterraneo, sottomesse le isole Cicladi ed Eubea, approdano sulle coste della città di Maratona. Sulla terra ferma giungono voci dell’imminente invasione, ma niente panico: l’esercito greco si organizza e accerchia il nemico che fugge, ma non si arrende. Prossima mossa: cogliere di sorpresa Atene, priva di ogni difesa, ora che l’esercito è a Maratona. Lo stratega Milziade, capo delle milizie greche, intuisce la trappola, supera il nemico ed anticipa la sorpresa. Lo sconfigge. Il soldato Fidippide viene incaricato di annunciare la vittoria, ad Atene. Corre per 44 km, tutti d’un fiato. Giunto alla Polis pronuncia la celebre frase “Nenikèkamen”, ovvero Abbiamo vinto. In seguito, secondo la leggenda di Plutarco risalente al I secolo a.C., confermata poi da Luciano di Samosata il secolo successivo, muore per lo sforzo.

Fidippide non aveva carta, nè inchiostro. Ma aveva gambe e fiato. E qualcosa da dire.
fidippide

La corsa non si è arrestata a Maratona. Duemilaquattrocentotrentatrè anni dopo, nel settembre del 1943, le notizie percorrevano altre strade. L’umanità aveva compiuto passi da gigante, attraverso le scoperte e le invenzioni delle rivoluzioni industriali. Venne inventata la prima locomotiva a vapore, nacque la fotografia, venne brevettato il telefono di Bell, il fonografo di Edison, vennero studiate le onde radio grazie a Marconi. Ma mentre una parte del mondo si abituava a queste novità, un’altra parte a forma di stivale resisteva alla guerra e vedeva la luce in una flotta che stava per approdare alla costa tirrenica.
sicilia sbarco

Il generale Clark, a capo della Quinta armata americana, sbarca a Salerno. Le truppe devono riunirsi con quelle britanniche già sbarcate in Calabria qualche giorno prima, capeggiate dal generale Montgomery. La Sicilia è già libera. Le prime battaglie sono vittoriose per l’esercito alleato. Ma i successivi scontri con il portento tedesco, guidato dal maresciallo Kesselring, lo mettono in difficoltà. Un aiuto aereo-navale rinvigorisce le file americane: i tedeschi sono costretti alla ritirata negli Appennini. Si chiama Operazione Avalanche quella che dovrebbe far abbandonare il territorio Italiano dall’esercito tedesco. Nello stesso giorno, la stessa Salerno, viene bombardata. La popolazione si nasconde nei rifugi antiaerei; unico contatto con il mondo esterno, la radio. “La Nazione vuole con la pace la sua indipendenza e il suo riscatto” scrive l’Unità a seguito dell’inaspettato armistizio annunciato da Pietro Badoglio via radio al popolo: l’Italia non è più in guerra. Ma la guerra non è ancora finita.

Non c’erano i computer, né tantomeno il web, ma avevano carta, inchiostro e radio. E sicuramente qualcosa da dire.

Dopo i grandi cambiamenti che hanno trasformato il modo di vivere la quotidianità, le macerie della Seconda Guerra Mondiale hanno fornito le basi per la più grande rivoluzione umana e civile mai vista prima: ora a cambiare è il modo di vedere il mondo. Dagli orrori dei massacri si sollevano nuovi concetti, diritti ed ideali, che modificano il pensiero, il modo di comunicare e quello di ascoltare. Eppure, ancora nel febbraio 2015, alcune menti rimangono incatenate a pericolosi chiodi fissi. La finestra sul mondo di milioni di persone dà un’immagine immediata e trasparente di cosa sta succedendo in Siria: la guerra civile.

“Esercito contro ribelli. Sunniti contro sciiti. Curdi contro islamisti. Islamisti contro cristiani e contro ribelli. E, infine, briganti contro tutti. Esplosa dopo le rivolte del 2011, la guerra civile siriana ha in sé diverse guerre, con fronti sempre nuovi e cruenti.” Scrive Barbara Ciolli per il quotidiano online Lettera43.

In Siria convivono arabi con aramei arabizzati, curdi con armeni e turchi, che comunicano, principalmente con l’arabo, ma anche con il curdo, l’armeno, l’aramaico e il circasso. Si somma a questa molteplicità culturale, un crogiolo di divinità: il 64% degli abitanti è sunnita, il 26% è alauita e drusa, il 10% è cristiana, e ci sono piccoli gruppi di ebrei e comunità di correnti sciite. Un mosaico tenuto insieme a forza per troppo tempo, destinato a crollare sotto i colpi delle bombe, dei mitragliatori e dei carri armati. La guerra dimenticata dai notiziari occidentali continua a fare vittime: secondo uno studio pubblicato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani a febbraio 2015 si stimano più di 200.000 vittime, di cui un terzo civili. Sono 4 milioni i Siriani sfollati, 2 milioni e mezzo quelli fuggiti nei paesi confinanti.
Stop war

Inviati speciali, statistiche e dati, foto e filmanti. Una connessione internet, e l’informazione si moltiplica. Raggiunge tutti. Forse anche chi non vuole sapere. Il mondo insiste a parlare. Le guerre hanno qualcosa da dire. Oggi lo fanno attraverso le nuove piattaforme tecnologiche che rendono sempre più semplice l’atto dell’informarci.

Notizie in tempo reale. Non ci sono limiti spaziali né temporali. Chiunque può sapere di dovunque. Interviste, immagini, documentari. Direttamente dall’altra parte nel mondo, in un attimo nelle nostre case. I miracoli tecnologici del ventunesimo secolo, pur senza avere nulla di divino, ci permettono di restare collegati con il mondo in qualsiasi momento. Perché il mondo ha sempre qualcosa da dire. E i fatti, descritti, riportati, fotografati o filmati, parlano da soli, per mezzo delle parole di chi li vive, li osserva, li ricerca.

Novità, testimonianza, comunicazione. Il giornalismo nasce dalla volontà di aggiornare, informare, rendere partecipi sugli avvenimenti che accadono in tutto il mondo i quali devono quindi essere comunicati basandosi su un criterio di assoluta verità, secondo una descrizione e una dinamica fedele ai fatti. Il giornalismo continua a vivere grazie a tutte quelle persone che continuano ad esprimere la volontà di essere aggiornati ed essere coinvolti, o più semplicemente, sono spinti dalla curiosità. “L’unico compito di un giornalista – dice infatti Anna Politkovskaja – è scrivere quello che vede”. Perché il giornalismo si basa sul rispetto dei fatti che riporta. Fa suoi pilastri la coerenza e l’oggettività. Condanna ogni tipo di falsità, annebbiamento o bugia. È il mezzo attraverso il quale le notizie raggiungono le persone. Devono essere riportate con obiettività, imparzialità, completezza e correttezza, di modo che l’individuo possa fare le proprie considerazioni e possa prendere una posizione. I giornalisti hanno la responsabilità di diffondere, quindi, il vero. Un lavoro di importanza fondamentale, nel mondo di oggi, pieno di opinioni contrastanti, punti di vista e apparenza che rischiano di farci distogliere lo sguardo dalla verità, e di farci credere in qualcosa che in realtà non è. Rischiamo di credere ad una menzogna, stando a contatto quotidianamente con così tante possibilità di deviazione. Solo una sincera analisi dei fatti può farci maturare una veritiera coscienza del mondo. La realtà, avulsa da qualsiasi interpretazione, è una sola. Per questo motivo i fatti parlano da soli, per mezzo delle parole dei giornalisti, che sono chiamati a rispettare questo vincolo di verità, assioma fondamentale che sigilla il loro operato.
A volte può non risultare così semplice: ogni giornalista è un individuo a sé stante, con una storia alle spalle, che l’ha portato a sviluppare certe sfumature, ad avere proprie inclinazioni e posizioni. Tutte queste differenze che rendono variopinta l’umanità, potrebbero risultare un ostacolo all’obiettiva narrazione degli avvenimenti. Infatti la difficoltà consiste nel discernere tra fatto ed interpretazione. Difficoltà che si supera però, se ci si sforza di osservare la realtà senza avere pregiudizi negli occhi, e considerando che il fatto è uno solo, ma che le interpretazioni invece sono tante quante le infinite personalità.

Dicono che il futuro dell’editoria, dell’informazione e della scrittura sia ormai oltre la carta stampata, relegata ai giornali online, ridotta entro i moderni 140 caratteri. Caratteristiche proprie della futura comunicazione sarebbero la brevità e le parole chiave, ognuna splendente attraverso i cristalli liquidi di un computer. Mi chiedo se il futuro non sia già qui: circondati da computer, smartphone e tablet, siamo sempre più aggiornati sulle vicende del mondo nel momento in cui accadono, ci sentiamo sempre più cittadini universali, con la convinzione che la nostra opinione, che il nostro hashtag, abbia un peso rilevante sulla bilancia del mondo.

La rete comunicativa di cui siamo unità fondamentali ci rende attenti, svegli, e sensibili ad ogni nuovo stimolo esterno.

7 gennaio 2015, Parigi: un gruppo di terroristi irrompe nella redazione di Charlie Hebdo e uccide 12 persone. “Je suis Charlie Hebdo”: il mondo dei social reagisce e si coalizza. Il lato positivo della questione è che la tecnologia di oggi fa emergere una solidarietà disarmante tra paesi e persone distanti, ma il rovescio è che è incerta la sua attendibilità. Più solidarietà, a discapito forse della consapevolezza.

L’opinione comune è quella di credere che la carta stampata sia destinata a scomparire, supportata dai dati che tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi.

Viviamo in un’era in cui abbiamo sempre più cose da dire e lo spazio per farlo acquista potenzialità infinite sul web: qui non ci sono nemmeno più limiti di carta. Inoltre fondare un giornale online è molto più semplice che creare dal nulla una nuova testata cartacea.
giornalismo-contemporaneo

Tutto sembrerebbe portare a pensare che il futuro del giornalismo abbia luogo sul web: non solo negli anni il numero dei giornali esclusivamente online cresce sempre più, ma anche le testate più famose affiancano ormai al cartaceo una loro piattaforma digitale. Inoltre aumenta ogni anno il pubblico che si rivolge al web per essere aggiornato: secondo l’Istat nel 2011 il numero di persone che ha dichiarato di leggere i giornali online è salito al 25,1%, con un aumento di circa il 5% rispetto all’anno precedente, e con un picco che si riscontra tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni che tocca il 45,1%. Secondo alcuni dati raccolti dalla FIEG (Federazione Italiana Editori Giornali), tra il 2013 e il 2014 il numero di giornali cartacei venduti ha subito un calo di circa l’11%.

Il futuro del giornalismo è determinato da un pubblico che a piccoli passi procede verso un mondo sempre più nuovo: tali percentuali cresceranno sempre più. La modernità dei mezzi tecnologici che si diffonderanno in ogni fascia d’età, il ricambio generazionale e i costi sempre più difficili da sostenere per mantenere lo stampato condanneranno forse il cartaceo, nonostante il suo indiscutibile valore, all’estinzione.

Non stiamo vivendo una crisi dell’informazione, ma un momento di transizione, che vede evolvere il modo di comunicare.

Gambe e fiato, carta e inchiostro, filmati e web. La comunicazione è un arte che nel corso dei secoli è cambiata e continuerà in futuro ad evolversi. Ma la costante che accomuna ogni epoca è che si basa sui fatti, sui dati, sulla verità.
Ci sono poche cose che non cambiano nella storia del mondo e una di queste, come diceva Hegel è che “Nulla al mondo è stato fatto senza il contributo della passione”.
E il buon giornalismo ha come motore propulsivo l’amore per la verità, facendosi portavoce dei fatti così come sono, senza esprimere giudizi, ma solo smascherando i mille bluff delle coperte carte in tavola della realtà. Il giornalismo ci fa giocare ad armi pari.
Possono cambiare gli uomini, i mezzi e la tecnologia con la quale esprimiamo il nostro comunicare. Ma il nocciolo della questione è e rimarrà sempre uno: la ricerca della verità.

La casa dai muri di pietra

Ci sono muri spessi di pietra a reggere questo tetto e a contenere il gelo d’inverno, il fresco d’estate. Non fa mai caldo qui, ma di mosche ce ne sono quasi sempre. Appena entri c’è un odore di antico, di vecchio, che poi è l’odore della polvere. Non è un odore che affascina, è un odore che non ha nulla di misterioso o inafferrabile. Sono mura che hanno visto crescere e morire almeno tre generazioni. Sono mura che si reggono solo più per inerzia, ma non sono stanche. Hanno la forza dei titani, così imponenti da sembrare immortali, ma per niente divini. Ci passavo le estati lì. Il mio rifugio in mezzo alla natura e alla campagna che si affacciava alla tangenziale. Ma chi la considerava quella, il mio mondo finiva al di qua del cancello. Il cortile era un tutt’uno di polvere e catene, che tenevano legate mucche e cani inselvatichiti. Era una natura al guinzaglio, la migliore che potessi mai immaginare, abituata alle mura sottili e sempre pulite della città. Passavo le mie giornate al sole, con un cappellino da maschio in testa, pantaloncini e una maglietta troppo stretta che non copriva completamente le rotondità ancora da bambina che mi preoccupavano. C’erano gli animali, e ogni estate dei cuccioli di conigli o di gattini, sempre nuovi. Ricordo il colore del grano appena tagliato e il suo odore appena imballato. Amavo stare sul trattore mentre lo zio sistemava balla dopo balla lì sopra. Cibo per i miei occhi e libertà per la mia anima, ancora così poco matura. Quelle distese di colori e di cielo non si dimenticano così facilmente. Rimangono in un angolo, e ti plasmano e creano dentro te un’ideale che all’occorrenza emerge e ti rassicura, contro ogni costruzione mentale che rende la vita adulta e cittadina così prevedibile e finalizzata. Si chiamano radici. Le mie sono quella paglia. La sento ancora sulla pelle, quando mi ci coricavo su: non bastava la coperta che mettevo sopra, continuava a pungere. E ricordo i piedi sporchi di terra e polvere alla fine di ogni giornata, quello sporco sano che si infilava tra i sandali trasparenti che andavano di moda e la mia pelle mai abbronzata. E poi la sera prima di dormire, dietro casa a pulirceli con sapone e acqua gelida, mentre la nonna ci raccontava storie di parenti lontani, dispersi in chissà quale foresta, in balia di probabili cannibali. Ricordo che disegnavo distesa su quella paglia imballata, e coloravo la mamma e il papà, facevo loro biglietti e cornicette. Non c’era tempo per dormire al sole, dovevamo riempirci gli occhi di quelle giornate. Ricordo che aiutavo la nonna ad innaffiare le belle di notte la sera, quando aprivano i loro calici alla luna che doveva ancora nascere. Quanti ne aveva di fiori. La aiutavo a rinchiudere le galline nel pollaio la sera e preparavo strani mangimi mettendoci di tutto dentro, convinta che mangiando quello avrebbero deposto uova d’oro. Quanto rideva lei poi, quando ogni tre secondi controllavo le uova, superando la mia paura per le galline. Amavo guardarli gli animali, ma loro non erano abituati a me. Così una volta per poco una mucca non mi incorna, sfuggita a quelle catene. Ero piccola, lei era nera e inferocita, mi veniva incontro impazzita, e solo quando mi accorsi che stava puntando me perché mia sorella mi gridava di spostarmi, corsi senza pensarci dentro casa. Solo dopo iniziai a tremare. Alla sera dava da mangiare anche ai conigli. Lei li teneva nelle gabbie, mentre io riempivo le ciotole con acqua e cibo. Non si fermava mai lei. Le si leggeva negli occhi l’entusiasmo di averci lì con lei, quando ci presentava alle sue amiche prima di andare a messa. Ora sono tutte morte. Non sapeva guidare lei, a malapena sapeva leggere e scrivere. La terza media era troppo per lei, nata in una povera, ma numerosa famiglia. Per di più era femmina lei. Si era sposata presto ed era andata a vivere con la famiglia di suo marito, sotto le grinfie di una suocera troppo severa per poter contraddire. Dicono che fosse cattiva e che nessuno fosse così dispiaciuto quando morì. Una vita d’inferno, passata sotto il segno della povertà e della rinuncia, abituata a non avere sogni, a sopportare la fatica, il cordoglio e a non confidarsi con nessuno. Si era procurata un cuore di cenere compressa, risultato di una vita in cui era stata forse costretta ad amare il giusto, mai a fare ciò che era realmente sentito. Una volta così immersa nella quotidianità e a garantire il minino indispensabile a tutti, ora radicata nel passato. Il risultato è la paura di tutto: serpenti, rimpianti, ospedali e morti, forse a causa di un peso sullo stomaco impronunciabile, sepolto e appena riemerso, e uno più recente, riconducibile ad una figlia che non le parla più per motivi sconosciuti, offese inconsapevoli arrecate, rendetevi conto, forse solo parole dette, a distruggere il residuo di leggerezza di una vecchia che non ha più niente a cui pensare se non ai pochi nipoti che non le sono negati, a un vecchio marito diverso dal giovane uomo sposato e al loro corredo funebre.

Invece con lui era diverso. Lui era l’autorità per tutti, ma da me si faceva facilmente governare. Lui era fatto di baffi bianchi all’ingiù, di cappelli di paglia, bestemmie e preghiere, vestiti vecchi e misteriose abilità. I grandi dicevano che sapeva curare i mali con strane arti passategli dalla madre in punto di morte. Io volevo vedere ogni volta che li compiva, ma non me lo permetteva, perché nessuno poteva. Quando aveva finito usciva dalla cantina con un sacchetto bianco pieno di cose che non ho mai saputo. Amavo aiutarlo a costruire corde, mangiatoie e trappole per topi. Ce n’erano tanti lì, nella stalla e nella casa. Era ingegnoso, calcolatore. Ma anche mezzo sordo e iniziava a dare i primi segni fisici di cedimento. Camminava con la canna, di li a qualche anno sarebbero diventate due, troppo umiliante la sedia a rotelle, meglio faticare. Ostentava un orgoglio irritante. Ricordo che da piccola capiva al volo solo la mia di voce. Gli raccontavo di tutte le storie che mi avevano raccontato, Cappuccetto Rosso o il Gatto con gli Stivali. Quando lui era bambino nessuno gliele aveva mai raccontate, né le aveva mai lette. Era cresciuto anche lui in mezzo ai sacrifici e alla povertà. Non era andato in guerra per una mano infortunata: non immagino la durezza che ne avrebbe ereditato, se la vita l’aveva già reso così rigido. Figlio ennesimo di mille fratelli, aveva litigato con tutti e non parlava più con nessuno. Dopo la morte della madre, unico comun denominatore, se ne andarono via tutti, ed era l’unico rimasto a gestire la dimora dai muri di pietra, con sua moglie e i suoi quattro figli. Avevano litigato per l’eredità o per la probabile illegittima origine del seme che l’aveva generato. Nessuno dei suoi figli seppe la verità, e mai nessuno la saprà. Il rancore verso quei fratelli forse non di sangue era radicato a tal punto da ritenere inconcepibile ogni moto di commozione pubblica provocata dalla morte di uno di essi, cosicchè non si concesse di piangere in pubblico quando capitò, né andò al funerale. Ma quel giorno lo spiai inconsapevolmente dalla porta socchiusa, e stupì se stesso, nel vedersi piangere in solitudine. Viveva in un mondo in cui le offese non andavano perdonate e le idee non dovevano essere cambiate. Dove piangere è segno di debolezza, e l’unico modo di far tacere due figlie che litigano è mostrare loro la cintura. Un mondo fatto di parole d’onore e preghiere. Si legge ancora negli occhi la stanchezza di tutto quell’odio, ma anche l’orgoglio di continuare ad odiare. Cinquant’anni di odio non possono venire cancellati nemmeno dalla morte. Tanto che sul suo necrologio non verranno ricordati i fratelli, e verranno cacciati di casa se si presenteranno alla porta. Per un figlio rifiutato, non ci può essere che il rifiuto verso quei fratelli che non l’hanno accettato. Odia a tal punto da non cambiare idea nemmeno in punto di morte, ma la teme, perché si porterà con sé il cordoglio del rifiuto, dell’odio, dell’incertezza e di quel primo abbandono. Ancora in vita prepara tutto, e cammuffa più di lei i dolori di una vita fatta di cicatrici. È un peso che lei non riesce fino in fondo a nascondere, gli occhiali sono ancora troppo puliti, e lui, credendo di nasconderlo, dietro una maschera fatta di occhi orgogliosi e ormai stanchi e sorrisi di denti finti.

La leggerezza di quelle estati trascorse tra le braccia della nonna e della paglia svanirono con l’aumentare della mia altezza, del mio peso e della mia taglia di reggiseno. Presto crebbi, senza rendermene conto, e pian piano smisi di desiderare cielo e aria pura. Le estati le preferivo passare con gli amici, al mare, in campeggio. Iniziai a preferire una natura diversa. Iniziai a vedere le cose con occhi diversi. Il nonno non era un anziano da ascoltare con rispetto e riverenza, ma solo un vecchio sordo dalla palpebra cadente, senza denti, noioso, solito a raccontare costantemente eventi ormai secolari, che non interessano più a nessuno, perché nessuno può farne tesoro dell’esperienza altrui. Invece lei non era più la nonna che accudiva la casa e rideva per i suoi nipoti: era una vecchia che non si lavava, sempre disposta a lamentarsi dei suoi male che non si preoccupava di curarsi, con l’ossessione per i sensi di colpa e i medici. È triste pensare come crescendo, iniziai a notare questi dettagli, di come inizia a pensare questi fatti come a qualcosa di negativo e criticabile, di sbagliato e poco salutare. Forse la realtà era sempre stata quella, ma cosa credete che siano agli occhi di un bambino i suoi nonni, se non eroi di un’epoca passata? Al suo sguardo innocente qualsiasi realtà, era vista con stupore e meraviglia. L’amarezza è in questa crescita forzata, che costringe lo sguardo infantile a cambiare angolazione, e ad acquisire la stessa di quegli adulti che hanno dimenticato quanto stanno bene i bambini nel loro mondo senza pregiudizi, lamentele e imposizioni, fatto di giochi, di fantasia e semplicità. Oppure i nonni erano davvero cambiati. La realtà era davvero diversa da un decennio fa. E qui notare come sia ingiusto continuare a crescere, e senza poterlo controllare, invecchiare. O forse invecchiare così. Quasi come se crescere fosse una gita in montagna. All’andata è tutta in salita, la si deve conquistare la vetta, e appena la si raggiunge quanta soddisfazione. Ma quello è il culmine, da lì in poi sarà tutta discesa: non dovrai più faticare, ma alla fine ti ritroverai al punto di partenza. Ma con tutta la fatica del viaggio. Invecchiare dimenticandosi di aver vissuto, portandosi dietro solo le paure e i rimpianti è la peggior condanna degli uomini che hanno la colpa di aver vissuto circostanze e fatti avversi allo sviluppo di una vita sana, e di aver incontrato persone che le hanno represse, impedendogli di preservarsi una vita rigogliosa. La mia infanzia trascorsa in quegli stessi muri che hanno cullato disgrazie, non fece altro che sviluppare un senso di colpa, per le estati felici e spensierate che trascorsi lì, nel cortile, in bicicletta in mezzo alla polvere e all’erba, così in contrasto con le dure condizioni nelle quali i nonni si erano dovuti sforzare di crescere e diventare adulti. Un senso di colpa per una spensieratezza non meritata, non perché effettivamente colpevole di qualcosa, ma anzi proprio perché senza cordoglio. Come potevo sapere dei litigi, delle bugie, dei retroscena che si nascondevano negli album delle foto di famiglia nascosti in qualche cassetto nella stanza dove non si poteva andare. Solo più tardi, dopo i tempi felici, sviluppai questo illogico senso di colpa per qualcosa che non mi era capitato perché forse tutto era già capitato a loro, ai miei nonni, ai miei genitori. Niente doveva essere scontato apparentemente da me, a otto anni, mentre ridevo così ingenua delle nuvole e delle matite, ignara che la vita un tempo doveva essere stata davvero difficile.
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Ma di lì a poco, successe qualcosa che spostò i miei pensieri dalle felici estati passate in cortile, e successe sempre d’estate, qualcosa la cui entità rimane misteriosa, ma mi cambiò. Sono rivoluzioni silenziose quelle che fanno prendere pieghe sbagliate all’anima, hanno origini fuori da essa. Sono invisibili, ma solo occhi esperti sanno riconoscerle, e quindi alla prima volta è facile esserne colpiti, ma sono pochi gli animi sensibili disposti ad accoglierle con le armi giuste da saperle combattere. Sono condizioni che improvvisamente si fanno ostili alla vita e alla crescita, nonostante si abbiano soldi, una casa, dei vestiti, del cibo, due genitori, una famiglia, un’ottima media a scuola, amici apparentemente stabili, un cuore apparentemente che batte. È una mancanza non materiale a cui non si può dar nome, e capisce solo chi sente. E ha origine radicate al principio, forse i segnali erano precedenti, ma nessuno li aveva riconosciuti. Si poteva sapere prima, ma l’attenzione non era stata adeguata. E l’origine risale alla paglia e ai trattori, ai gattini e a quei vestiti troppo corti. L’inquietudine che esiste da sempre, ma esplode solo poi.

Nasci libero, finché qualcosa ti cattura

Mi ricordo che frequentavo la scuola media la prima volta che ne rimasi affascinata. Durante l’ora di inglese sfogliavo il libro di testo e le sue immagini mi rapirono. La sua lontananza la rendeva una terra così irreale: 15613 chilometri in linea d’aria tra me e l’Australia. Mi sono rimaste impresse la sua cartina topografica con Alice Spring al centro, con le sue Ayers Rocks che cambiano colore in base alla luce del sole, l’Opera House di Sydney, la Great Barrier Reef, con i suoi coralli, le sue meduse, i suoi squali. Come se l’isolamento geografico che le permise di distinguersi dal resto del mondo in fatto di clima, flora, fauna, storia e forse anche mentalità, avesse in qualche modo contribuito a creargli attorno quell’alone di fascino e mistero, proprio delle cose che non si conoscono.

E a partire dai miei 12 anni, nutrire lo spasmodico desiderio di un giorno andarci, anche se poi frenato, senza essere attenuato, dalle infinite altre possibilità che mi si sono aperte davanti. Pensare ogni giorno di partire, per poi non partire mai, forse per tenersi lì buono un desiderio non realizzato, con il timore che a realizzare un sogno forse un po’ lo perdi.
E poi ci sono loro, Elena e Alessandro, che sono stati portati dall’altra parte del mondo dalle occasioni, dai desideri, dalle possibilità, dalle mille diverse strade della loro vita. Con la consapevolezza che per ogni sogno espresso, in realtà, ne arrivano altri cento al seguito. Due volti a rendere concreta una realtà, che ora non è più solo fatta di canguri, koala, surf e paesaggi, ma che continuo a guardare da lontano quasi con venerazione. Elena e Alessandro: due volti a testimoniare la veridicità della pericolosa massima “Volere è potere”, e che se volere è partire, basta un volo, e avrai.

Nome e cognome.
E.: Elena Crocchioni
Elena articolo Foreign opportunities
A.: Alessandro Bontempo
Alessandro articolo Foreign Opportunities

Soprannome.
E.: Ele, Crocchi, Nini
A.: ne avevo un paio quando frequentavo le scuole in Italia tipo Bunte o Bonte poi, da quando mi sono trasferito all’estero, tutti mi chiamano semplicemente col mio nome.

Età.
E.: 27
A.: 29

Città nella quale vivi.
E.: Canberra, Australia.
A.: Sydney, Australia.

Città nella quale vivevi prima di partire.
E.: Cuneo.
A.: Caraglio, vicino a Cuneo.

La prima cosa che hai visto stamattina appena ti sei svegliato/a.
E.: la pioggia fuori dalla finestra.
A.: le e-mail sull’Iphone, purtroppo.

Il lavoro che svolgi.
E.: faccio due lavori part-time: al mattino lavoro come attachè presso la Nunziatura Apostolica (ambasciata della Santa Sede in Australia), al pomeriggio sono allenatrice di ginnastica ritmica a “Elementz Rhytmic Gymnastcs”.
A.: Restaurant Manager.

Il lavoro che volevi fare da piccolo/a.
E.: ballerina o acrobata.
A.: chirurgo.

Il sogno nel cassetto.
E.: visitare tutti i paesi del mondo.
A.: avere una casa con giardino con vista sull’oceano a Sydney o a Byron Bay (all’estremo nord dello stato del New South Wales al confine con il Queensland dove il clima è mite/caldo per tutto l’anno), un cane e la possibilità di continuare a viaggiare.

Il sogno fuori dal cassetto.
E.: essere pagata per farlo.
A.: vivere all’estero.

Gli studi che hai fatto.
E.: relazioni internazionali, specializzazione sul mondo arabo.
A.: ragioneria, ITC “F.A. Bonelli” Cuneo

Perché sei andato/a via dall’Italia?
E.: inizialmente sono andata a Parigi per finire l’università e poi in Australia per trovare lavoro.
A.: avendo iniziato a lavorare nel settore della ristorazione quando ero molto giovane la situazione all’estero era più divertente e mi permetteva di guadagnare meglio, in aggiunta, non mi ci è mai voluto più di mezz’ora a fare una valigia.

I motivi per cui ritorneresti in Italia.
E.: amici, cibo e la mamma 
A.: non ce ne sono al momento

Cosa cambieresti nel sistema italiano?
E.: più opportunità lavorative e voglia di dare ai giovani una chance.
A.: non saprei da dove iniziare. Vivendo all’estero da ormai 10 anni e avendo ritmi di vita molto veloci, purtroppo mi sono allontanato molto dalla politica italiana. Nei momenti liberi devo pensare a fare troppe cose e non sempre riesco ad incastrare la lettura di un giornale italiano online; però partirei con volti politici più giovani, meno favoritismi, meno corruzione e mettere davanti gli interessi del Paese rispetto agli interessi personali.

Cosa cambieresti del sistema del Paese nel quale vivi?
E.: un po’ meno burocrazia e certificazioni, infatti per ogni singola cosa richiedono mille certificati e attestati.
A.: il vasto divario che esiste tra la popolazione indigena (aborigeni) e la popolazione che ha conquistato le loro terre poco più di 200 anni fa.

La prima cosa che hai pensato/provato quando sei atterrato in Australia.
E.: finalmente questo viaggio infinito è finito!
A.: non ho prenotato un ostello, dove dormo stanotte?

L’ultima cosa che hai pensato l’ultima volta che sei ripartito/a dall’Italia per ritornare in Australia.
E.: ci vediamo presto!
A.: si mangia troppo bene in Italia ma non vedo l’ora di tuffarmi nell’oceano… arrivederci alla prossima!

Una cosa che vorresti fare ma che ti impediscono di fare.
E.: non mi viene in mente niente di particolare. Da questo punto di vista in Australia puoi fare abbastanza di tutto.
A.: nessuna.

Una cosa di cui vai particolarmente fiero/a.
E.: la mia capacità di adattarmi a qualsiasi situazione.
A.: essere sempre stato capace di fare le scelte che reputavo giuste per me, nella situazione in cui ero, senza perdere di vista gli obiettivi di vita e i goal a lungo termine.

Pensi di rimanere per tutta la vita in Australia?
E.: chi lo sa… vedremo.
A.: sto terminando un affare di lavoro che mi vedrà vivere via dall’Australia per un paio di anni ma si, sicuramente quando reputerò che è tempo di fermarsi e stabilizzarsi, questo avverrà sicuramente in Australia, a Sydney.

Cosa rispondi a chi dice che andare via dall’Italia è una fuga?
E.: non penso sia una fuga, ma la voglia di scoprire posti ed opportunità nuove.
A.: certo, è una fuga che è conseguenza di una serie di cause. Abbiamo il potere di scegliere dove vivere, che lavoro fare e come impostare la nostra vita. Se per una serie di eventi arrivo a trovare una stabilità, che non avevo in Italia, ma che trovo in un Paese estero, perché rovinare il tutto e compromettere un equilibrio che mi fa star bene?

Cosa pensi di chi rimane perché crede di poter riuscire a sistemare le cose?
E.: meno male che ci sono persone che rimangono che la pensano così!
A.: assolutamente non è che tutti dobbiamo partire e andare a crearci una nuova vita altrove. Credo però che un soggiorno all’estero, per breve o lungo che sia, possa sempre aiutare. Può succedere che proprio durante questo periodo di tempo passato lontano, si trovi l’energia e le idee per tornare e fare qualcosa di unico.

Non ti vien voglia di ritornare per dimostrare che non tutto è da buttare?
E.: ogni tanto si!
A.: non è per niente tutto da buttare. L’Italia ha un patrimonio unico che vedi da un’ottica diversa quando vivi all’estero: mi sono accorto che davvero sono nato in uno dei paesi più amati e conosciuti al mondo però no, la voglia di tornare è passata.

Home sweet home: Italy or Australia?
E.: Italy.
A.: Australia sempre di più, specialmente dopo aver ottenuto la cittadinanza e il passaporto.

Un consiglio per chi rimane.
E.: puntare in alto, senza accontentarsi della prima cosa che si trova.
A.: lavora sodo, cerca e cogli senza pensarci troppo le opportunità di crescita, non lamentarti, sii educato e viaggia se puoi (non in ordine).

Uno per chi vuole partire.
E.: non mettere limiti all’avventura e approfittare di ogni occasione che viene offerta.
A.: lavora sodo, cerca e cogli senza pensarci troppo le opportunità di crescita, non lamentarti, sii educato e impara l’inglese (non in ordine).

Fai un saluto a chi ti sta leggendo.
E.: have a g’day mate!
A.: una frase mi è stata impressa parecchi anni fa, durante uno dei miei viaggi, mentre leggevo un giornale di surf. Credo che mi trovassi su un autobus, sull’isola di Fuerteventura nelle Canarie, e faceva così: “Get out of your comfortable zone because that’s when you learn things.”.

La passione che unisce

FOTOliberamente: foto libera in libera mente. Questo è stato il motto che ci ha portato a sviluppare il nome di questo circolo. Racchiude in sé il concetto di un pensiero fotografico che spazia a 360 gradi, in ogni possibile forma, espressione o punto di vista. Al centro di questo cerchio c’è la passione pura e semplice, che fa da perno e allo stesso tempo da propulsore. Quella stessa forza che ha portato, con invisibili fili intrecciati dal tempo e dal caso, a farci incontrare. Alcuni di noi otto arrivavano da diverse realtà già operanti sul territorio, ma percepivamo che qualcosa mancava. All’inizio ci siamo riuniti per capire cosa volevamo, qual era il desiderio, il sogno che ci spronava ad andare oltre e che non ci concedeva pace.

Libertà di potersi esprimere, di scaricare e sfogare il proprio io, rendendo fruibile il punto di vista di ognuno. Questo cercando nuove forme espressive, la condivisione, la collaborazione, in poche parole: contaminazione.

Direi che si tratta della seconda parola che sta attorno al nostro fulcro. Dal neofita al professionista il salto è grande, può essere dall’uno verso l’altro o viceversa. Si inizia apprendendo delle regole su come fare fotografie, inquadratura, utilizzo tecnico dei parametri che, come ingredienti, devono essere dosati per avere un risultato trasmettibile. Poi più si cammina e si apprende, più si capisce quanto poco contino le regole, anche se rimane fondamentale imparare le basi della fotografia e le tecniche utili per padroneggiare luci, ombre e strumenti: senza non si può fare il salto di qualità. In realtà non sono le ottiche che montiamo sulla nostra amata macchina fotografica, o la potenza in megapixel (termine che riporta la mente a scontri epici intergalattici) o il rincorrere l’ultimo modello di macchina fotografica, che faranno belli i nostri scatti. Ma dopo i fondamenti diventa necessario carpire gli occhi dei grandi artisti attraverso le loro opere, dei nostri compagni di passione attraverso la condivisione di idee e pensieri. Farsi contaminare da chi percepisce la realtà in modo diverso e farla nostra non crea copie sbiadite, ma porta a nuove scoperte e nuovi mondi. Cito una bellissima frase di Tiziano Terzani che ne racchiude il senso: “Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e filtri giusti.

Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l’immagine di un’idea.”

Queste sono le basi che ci hanno portato a credere con forza ed agire creando questo circolo. Un luogo dove poter mischiare, plasmare, ricercare stimoli, meravigliarsi e mostrarsi. Non siamo un direttivo e non ci piace questo nome. Lo riteniamo troppo duro, in contrasto con la vena di libertà che ci ha guidato sino a qui. Siamo un Coordinamento, soci come tutti gli altri ma con un dovere in più: cercare risposte, contatti,  seguire idee, progetti ed iniziative che tutti gli iscritti possono avanzare. Fa piacere quando leggiamo che quando qualcuno ha tempo libero o c’è qualche evento interessante, si chieda “Domani ho il pomeriggio libero, qualcuno si unisce a me per fare qualche scatto?”. Pur essendo giovani e non conoscendoci ancora, la passione ci avvicina: nuove trame si intrecciano e ci arricchiscono interiormente. Ritroviamo la voglia di collaborare fra di noi, con le realtà del nostro territorio così variegate, ma sempre un po’ troppo sottovalutate. Il mondo è fatto di mille scatti, o forse di uno solo che li comprenda tutti, ma è sempre dietro l’angolo, sotto i nostri occhi e va scoperto.

Non abbiamo limitazioni, cioè chi si iscrive da noi può frequentare qualsiasi altro circolo ed è assolutamente ben accetto. La Michelin Sport Club è divenuta la nostra sede, dimostrando di credere nel nostro operato e nelle nostre idee. Qui ci troviamo il 2° ed il 4° giovedì di ogni mese. Addirittura hanno concesso uno spazio in cui abbiamo allestito una mostra permanente dei soci. Ogni due mesi lanciamo un contest fotografico in cui ci sbizzarriamo. Da qui scegliamo e sistemiamo assieme gli scatti che andranno ad allestire questo spazio: togliamo gli scatti precedenti che verranno utilizzati per altre iniziative e li sostituiamo con questi. Così ognuno di noi ha davvero uno spazio in cui mostrare il proprio lavoro. Abbiamo anche pagina sul social Facebook ed un sito dedicato, ma poter vedere una propria opera in carta e cornice non ha eguali.

Non possiamo svelarvi troppo, per non rovinare la sorpresa, ma abbiamo in mente corsi (a breve partiranno quelli di 1° e 2° livello), contest, portfolio, progetti, collaborazioni, mostre, viaggi fotografici e chi più ne ha, più ne metta!

Vogliamo crescere, crescere attraverso l’aiuto reciproco, la condivisione del sapere e dei pensieri.

Per qualsiasi informazione vi lasciamo i contatti, ma perché non venire direttamente a trovarci in sede? Così il confronto di persona, con la nostra realtà vi farà capire quale sia il nostro intento.

E-mail: fotoliberamente@gmail.com

Sito:       http://www.fotoliberamente.it/

FB:         https://www.facebook.com/fotoliberamentecuneo

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