Il fondo del caffè – Maggio 2015

Il caffè che si ordina al bar per poter andare al cesso. Il tappeto con cui ci si pulisce le scarpe prima di entrare in casa.
Il tedio, la sconfitta, tutte sensazioni annebbiate quando sai di 641immigrati morti nel mare vicino a casa tua.
Lo sgomento si dilegua quando scopri che in quella stessa barca, è nata una bambina. Francesca Marina. In mezzo alle onde, alla fame, al freddo e alla disperazione, la vita resiste. La vita è più tenace di qualsiasi orrore. La vita se ne frega delle onde, della fame, del freddo e della disperazione.
Nello stesso momento dall’altra parte del mondo – ma neanche troppo lontano- nasce Charlotte, attesa da tutto il mondo. Non sa cos’è, ma in testa ha già la corona di una principessa. Il sollievo di nascite inaspettate è spazzato via dalla vergogna, perchè la piccola Charlotte ha una coperta più calda di quella che avvolge il corpicino di Francesca, nonostante entrambe siano fatte di vita nello stesso modo. Nonostante il progresso, l’evoluzione, la storia e i nostri mille passi avanti, retrocediamo sulla questione delle origini. Le cose cambiano, per non cambiare mai: Francesca dovrà farsi strada con i gomiti per andare avanti. Charlotte, invece, a suon di ordini.
La vergogna sparisce, lascia posto alla paura. Oggi in una settimana costruiamo palazzi, ma bastano 10 secondi e un terremoto spazza via tutto. Il Nepal, sommerso dal cordoglio di 7365 vittime, si attenua nell’eco di una trascorsa novità, che appena esplosa fa notizia, ma poi ne rimane una lieve sfumatura, non più percepita da chi si è abituato a sentire il nome “Nepal” al telegiornale.
Distruzione, sospensione, terra, baracche. Il terremoto che ha spazzato via tutto è stato spazzato via dall’onda mediatica dell’Expo, famoso per i suoi ritardi e dei suoi black block. Qui distruzione fine a se stessa, dettata dall’ignoranza e dalla stupidità di chi si annoia ad avere una vita normale.
La normalità spazzata via da un aspirante medico, quando per la prima volta, ausculta un cuore. La sensazione di riuscire, l’ebbrezza del fare, la volontà di rifare. Quella prima volta non la proverà mai più.
La prima volta che qualcuno lascia qualcuno. Per andare alla ricerca di cosa poi?
La prima volta che qualcuno viene tradito da qualcuno. Per provare che cosa poi?
La realtà trasportata in un incubo. Gli incubi reali non ci lasciano stare nemmeno di notte. È per questo che il buio fa paura. Svegliarsi di notte con le lacrime agli occhi, con in testa il trauma dell’abbandono, del tradimento, dell’impotenza. Non abbiamo potere sulle scelte degli altri. Se qualcuno decide di andarsene, se ne va. Anche senza una motivazione.
L’abbandono e il tradimento legate alle vicende personali, perdono senso di fronte ad un campo di concentramento. Di fronte alla più piccola, ma così reale possibilità che un settimo del tuo sangue sia passato di qui. In queste mura, ha guardato lo stesso cielo, calpestato la stessa terra, percorso gli stessi passi che ora stai percorrendo tu ora, in quello che un tempo era un campo di concentramento, oggi un museo a cielo aperto. Di giorno fa paura. Di notte ancora di più. Perde senso ogni cosa, di fronte a questo timore. Forse un settimo del tuo sangue è passato di qua. È stato picchiato qui. Ha visto morire i suoi amici dove ora hanno istallato i bagni per i turisti. Oppure è stato rinchiuso in una stanza. Quella dove ora, per scherzo, col riso fin troppo superficiale, ci rinchiudono i ragazzi, “perché così provano cosa è stato per loro”.
Un settimo del mio sangue è passato di qua. Perdono senso le quotidiane mancanze. Perde senso il sentirsi come il caffè che si ordina al bar come scusa per andare al cesso. Perde senso essere il tappeto su cui ci si pulisce le scarpe prima di entrare in casa. Perde senso tutto.
Ciò che prima dava un certo senso al quotidiano, è spazzato via dalle vicende dell’umanità.
Perfino la sensazione di inutilità perde senso. Ma se il senso ce lo costruiamo nel quotidiano, se viene a mancare, cosa rimane?
Come un film in cui muore il protagonista, perde senso il finale. Abbiamo bisogno di lieti fini. Eppure, se non ci sono neppure nei film , come possono esistere nella realtà?
Siamo alla ricerca di senso. E ci inganniamo ogni giorno, cercandolo nel fondo delle tazzine di caffè.

Dalla quiete al battito

Sono due i principali presupposti che deve avere un cuore per essere trapiantabile: deve ancora battere e deve provenire da un corpo cerebralmente morto. Insomma la carne deve essere ancora calda. Almeno fino a poco tempo fa. Lo scorso marzo infatti sono state scardinate le premesse base che consentivano di trapiantare un cuore. Regno Unito, Papworth Hospital, nel Cambridgeshire accade la rivoluzione: per la prima volta in Europa, medici e ricercatori si sono uniti e hanno creato dalla quiete il battito. Fermate un cuore, morirà. Ma non tutto ora è più perduto: ricerche e sperimentazioni hanno reso possibile trapiantare in un corpo vivo e malato un cuore morto, ma sano, riattivato attraverso un’apposita pompa. Un cuore, lo scorso marzo, è stato resuscitato, insieme alle speranze delle migliaia di pazienti iscritti alle liste d’attesa. Secondo i medici inglesi l’aumento del numero di trapianti di cuori del Regno Unito subirà un incremento del 25%.
C’è dunque un possibile risvolto tangibile a questo risultato rivoluzionario. L’uomo può arrivare lontano quando si parla di salvare la vita di un altro uomo. Un cuore si è fermato, ma è stato resuscitato. Non è un miracolo, è il risultato di sudore, dedizione, intuito, scienza. Eppure, per l’uomo al quale è stato impiantato lo è. Lui si che urla al miracolo.

Generation Of Diversity (GOD)

Esiste un meccanismo nel Sistema Immunitario che è adibito alla generazione della diversità. Garantisce la produzione di un numero enorme di recettori diversi, capaci di riconoscere gli innumerevoli antigeni esogeni provenienti dal mondo esterno. È un sistema di difesa che si basa sul fatto che sia la diversità a proteggerci. Per combinazione o come da programma, questo meccanismo si chiama G.O.D., l’acronimo inglese di Generation of Diversity, ma letto senza punti, si traduce con Dio. Un bizzarro gioco di parole sembra suggerirci che dalle mani onnipotenti di un Dio con la barba bianca o col turbante venga generata diversità e diffusa nel mondo, in mezzo agli uomini che dovrebbero essere di buona volontà. Come se questo GOD, letto in entrambi i sensi, ci dicesse che al di sopra di tutto, con estrema naturalezza, esistesse un principio, concreto e allo stesso tempo intangibile, che legittimasse la presenza di tutta questa quotidiana diversità. Diversi recettori, diversi colori della pelle. Diversi agenti patogeni, come diversi credi.
Non voglio entrare in merito a questioni politiche, interessi economici e sconsiderate prese di posizione. Ma è tematica attuale, sulla prima pagina di tutti i giornali, e sulla bocca e nei pensieri della maggior parte delle persone che si guardano intorno, la questione degli immigrati e degli sbarchi. Oltre ogni schieramento di opinione e ideologia di vita, i fatti rimangono fatti.
Quando alle sette di mattina accendo la televisione e al telegiornale parlano di un uomo che è annegato nel suo gommone di salvataggio, il contesto tutto intorno, perde senso. Il gommone era sovraffollato. Un po’ d’acqua è entrata a bordo e si è depositata sul fondo. Stava per affondare, così le persone per salvarsi si sono arrampicate sulla gente intorno, e chi è rimasto sotto, ci è rimasto sul serio. Di fronte a questi orrori del ventunesimo secolo, mi salta in mente il paragone impronunciabile del secolo scorso, quando vagoni merci sovraccarichi di uomini percorrevano binari senza più vedere quelli del ritorno.
Sono le situazione più critiche che scrivono la storia, quelle che lasciano segni. Sono le situazioni che fanno perdere di vista il senso ordinario, costruitosi in secoli di etici sforzi e di ricerca di equilibri, che in un attimo, in un vagone, come in un gommone, si sgretola.
Ogni interesse economico, ogni posizione politica, ogni partito preso perde senso, di fronte a uomini che muoiono così. La questione si spoglia di ogni costruzione sociale e dibattito ideologico, perdendo le stratificazioni piene di luoghi comuni e semplificazioni, per arrivare dritti al nocciolo della questione. Il nocciolo della questione è il fattore umano che emerge e spiazza, e che si intravede sotto tutta quella pelle nera, senza riuscire a nascondersi davvero. E con semplicità, naturalezza e linearità, riattribuisce un nuovo senso, comprensibile anche da un bambino di prima elementare.
Il fattore umano, implicato in questo squarcio di verità assoluta, è quello che emerge ed è quello che nello stesso tempo salva nelle situazioni più critiche. Ridursi all’essenziale fa inquadrare meglio la questione. In un uomo che affoga, io ci vedo un uomo che affoga, in qualunque acque lui stia annegando. Il contesto sparisce, lascia posto al solo fattore umano. È l’uomo che riesce a percepirlo, sarà lui, forse, che lo salverà.

Filtri e tasti dolenti

Sentiamo meno dolore di quanto dovremmo provarne.
Definirci macchine è riduttivo. Siamo qualcosa di più di un meccanismo. Siamo un meccanismo con una volontà. Mi piace pensare di essere costituiti da un ammasso di cellule, atomi, cariche elettriche, tenuti insieme proprio dalla forza di volontà. Qualcosa di più di una semplice catena, di un calcolato effetto domino.
Alla base del puro meccanismo della trasmissione del dolore, c’è infatti, la volontà dell’autoconservazione. Detto in termini più concreti: sopravvivere. Siamo meraviglie imperfette, che l’evoluzione non ha preservato dal provare sofferenza. La sofferenza è il campanello di allarme, che ci rende consci del pericolo che stiamo correndo. Il pericolo può provenire dall’ambiente interno o dall’ambiente esterno. Siamo circondati da possibili tasti dolenti, che contro ogni logica, ci salvano. Una volta percepito il dolore, infatti, reagiamo.
Ogni volta ci salviamo, sopravviviamo, perché riusciamo a sentire quel dolore, che potrebbe farci morire. Sono sistemi complessi, quelli che ci compongono. Eppure la semplificazione, non riduce il loro incanto.
Siamo sensibili al dolore grazie ai nocicettori che captano le sensazione dolorifiche che originano dall’esterno o dall’interno di noi stessi. Sono presenti su ogni centimetro del nostro corpo, ad eccezione della sostanza grigia del cervello. Sono l’elemento primo, con il preciso compito di recepire quell’informazione e, attraverso una catena sinaptica composta da pochi neuroni, di trasmetterla ai centri della corteccia cerebrale, grazie alla quale siamo coscienti di quel dolore.
Eppure sentiamo meno dolore di quanto dovremmo provarne.
Molto spesso è il dolore a salvarci, ma non si può negare quanto faccia male. La sofferenza ci può rendere presenti a noi stessi, ma troppa, non è tollerabile, perché ci aliena.
Esistono dei rami collaterali, ovvero delle fibre che si dipartono da quelle stesse fibre nervose che hanno il compito di condurre le sensazioni dolorose, che sono deputate a contattare i primi neuroni coinvolti in questa via, con il compito di attenuare gli stimoli trasportati, attraverso la liberazione di sostanze che inibiscono la trasmissione del dolore. Sono come filtri che non fanno passare tutto. Bloccano quello che è più dannoso, lasciandone passare solo una piccola parte. Sentiamo meno dolore di quanto dovremmo percepirne. Una delle meravigliose contraddizioni dell’umano è il suo essere composto da meccanismi che lo espongono e nello stesso tempo lo proteggono dalla sofferenza. Come ad indicare che alla base della sua creazione od evoluzione ci sia una forza o una volontà che lo ama e lo odia. Continuamente lo fa scivolare e lo aiuta a rialzarsi. Lo spinge nel vuoto e gli apre il paracadute.
E’ la nostra umanità a permetterci di recepire il dolore, senza la quale, forse non soffriremmo.
Il dolore ci completa portandoci via dei pezzi. Che sia un ago che ci punge, o un amico che non c’è più, è il processo di guarigione ad attestare che siamo vivi. Carne e spirito in continua evoluzione. Andare avanti senza un pezzo, non può che fortificare quello che resta. E’ innegabile l’esistenza del dolore, e non possiamo sottrarci alla sua esperienza. Possiamo essere onesti, e non mentire quando lo proviamo. Sia esso originato da terminazioni recettoriali, che dalle più intangibili, eppure così pesanti, delusioni quotidiane. Andare avanti mancanti, ci rende più consapevoli degli innumerevoli casi della vita a cui possiamo essere sottoposti. All’inizio si tratterà solo di resistere, abituarsi, anestetizzarsi. Sarà un compromesso l’andare avanti, scoprendo poco per volta gli infiniti tasti dolenti a cui siamo più sensibili.
Ma sentiremo sempre meno dolore di quanto siamo progettati a sopportarne. Siamo insieme croce e salvagente di noi stessi. Sentiamo ed attenuiamo i colpi. Siamo forti guerrieri, senza nemmeno saperlo. Ci taglieremo con affilati tasti dolenti, ma troveremo anche molti filtri. Se guardiamo fuori e dentro noi stessi, dallo stesso posto da cui deriva il male, li troveremo. E reagiremo, grazie a quei filtri.

Neanderthal allo specchio

Plank Institute di Lipsia, Germania. 2010, dipartimento di Genetica, un gruppo di scienziati coordinati da Svante Pääbo sequenzia il l 60% del DNA genomico ricavato da fossili di Homo di Neanderthal, provenienti dalla Croazia, Russia e Germania.
Dati sorprendenti sono emersi dalle ricerche: comparando i risultati ottenuti con il DNA di cinque uomini provenienti da Europa, Africa Occidentale, Sudafrica, Papua Nuova Guinea e Cina, si è scoperto che alcuni geni degli uomini preistorici sono uguali a quelli ritrovati nel genoma degli individui viventi analizzati, in particolare in quelli di origine non africana. Da ciò la scombussolante deduzione che una piccola parte del genoma umano, come noi oggi lo conosciamo, avrebbe un’origine neandertaliana. Il che ci porterebbe a sospettare episodi di incrocio tra la popolazione di Homo Sapiens e di Neanderthal, probabilmente avvenute in un tempo successivo rispetto a quello dell’uscita dei primi uomini dall’Africa, ma precedenti alla diversificazione delle popolazioni umane nelle diverse parti del mondo.
La scoperta è considerata tanto sensazionale perché prima d’ora non si avevano prove concrete sull’avvenuta mescolanza, anzi, le analisi sul DNA mitocondriale ne escludevano ogni possibilità. Con le ultime scoperte, la scienza riscrive la storia, o meglio, la preistoria: se prima si pensava che i Neanderthal e i Sapiens non avessero nulla a che fare, ora invece lo scenario più plausibile sarebbe l’opposto.
Tuttavia emerge una contraddizione: nel DNA dell’uomo di Neanderthal non ci sarebbe traccia del nostro DNA, nonostante sia stato provato che nel nostro DNA ci siano tracce dell’uomo primitivo. Ciò può essere spiegato con il fatto che a seguito dell’ibridazione tra le due specie diverse, la quantità di ominidi di origine Sapiens è aumentata enormemente rispetto a quelli di Neanderthal, determinando la riduzione dei suoi geni presenti nella popolazione, andando incontro ad una progressiva riduzione ed estinzione di questa specie, così come degli effetti dell’ibridazione.
Sono sopravvissuti infatti solo quegli ibridi che portarono con sé delle mutazioni favorevoli all’ambiente. Per questo motivo la maggior parte degli ibridi sono andati incontro ad estinzione. E furono quelle stesse mutazioni poi, ad essere state portate avanti nel corso dell’evoluzione, tratti genici che possediamo ancora oggi, e che ci distinguono da qualsiasi altro primate. È interessante notare che la maggior parte dei geni che ci contraddistinguono sono quelli relativi alla pelle, alle funzioni cognitive, al metabolismo e alla formazione di specifiche strutture ossee.
Milioni di miliardi di anni di evoluzione per arrivare ad essere fatti così come siamo. Delicati connotati visivi, pelle liscia e glabra, mandibola e arcate sopracigliari meno prominenti, arti superiori più corti, che non toccano il suolo, la stazione eretta. È stupefacente la strada che Madre Natura, Dio, il signor Caso, o comunque voi vogliate chiamarlo, hanno compiuto su materia organica trovatasi, forse per caso, su un pianeta creatosi, forse per caso, in una galassia generatasi, forse, per caso. Che sia per casualità o per un disegno divino, nulla viene tolto alla genialità e alla perfezione di cui oggi, noi siamo portatori.
Il complesso meccanismo che ci permette il semplice gesto di alzare un dito, oppure, immaginare come possa originarsi il pensiero, la parola, la nostra capacità di astrazione. Questo misto di genialità, complessità e perfezione sono il frutto di un processo evolutivo che ci ha portato, nel corso di miliardi di milioni di anni, a camminare sugli arti inferiori, a prendere in mano una penna, a dare senso a una parola, a pronunciare quella parola. È lo stesso meccanismo che ci ha portati ad essere Homo sapiens sapiens. A perdere peli superflui, assumere connotati più delicati, ridurre la dimensione della mandibola, indossare i vestiti, saperci umani e uomini, quali oggi ci riconosciamo allo specchio.
Milioni di miliardi di sforzi, vittorie e sconfitte, sbagli e mutazioni, ci hanno portato fin qui, così come siamo, ma non basteranno altrettanti anni per capire pienamente il perché, il come. Non ci sarà abbastanza tempo e non avremo mai sufficienti mezzi per dare una risposta esauriente ad ogni domanda, che oggi abbiamo la capacità di porci, sulla nostra origine. Questo perché le meraviglie non si possono esaurire nelle risposte finite. Ma anzi, ogni domanda si apre in un universo di ulteriori interrogativi. Non riusciremo mai fino in fondo a capire come e perché siamo fatti così, ma questo non vuol dire che la curiosità si affievolirà, anzi, si rinvigorirà.
Perché per capire chi siamo oggi, è necessario saperci riconoscere anche in chi eravamo. Per capire cosa potremo fare in futuro, come ci potremo evolvere, è necessario capire come abbiamo fatto ad essere chi siamo. Per essere davvero consapevoli, dobbiamo conoscere le nostre radici. Per poter diventare chi vogliamo, dobbiamo partire dalle nostre origini. E non parlo solo in termini evoluzionistici.
Nella storia dell’uomo, come nella storia di ogni uomo.

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