Parte venerdì 8 giugno il progetto “Cantiere Giovani”, una svolta nel panorama delle attività giovanili della nostra città.
Si tratta di un’iniziativa nata dal Comune di Cuneo e dalla Consulta Provinciale degli Studenti che ha come scopo la progettazione di tematiche di interesse sociale nella città. Come? Molto semplice: i ragazzi partecipanti verranno suddivisi in gruppi eterogenei, composti da studenti provenienti da diverse scuole secondarie, in modo da permettere uno scambio reciproco di conoscenze, punti di vista ed esigenze derivanti da mondi diversi. Il tutto messo a disposizione di un cambiamento della nostra città, che si concretizzerà in una serie di progetti che verranno selezionati insieme alle scuole ed integrati nei Piani dell’Offerta Formativa del prossimo anno scolastico.
È sempre più urgente, infatti, la necessità di noi giovani di sentirci protagonisti e parte integrante del territorio nel quale viviamo, voce accolta e ascoltata che mira alla trasformazione effettiva del contesto giovanile e sociale nel quale siamo –e saremo- chiamati a vivere.
Il progetto verrà introdotto con un primo incontro ad ingresso libero che si terrà venerdì 8 giugno 2018, presso l’Open Baladin in Piazza Foro Boario a Cuneo, alle ore 17.30. Avviato da Simone Priola, consigliere comunale delle politiche giovanili, il dialogo sarà moderato da Franca Beccaria. Durante il pomeriggio interverranno tre relatori esperti del settore delle politiche giovanili e che lavorano a stretto contatto con i giovani: Monia Anzivino, dottore in ricerca di metodologia della ricerca sociale ed attualmente ricercatrice postdoc sui temi legati all’istruzione terziaria e alla condizione giovanile; Francesco Lisciandra, vicepresidente dell’associazione GIOSEF-UNITO (giovani senza frontiere), che si occupa della mobilità internazionale, dei diritti umani e della partecipazione ed inclusione sociale; Lorenzo Rocchi, avvocato e giovane consigliere comunale di Prato, attivo nella sua città con il quale si intraprenderà un dialogo di confronto tra Prato e Cuneo, e sulla possibilità di manovra delle politiche giovanili all’interno della politica amministrativa di una città.
Seguirà poi la presentazione del report sul progetto Cuneo-Nordkapp realizzato da quattro giovani cuneesi che racconteranno la loro esperienza e il significato che ha rappresentato il viaggio nel loro percorso di crescita personale: l’esempio pratico di come viaggiare è un’opportunità di arricchimento.
A conclusione dell’incontro sarà offerto l’aperitivo ai partecipanti.
«Che fai tu, Luna, in ciel?». Leopardi è partito da una domanda, ma non è l’unico. Da sempre la Luna e le stelle sanno ispirare, non solo i grandi uomini della letteratura.
La scienza è riuscita ad esplorare lo spazio grazie alla spinta propulsiva
dell’immaginazione. Chiara Piacenza, 25 anni, che vive tra Cuneo e la Luna, lo studia. Armstrong, con la sua famosa passeggiata lunare, non ha esaurito la curiosità di milioni di persone. L’atterraggio sulla Luna non è stato un punto d’arrivo, ma un trampolino di lancio per tutto ciò che è venuto dopo. Una start up è un’impresa con il fine di promuovere l’innovazione tecnologica in un qualsiasi settore merceologico (n.d.r. la merceologia è la scienza che si occupa dello studio, della produzione, delle caratteristiche e dell’uso delle merci). Alla loro base c’è un gruppo di persone che creano dal nulla qualcosa di innovativo per rispondere ad un’esigenza o per migliorare un sistema. In più, se il sistema in cui si collocano è la società in cui viviamo, nascono le start up sociali.
Chiara Avogaro, 22 anni di Fittà, una frazione di Soave, in provincia di Verona, è creativa e consapevole del mondo che le sta intorno, ma soprattutto sogna. La sua idea costituisce un bellissimo esempio di come si può lasciare un segno nella realtà che abbiamo intorno, ma ci ricorda anche che il primo passo per compierlo, è sognare di poterlo fare.
Descriviti con una citazione. Chiara Piacenza «Osa diventare ciò che sei. E non disarmarti facilmente. Ci sono meravigliose opportunità in ogni essere. Persuaditi della tua forza e della tua gioventù. Continua a ripetere incessantemente: Non spetta che a me. Non si scoprono nuove terre senza essere disposti a perdere di vista la costa per un lungo periodo.» (Andrè Gide)
Chiara Avogaro «Se non puoi essere un pino in cima alla collina, sii una macchia nella valle ma sii la migliore, piccola macchia accanto al ruscello; sii un cespuglio, se non puoi essere un albero. Se non puoi essere un cespuglio, sii un filo d’erba, e rendi più lieta la strada. Non possiamo essere tutti capitani, dobbiamo essere anche un equipaggio, c’è qualcosa per tutti noi qui, ci sono grandi compiti da svolgere e ce ne sono anche di più piccoli, e quello che devi svolgere tu è lì, vicino a te. Se non puoi essere un’autostrada, sii solo un sentiero, se non puoi essere il sole, sii una stella; non è grazie alle dimensioni che vincerai o perderai: sii il meglio di qualunque cosa tu possa essere.» (Douglas Malloch)
Cosa studi? Perché hai scelto questo ambito? Chiara Piacenza Ho studiato Ingegneria aerospaziale, con specializzazione in Spazio. Quando ho dovuto scegliere l’ho fatto perché ho sempre amato lo spazio, e da piccola ero affascinata dalla scienza e dall’astronomia. La società si sta spingendo verso l’era del turismo spaziale, e della colonizzazione di altri corpi celesti. Volevo essere parte di questo cambiamento. Ma ci terrei a dire che bisogna essere appassionati di ingegneria per amare questo argomento: non mi sono mai considerata una geek in questo senso, ciò che mi ha spinto verso questo ambito è la poesia che vi sta alla base, il sogno di esplorare l’universo con le risorse di un’umanità colma di intelligenza, spirito e ingegno. Lo spazio è la vera ispirazione. Quando i bambini chiedono “Come faccio a diventare una o un astronauta?” la risposta che si dà è: “Fai quello che ti piace, al meglio che puoi”. Lassù serve gente che faccia sognare, e che ami profondamente il proprio lavoro, che sia medicina, biologia o sociologia.
Chiara Avogaro Sono laureata in Mediazione Linguistica, ma ho deciso di intraprendere una magistrale in ambito economico perché desideravo capire quale valore volessi attribuire al lavoro che avrei svolto nella mia vita. Inoltre, dato che ho fatto l’erasmus a Monaco non mi piaceva l’idea di un’ulteriore specializzazione in ambito linguistico, e così mi sono avvicinata all’idea di fare degli studi che aprissero le mie prospettive, ampliando le mie conoscenze anche in un altro settore.
Qual è il tuo sogno? Quando ti è venuto in mente? Chiara Piacenza Il mio sogno è di arrivare ad addestrare gli astronauti europei. Il centro europeo di addestramento di astronauti (EAC) si trova a Colonia, in Germania, ed è dove ho avuto l’incredibile opportunità di svolgere la tesi magistrale.
Ho sempre avuto tanti sogni, dal fare la giornalista a lavorare in teatro, ma sentivo qualcosa di inspiegabile ogni volta che assistevo al lancio di un razzo spaziale. Ancora oggi l’emozione che provo al conto alla rovescia guardando fisso la rampa di lancio è incredibile. Sono i brividi e la commozione che puoi provare solo per qualcosa che ti tocca nel profondo, come un amore molto giovane ma sempreverde. Quando ero piccola guardavo le stelle e mi chiedevo come si vedesse la terra dalla loro prospettiva. Ora ci sono donne e uomini di grande talento che ogni giorno si addormentano guardando la Terra girare come una trottola sotto la loro stazione spaziale, e per me questo rappresenta l’ultima immensa frontiera dell’esplorazione umana. Chi lavora in quest’ambito è il nuovo membro della ciurma di Cristoforo Colombo, è esploratore dell’universo.
Chiara Avogaro Da sempre sogno un lavoro che mi permetta di far sbocciare un lato di me che mi caratterizza: mi piace gestire e organizzare le cose. Nel tempo ho scoperto che questa è un’attitudine che mi valorizza. Però, d’altro canto, non posso intraprendere questo percorso senza avere chiaro il senso del mio procedere. So che con la sola realizzazione personale non sarei felice e non starei bene con me stessa, a me serve di più. Quando mi penso tra vent’anni credo che l’unica cosa che mi farebbe alzare la mattina dal letto per andare serena al lavoro è il fatto di offrire un impiego, attraverso il mio stesso lavoro, a persone che non riescono a trovarlo, quelle che appartengono alle fasce deboli della società. Sogno un giorno di usare il mio lavoro e la mia passione per creare nuove possibilità di occupazione a persone con background di disagio, in genere discriminate, che faticano a reinserirsi nella collettività. Credo fermamente che il lavoro nobiliti l’uomo e che possa essere una delle prime forme di recupero. Nel mio paese c’è una cooperativa sociale che crea marmellate impiegando persone con diversi disagi: faccio volontariato lì da sempre, e forse è proprio da qui che ha iniziato ad emergere questa mia sensibilità. Sono consapevole che sia un sogno impegnativo, ma ormai è da tempo che lo sto maturando ed è per me una sfida a cui non posso rinunciare.
Ho avuto la fortuna di accompagnarmi per un breve tratto di strada con Chiara Piacenza e Chiara Avogaro, in due occasioni distinte. Se vuoi trovare un punto in comune tra loro, la prima di cui ti accorgi quanto le incontri è che ti sorridono. E dopo, quando ti congedi da loro, sorridi tu.
Sono sufficienti poche parole per notare un secondo punto in comune. Entrambe hanno un sogno. Il termine “sogno” prende la sua origine dal latino somnium, ma dopo che trascorri un po’ di tempo con loro hai l’impressione che derivi direttamente dal nome proprio Chiara.
Spesso si pensa ai sogni come entità astratte irrealizzabili, che vivono solo nella nostra testa, ma i sogni veri sono progetti concreti. E questi progetti si edificano solo dopo averli profondamente desiderati. Il desiderio ci spinge a fare di tutto per rendere concreto il sogno. Sono i nostri sogni che, quando prendono i connotati di un progetto, ci aiutano a capire chi siamo, o muovere i nostri passi verso chi vogliamo essere. Raggiungendo la Luna, per esempio,oppure attraverso una start up sociale.
È Michael Porter il protagonista della TED conference che vi proponiamo oggi in questa rubrica. Porter è un professore americano della Hardvard Business School , nonché uno degli ideatori della strategia manageriale.
L’opinione comune ci fa credere che il mondo dell’impresa sia una delle cause dei problemi e delle disparità sociali ed ambientali che in questo secolo stanno toccando apici mai visti prima. Siamo la società dei contrasti: contesti di povertà estrema coesistono a frangenti di prepotente ricchezza, una crescente coscienza civile convive ad episodi di mostruosa disumanità.
Essere cresciuti nella cultura della contraddizione, tuttavia, ci privilegia nel farci cambiare prospettiva: il mondo dell’impresa – dice Michael Porter – non è la causa, ma un potenziale strumento di risoluzione ai problemi sociali dei nostri giorni. Come?
Io, in verità, non volevo sapere il tuo nome. Perché sapevo che se avessi saputo il tuo nome mi sarei sorpresa a pensarti, in un giorno qualsiasi, come oggi. Sono agitata, nervosa, ho mille cose da fare, pensieri per la testa ed ansie che chiudono lo stomaco. E tutto questo mi blocca. Solo un pensiero si muove e arriva a te. Lorenzo.
Lorenzo. Saperti per nome ti rende ancora più reale di come ti ha reso reale il tuo essere stato carne.
Il giorno dopo in cui ti ho incontrato, Lorenzo, pioveva. E una delle prime cose a cui ho pensato è stata che avresti dovuto sapere che non ti eri perso niente. Il cielo era grigio pieno di nuvole, piene di pioggia. Solo pozzanghere a terra e un autobus mi ha schizzato tutta l’acqua sporca di strada addosso. Sono arrivata in ospedale tutta bagnata. E continuavo a pensarlo, che in fin dei conti, non ti eri perso proprio nulla. Ma oggi, giorno in cui ti scrivo, c’è il sole, dopo giorni che piove, e sembra più luminoso, sembra più caldo. E non sono più sicura che non ti sei perso nulla.
Ci ho messo un po’ a capire cosa sentivo. Riesco a scriverlo solo ora, dopo troppi silenzi e troppi pensieri taciuti. Lo scrivo proprio oggi che c’è il sole, che ho mille persone da chiamare e a cui rispondere, mille pagine da studiare, un evento da organizzare. Radicata nel momento presente, la mia mente mi obbliga a ritornare indietro, perché lei sa che il modo per andare davvero avanti, a volte, è tornare indietro.
Ti ho incontrato al pronto soccorso, in una stanza condivisa con un settantenne miracolosamente vivo precipitato da sette metri di altezza. Eravate divisi da un solo paravento. Tu occhi chiusi, un tubo alla bocca, aghi nelle vene. I monitor scandivano i tuoi secondi. Il letto sembrava piccolo per te. Non ti muovevi. Forse sognavi. Chissà dov’eri.
Ti abbiamo aperto le palpebre. I tuoi occhi sono castano chiaro. Le tue pupille non reagiscono più alla luce. La specializzanda ritenta, mentre ci spiega il riflesso pupillare. Riprova da entrambi gli occhi. Nulla.
Ricordo di quando ero piccola: un giorno ero andata a giocare a casa di un’amica di mia sorella. Avevo tra le mani un delfino di gomma, e non so come lo spezzai in due. In modo irrimediabile. Non c’era più nulla da fare. Come quando uno prova a ricomporre il guscio di un uovo rotto, come quando uno ha sbagliato ad essersi tagliato i capelli, o come quando uno dice qualcosa ma subito se ne pente. Irreparabile. Il delfino spezzato, come un uovo che non si ricompone, i capelli che non crescono così veloci, le parole che non tornano indietro. Come le tue pupille che non reagiscono più. Se anche avessi usato lo scotch -pensai da bambina con il delfino spezzato fra le mani, ed ora di fronte ai tuoi occhi che non vedono più- si sarebbe comunque visto che era in due pezzi. Ti si sono rotti gli occhi, non si aggiusteranno più.
Ti ho auscultato i polmoni, dopo la specializzanda. Si sente che si espandono e che ritornano, con andamento ciclico. Mi vien spontaneo farti forza, perché sento chiaramente il suono del tuo respiro, e mi sento sollevata. Ma d’un tratto mi irrigidisco guardando in corrispondenza della tua testa un ventilatore che respira per te.
Il rumore delle macchine che ti tengono in vita, il tuo corpo nudo, così massiccio, di uomo appena fatto, eppure così vulnerabile e indifeso, totalmente dipendente dalle mani degli altri, come se avesse perso ogni forza e consistenza, ora che la tua mente e la tua volontà chissà dove sono. Le infermiere, con estrema dolcezza e premura si prendono cura di te. Ti girano da un lato e poi dall’altro per lavarti. Quanto amore ci mettono. Dopo profumi.
Clinicamente sei stabile, ma tu non ci sei. Dove sei?
Hai sangue in tutto il cervello e hai un tatuaggio sul braccio destro, di quelli grandi e colorati. I segni sulla pelle sono storie. Chissà se hai dovuto lottare con i tuoi genitori per potertelo fare, oppure se invece erano d’accordo. Chissà se hai dovuto discutere con loro per farti comprare quella moto. Chissà se hai una ragazza o l’hai mai avuto in questi tuoi 22 anni, se sei una brava persona, oppure se prendi in giro tutti. Chissà se ti piace studiare, oppure adori il basket. Chissà se sei mai stato in America, se qualcuno conosce tutto di te o c’è qualcosa di te che nessuno sa. Chissà qual è il tuo segreto o il gusto di gelato che preferisci. Come sorridi, o cosa ti fa ridere. Chissà qual è il suono della tua voce e se corri veloce. Oltre ai segni sulla pelle, forse anche le cose che non si sanno fanno le storie.
Sulla tua cartella clinica c’è scritto che i tuoi – chissà dove sono ora – sono informati del fatto che hai sangue in tutto il cervello. Se posso immaginare a malapena la pienezza dell’amore di un genitore verso il proprio figlio, tremo all’idea di cosa possa provare, un genitore, a perderlo.
Eri in moto e nel cervello avevi un angioma. Non si sa, né mai si saprà, se la sua esplosione è stata causa o conseguenza dell’incidente. Di certo anche le cose che non si sanno fanno le storie.
Non ti sei perso nulla nemmeno oggi in fondo. Con il tuo corpo qui, inerte, è difficile pensarti in un lì. Ma se esiste un posto dove davvero si può stare senza un corpo, ci dev’essere un bel sole, anche se piove. Un sole che scalda di sicuro più di oggi, di sicuro più di qui.
C’è una misteriosa energia dentro di noi, dentro ogni cosa e l’universo nel quale viviamo, che è la spinta propulsiva ad andare sempre avanti. È noto a tutti che nasciamo, cresciamo e impariamo. Progettiamo il lavoro, la casa e la famiglia che un giorno avremo. Crediamo in qualcosa, a volte lo sentiamo di più, a volte di meno, ma in fondo sempre ci speriamo. Che lo vogliate o meno, che ce lo impongano oppure no, fateci caso. In balia dell’onda a volte contraddittoria degli eventi che a volte ci oltrepassano senza seguito o che scoprono nuovi sentieri in noi, contro ogni possibile resistenza noi cambiamo.
Viviamo le nostre vite di corsa, fatte di scadenze, appuntamenti e conti alla rovescia, con stimoli ovunque, ormai assuefatti alle forti emozioni, e poi capita che ci fermiamo e avvertiamo improvvisamente di quanto sembriamo diversi rispetto al punto di partenza. Cambiamo si, ma spesso non lo percepiamo. E poi invece quante volte ci promettiamo di cambiare. Usiamo tutte le nostre forze, e così un giorno decidiamo di tagliarci i capelli, comprarci una maglia di un colore diverso dal solito o di andare dall’altra parte del mondo per cercare di pilotare questo cambiamento tanto agognato. Quindi ci guardiamo allo specchio, indossiamo la maglietta nuova, ritorniamo. Eppure sembra che non sia cambiato proprio nulla. Siamo sempre noi stessi, con i nostri spigoli più imperfetti. Il cambiamento è ingovernabile. Sono necessari i fatti affinchè si realizzi. Eppure ci ostiniamo a pensarlo come un qualcosa di attuabile secondo la nostra volontà. Ma non bastano le nostre deboli intenzioni, eppure sempre, costantemente, avviene. È mentre non ce ne accorgiamo che cambiamo. Il cambiamento si realizza ogni giorno, ma non si vede che quando è terminato, quando ci ha già reso diversi. E lo capiamo in un attimo, quando spontaneamente ci comportiamo come non ci saremmo mai comportati prima, ma senza sforzarci di comportarci così. Ed ecco che allo specchio i capelli sono davvero più corti, quel colore addosso lo sentiamo nostro e sentiamo che qui, nel mondo del ritorno, esistono angoli di quella terra lontana in cui lo abbiamo cercato. Ci guardiamo allo specchio e siamo diversi, ma ci riconosciamo in questo cambiamento. Il fulcro del riconoscimento di questo nostro divenire, paradossalmente, sta nelle cose che rimangono sempre le stesse. Esistono approdi sicuri dentro noi stessi, che sono al riparo da qualsiasi moto di trasformazione. Sono i nostri pilastri, alla base della nostra identità, attorno ai quali continuamente moduliamo spigoli e proclamiamo rivoluzioni, che possono farci mutare forma, ma la nostra più profonda sostanza è legata alle nostre origini. Le origini di noi stessi sono le nostre passioni, le cose che amiamo fare, i nostri sogni, le nostre convinzioni più profonde, i volti, le abitudini e le espressioni che ci sono famigliari, le cose che ci regalano momenti di vera pienezza, così autentica che ci fanno pensare che tutto potrebbe esaurirsi proprio lì, perchè più realizzati di quell’attimo davvero non si può. Sono questi nostri pilastri che ci permettono di sapere sempre chi siamo, a discapito di ogni cambiamento.
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