ReferenBoom

 

Basterà il premio Nobel a portare avanti i negoziati di Santos e a non metterlo nella coda delle dimissioni, dove oltre a Cameron si profila l’ombra di Matteo Renzi?

David Cameron non è inglese.

O per meglio dire, la specie “David Cameron” non esiste solo in Inghilterra. E lo sa bene Juan Manuel Santos, Presidente della Repubblica colombiano.

«Il due ottobre è stato il giorno della Brexit colombiana e Santos è il nostro David Cameron» scrive il giornale inglese The Guardian; «Santos aveva scelto di convocare un referendum per aprire spazi di negoziato e dialogo in un paese che lo aveva eletto per finire di annientare militarmente le Farc […], la sua scelta, però, non ha dato i risultati sperati». Dopo 52 anni di guerriglia con le Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (Farc), uno spiraglio di quiete si era finalmente concretizzato il 26 settembre, con la firma del trattato di pace tra il governo e il capo del movimento di estrema sinistra, Rodrigo Londoño, detto Timochenko. Uno spiraglio che non è bastato ad illuminare a sufficienza le convinzioni dell’opinione pubblica, oscurata da decenni di violenze irrimediabili con un trattato di pace. Così, a sorpresa, per soli 63mila voti di differenza gli sforzi di riconciliazione sono andati in fumo, insieme alle aspirazioni future del Presidente Santos.

Dimissioni alla Cameron in vista? Non è questo di cui ha bisogno il popolo colombiano al momento. Soprattutto dopo quattro anni di negoziati e una tregua firmata una settimana prima del fatidico referendum. Una settimana nella quale il frastuono dei media e dell’ex presidente Uribe, a favore del No, ha rotto il silenzio dei 260mila morti e 45mila desaparecidos di questo conflitto eterno.

Probabilmente l’onda mediatica di questo risultato non si infrangerà sulla spiaggia dell’opinione pubblica con la stessa potenza di quello della Brexit. D’altronde, gli sforzi del presidente Santos sono stati premiati il 7 ottobre con il Nobel per la Pace, mentre al massimo Cameron potrebbe essere candidato per quello dell’Esibizionismo.

Ma, da buoni umani, dobbiamo pur trovare un colpevole per un risultato tanto sorprendente: il referendum, arma di voto potente lasciata nelle mani di un popolo bambino?

Rimettere in discussione un pilastro democratico così importante mi sembra inutile, soprattutto in vista del dovere costituzionale che ci chiamerà al voto il 4 dicembre. Tuttavia, il rischio maggiore che sembrano correre i promotori dei referendum al giorno d’oggi è la possibilità di farsi travolgere dalle scelte del popolo e trascinare con sé progetti politici futuri e presenti.

Un velo pietoso steso sulla Francia

Quando parla la sua figura possente precede le sue parole attente e ricercate. Delle lunghe pause di riflessione intervallano il suo discorso. L’atteggiamento da giudice stona con la cornice della Costa Azzurra che fa capolino dalla finestra della classe. E anche i giovani visi seduti ai banchi si distinguono nettamente dal tradizionale pubblico di un tribunale. Eppure l’argomento di dibattito è lo stesso della decisione presa il 28 luglio dal sindaco repubblicano di Cannes, David Lisnard: il divieto municipale contro il burkini in spiaggia.

“Possono le donne musulmane fare fede al loro culto religioso e andare al mare con un velo integrale?” è stata la miccia di discussione dell’estate francese. Nella patria della laicità, in memoria dei valori della Rivoluzione del 1789, è divampato il fuoco della paura, alimentato da un’estremità all’altra dagli attacchi terroristici e dal soffio incessante dei media. Ma, d’altronde, non ci dovremmo aspettare più di tanto se perfino i discorsi inaugurali del direttore generale di SciencesPo (università di Scienze politiche) non possono fare a meno di citare la tragedia di Nizza e l’orgoglio francese messo in discussione dal “problema integralista”. La strada verso l’integrazione religiosa è indubbiamente in salita, e i comuni della Costa Azzurra che hanno aderito al divieto municipale contro questo tipo di costume femminile in spiaggia hanno imboccato la via più veloce ed in discesa: quella della paura.

La Francia non è più il difensore della laicità? Non è questo il punto. Tuttavia, sta usando argomenti di questo genere per mostrarsi più che mai in prima linea nella sicurezza contro il terrorismo. La stessa sicurezza messa in pericolo da un costume da bagno, che ha indotto alcuni magistrati (tra cui il possente professore) a giudicare ‘legale’ il divieto municipale del sindaco di Cannes, poi esteso agli altri comuni delle Alpi Marittime. Mentre i bombardamenti del governo francese in Siria non vedono l’ombra della fine, si cerca di coprire la vulnerabilità della popolazione con un divieto tanto inutile quanto discusso. Finendo col coprire un’intera nazione con un velo pietoso.

Tre Bottoni per riallacciare la solidarietà

Forse, a volte, basta provare a vedere il mondo con gli occhi di un bambino per trovare tutto molto più chiaro e naturale. O semplicemente umano.

LA CASA DI TRE BOTTONI

C’era una volta un falegname, si chiamava Tre Bottoni. Forse si chiamava anche Giacomo o Napoleone, ma era stato soprannominato Tre Bottoni da tanto tempo che nessuno si ricordava più il suo vero nome, neanche lui.
Abitava in un paese povero povero, dove la gente non aveva certo i soldi per farsi i mobili nuovi. In un anno, si e no, gli ordinavano un tavolo e quattro sedie. L’anno dopo gli ordinavano appena appena uno sgabello.
– Non volete un armadio?
– Eh, chissà quanto costa.
– Un cassettone?
– Eh, chissà quanto viene.
– Un attaccapanni?
– Bravo, e che cosa ci attacchiamo?
I pochi panni che avevano li portavano indosso. Tre Bottoni pensò: «Mi conviene cambiar paese. Però, vado in un paese nuovo, dovrò comprare una casa, o perlomeno prenderla in affitto. Mi conviene fabbricarmi una casetta di legno e metterci le rotelle: me la porterò dietro dappertutto e quando farò fortuna mi sposerò, e quando mi sarò sposato la darò ai miei bambini per giocare».
Detto fatto, si mise al lavoro. Come falegname era bravo la fatica non gli dava noia e non aveva paura di picchiarsi il martello sulle dita.
Era anche piccolo, Tre Bottoni. Era anche magro. Non gli occorreva una casa tanto grande. Difatti, la fece piccolissima: ci stavano dentro lui, il martello e la pialla, ma la sega no, la sega doveva appenderla a un chiodo, fuori dalla porta. Sopra la porta ci dipinse il suo nome: «Tre Bottoni». Sotto la casa, ci mise quattro rotelline. Per tirarla, una stanga.
– Guarda, guarda, – diceva la gente, – Tre Bottoni ha fatto una casa col manico!
E ridevano. Ma Tre Bottoni fingeva di non aver sentito. Quando partì, tirandosi dietro la sua casetta a ruote, la gente diceva:
– Guarda, guarda, Tre Bottoni si è fatto la «roulotte». E la benzina dove la metti, che non hai il serbatoio? Te la bevi?
Tre Bottoni si levò il cappello per salutare e se ne andò. La casa era leggera. In discesa, Tre Bottoni ci montava su, come se fosse un carrettino, e via!
Cammina e corri, venne la sera e Tre Bottoni si fermò in un prato.
– Dormirò qui, per oggi ho fatto abbastanza strada.
Lo svegliò, qualche ora dopo, la pioggia che picchiava sul tetto. Era scoppiato un temporale e i fulmini guizzavano da tutte le parti.
«Senti come tuona», si disse Tre Bottoni.
Ma non era soltanto il tuono. Qualcuno bussava alle pareti della casetta, bussava, bussava, e una voce implorava:
Aprimi, per piacere. Aprimi, Tre Bottoni!
Chi è?
Mi bagno tutto, fammi entrare.
– Prova un po’, – disse Tre Bottoni, aprendo la porticina, – io la casa me la sono fatta su misura, ma se ci stai anche tu, ben contento.
Dove c’è posto per uno, c’è posto per due.
Entrò un vecchietto, si strizzò la barba per farne uscire l’acqua e si sdraiò.
– Vedi che ci sto?
– Vedo, vedo. Ma chi siete?
– Sono tuo zio Caramella. Sono rimasto solo, non ho più nessuno che mi dia un piatto di minestra, ho pensato a te. Figurati come sono rimasto male, al paese, quando mi hanno detto che eri partito. Per fortuna i ragazzini hanno visto che strada hai preso e me l’hanno indicata. Ti sei fatto la casa nuova, eh? Allora le cose ti vanno bene?
– Benone, benone – disse Tre Bottoni.
– Bravo, ci ho piacere – disse zio Caramella. – Adesso scusami, ma ho bisogno di dormire. Parleremo domattina.
– Buon riposo – disse Tre Bottoni. Lui però rimase sveglio a grattarsi in testa e pensava: «Povero vecchio, scommetto che non ha nemmeno cenato. Proprio come me».
E intanto tuonava, tuonava. Ma non era soltanto tuono. C’era qualcuno che bussava alla porta, e una voce pregava:
– Aprite, per favore. Aprite!
– Chi è?
– Una povera donna con i suoi tre bambini. Il temporale ci ha colti per la strada e non abbiamo riparo.
– Entrate – disse Tre Bottoni, aprendo la porta, -potete. Io la casa me la sono fatta su misura, ma se ci siete anche voi, ben contento.
Dove c’è posto per due, c’è posto anche per tre. I bambini li terrò in braccio.
Entrò la donna, entrarono i suoi bambini, si sdraiare a dormire, e ci stavano tutti.
– Vi ringrazio tanto – disse la donna, – ci si sta proprio bene, qui dentro.
– Scusate, ma voi dove andavate, con questo tempaccio?
– Andavo alla disgrazia, andavo – disse la donna, mettendosi a piangere. – Sono rimasta vedova con questi figlioli, non potevo più pagare l’affitto e il padrone mi ha sfrattata. Chissà che cosa sarà di noi domani!
– Adesso non pensateci. Cercate di dormire.
Tre Bottoni, però, non poteva dormire e pensava: «Poveretta lei e poveretti i suoi bambini. Scommetto che non hanno nemmeno cenato. Proprio come me e come lo zio Caramella».
Il temporale continuava. La pioggia scrosciava senza riposo. I tuoni rimbombavano da un capo all’altro della terra. E ogni tanto qualcuno bussava alla porticina, in cerca di riparo, e Tre Bottoni lo faceva entrare dicendo:
Dove c’è posto per cinque c’è posto per seiDove c’è posto per sei c’è posto per setteDove c’è posto per undici c’è posto per dodici
Una volta era un boscaiolo a cui il torrente aveva portato via la capanna. Un’altra volta erano due giovani in viaggio per andare all’estero a lavorare. Poi fu un vecchio cacciato di casa perché non poteva più lavorare. Poi un servitore del re cacciato dalla reggia perché si era ammalato e il maggiordomo non voleva farlo curare.
Prima dell’alba, quando il cielo era più cupo e i tuoni più violenti, un pugno imperioso bussò tanto forte che la casetta ne tremò.
– Aprite!
«Potresti aggiungere “per favore”», pensò Tre Bottoni, sorpreso. Ma apri lo stesso e si trovò davanti…
– Fammi entrare!
Ma era proprio…
– Fa’ entrare anche il mio cavallo!
Non c’era dubbio: il manto era fradicio, ma la corona brillava, come se il temporale l’avesse lucidata. Era il re!
Dove c’è posto per dodici, c’è posto anche per tredici – mormorò Tre Bottoni, inchinandosi. E tra sé aggiunse: «E dove c’è posto per un re, c’è posto anche per il suo cavallo».
– Vista di fuori – disse, – la tua casa sembrava più piccola.
Il re entrò e si guardò intorno alla luce dei lampi.
– Veramente – spiegò Tre Bottoni, – io me l’ero fatta su misura della mia persona.
– Che legno hai usato?
– Castagno, Maestà.
– Il castagno non è elastico come la gomma. C’è qualcosa che non capisco.
– E meno male che c’è – disse Tre Bottoni, – altrimenti come c’entrava tutta questa gente?
Sua Maestà re Bernardino Quarto rifletté a lungo.
– Forse non è questione di legno, ma di cuore – disse.
– Come sarebbe?
– Il cuore è piccolo come un pugno, ma se uno vuole può metterci dentro tutta la gente del mondo e rimane ancora posto. Si vede che questa casa l’hai fatta col cuore.
Tre Bottoni rimase zitto.
– E questa gente chi è? – domandò il re, indicando la piccola folla addormentata.
– Dunque, quello è lo zio Caramella, quella è una vedova con i suoi bambini, quello…
Tre Bottoni spiegò ogni cosa a re Bernardino che, ascoltandolo, diventava sempre più triste.
Quando poi notò il suo servitore malato, che si lamentava nel sonno, si tolse la corona di testa, come se a un tratto fosse diventata troppo pesante per portarla.
– Credevo di essere un buon re – disse, – e guarda quanta gente disgraziata. Che cos’ho fatto io per questa gente? Molto meno di te, che almeno le hai offerto un tetto per la notte. È ora che me ne vada.
– Con questa pioggia, Maestà?
– No, non volevo dire questo. E ora che me ne vado in pensione. Se uno non sa governare in modo da rende re felici tutti quanti, è meglio che si levi la corona dalla testa.
Pensò ancora un poco, poi disse: – Però posso fare ancora qualcosa. Appena sarà cessato il temporale, verrete tutti con me. Tu, a quel che vedo, sei un bravo falegname e alla reggia non ti mancherà il lavoro. Penseremo anche agli altri: chi ha bisogno di essere curato lo sarà, chi ha bisogno di trovare un lavoro lo troverà. In cambio, tu mi darai tua casa a rotelle: con essa girerò il regno in cerca di persone che abbiano bisogno del mio aiuto. Sei d’accordo?
Non si sa che cosa abbia risposto Tre Bottoni, perchè proprio in quel momento si udì un imperioso suono di clacson.
Durante la notte, il vento aveva spinto la casetta proprio in mezzo alla strada e la corriera non poteva passare.
– Ehi, voi altri – gridava l’autista, – ehi, zingarelli, sveglia! Tiratevi un po’ da parte.
La gente si affacciava ai finestrini e rideva. – È  la casa di Tre Bottoni…
La casa? Vorrete dire la «roulotte»!
Sveglia, Tre Bottoni!
Tre Bottoni usci dalla casetta e per prima cosa notò con sollievo che non pioveva più. Dietro di lui usci lo zio Caramella, pettinandosi la barba. Dietro lo zio Caramella uscì la vedova, uscirono i suoi tre bambini, l’ultimo cammina a quattro zampe.
– Ma quella non è una casa – rideva la gente, – è cappello di un prestigiatore! Vedrete che alla fine uscirà i coniglio bianco!
E fuori gente, e fuori gente.
– Ma come avete fatto a starci tutti insieme senza diventare piatti come sardine?
– Guardate! C’era anche un cavallo! Un cavallo bianco! Altro che conigli…
Ma dietro il cavallo usci il re in persona. Allora tutti ammutolirono. L’autista fece un inchino che a momenti si rompeva la schiena in due.
– Su, su, niente stori, – disse il re, – fate salire questa brava gente, pago io il biglietto. La casetta di Tre Bottoni potete attaccarla dietro la corriera, al posto del rimorchio. Io vi verrò dietro a cavallo e vi dirò dove dovrete fermarvi.
Se i libri di storia dicono la verità, quella fu la prima volta che la corriera giunse alla capitale scortata dal re a cavallo. E fu anche l’ultima.
Tre Bottoni sposò la vedova e, per far giocare i suoi tre bambini, fabbricò un’altra casetta di legno a rotelle, precisa alla prima. Era piccola cosi, ma ci stavano dentro tutti i bambini della città e se, da ultimo, un gatto voleva entrare, c’era posto anche per lui.

Gianni Rodari

Gli stadi di calcio : Colossei moderni?

Chi non ha mai visto, almeno una volta nella vita, qualche immagine del celebre “Il gladiatore”? E chi non si è mai fatto accarezzare dal fascino virile di Russell Crowe nei panni di una “celebrità”? Eh sì, nell’antica Roma il ruolo dei gladiatori era paragonabile a quello di vere e proprie celebrità. Alla loro entrata nell’arena un grido di esaltazione si levava dal pubblico, risvegliando gli interessi femminili grazie al loro particolare appeal. Per fama si potrebbero paragonare ai calciatori odierni, protagonisti dei “campi di battaglia” ma anche dei gossip sulla bocca di tutti gli appassionati. Giovenale, autore latino del I secolo d.C., ci narra di Eppia, moglie di un senatore, che fuggì con un famoso gladiatore chiamato Sergiolus. Eppure, di questo Adone Giovenale ne sottolinea l’aspetto fisico non propriamente “invitante”: aveva cicatrici su tutto il corpo, gli occhi pesti e il naso deformato dall’elmo.

Il mito del gladiatore non aveva nulla da invidiare ai campioni moderni, nemmeno per quanto riguarda il loro tifo e apprezzamento dal pubblico, dunque. D’altronde, i combattimenti tra gladiatori, i cosiddetti munera, erano l’evento più atteso della giornata al Colosseo, proprio come le domeniche calcistiche. Si raggiungeva quasi la capienza massima dell’imponente arena nel cuore della capitale, ovvero settantamila posti, per questi spettacoli. A patto che di spettacoli si possa parlare. Spettacoli di morte, per lo meno, che hanno reso il Colosseo il luogo sulla Terra dove è morta più gente su una superficie così stretta. Né Hiroshima né Nagasaki hanno prodotto una tale concentrazione di morte. Questo vuol dire che l’umanità dei romani ha giocato a nascondino per più di quattro secoli? Così sembrerebbe, eppure non era una stranezza per quei tempi.

I celti avevano l’abitudine di tagliare la testa ai nemici vinti e di inchiodarla alle travi di casa. Nel caso di nemici valorosi le teste venivano impregnate di olio di cedro ed erano conservate per intere generazioni. In Cina un soldato faceva carriera militare e sociale a seconda del numero di teste mozzate (per praticità facevano fede le coppie di orecchie tagliate e riportate al campo). In Centroamerica gli aztechi vendevano schiavi nemici da usare per i sacrifici (di cui Mel Gibson si è divertito a darci una cruenta immagine in “Apocalypto”). Gli etruschi anche, al loro tempo, facevano sacrifici umani.

E noi? In che modo sfoghiamo i nostri impulsi corporei? Il supplizio è ancora una forma di spettacolo?

La nostra innata curiosità che ci trattiene di fronte ad un programma televisivo che esalta la sofferenza come spettacolo sembra confermare la nostra non-lontananza dai costumi dei Romani. Amélie Nothomb dipinge un’inquietante immagine di un lager moderno ed interattivo tra le pagine del suo romanzo “Acido Solforico”, dove l’intrattenimento planetario scavalca e ammazza quasi definitivamente il senso di umanità di fronte alla sofferenza a portata di schermo televisivo.

L’esigenza istintiva di poter scaraventare fuori di noi i problemi di tutti i giorni non è scomparsa attraverso i secoli, sembra dirci velatamente la scrittrice belga. E ce lo insegnano anche i gladiatori d’oggi, le cui azioni sportive sono spesso messe in secondo piano da eventi di disagio pubblico negli stadi e immediatamente fuori. Gli esempi di attualità sono a portata di mano: un’occasione d’oro per esaltare i valori dello sport e la solidarietà di un’Europa in crisi come i Campionati europei di calcio si è invece trasformata in teatro di disordine sociale e molestia dilagante, come i fiumi di alcol che scorrono senza indugio (nonostante le apposite leggi) tra le mani dei presunti “supporters sportivi”. Gli stadi odierni non hanno nulla da invidiare alle arene antiche, se non per il fatto di aver vestito con gusto moderno l’orrore della sofferenza provocata dallo sfogo irrazionale dei propri impulsi.

“A thing of beauty is a joy forever”

«Uccidete gli uomini, ma rispettate le opere d’arte. È il patrimonio del genere umano».

È il 1914, e lo scrittore Romain Rollan si rivolge così al drammaturgo Gerhart Hauptmann, proprio nel momento in cui la Germania aveva appena bombardato il Belgio e incendiato Leuven. Ma chi è Romain Rolland? Sicuramente non un mostro come potrebbe apparire agli occhi di qualcuno, ma un riconosciuto umanista ed un fervente pacifista. I Rubens di Malines e i tesori di Leuven, storica cittadina universitaria delle Fiandre, simbolo del genio di una nazione, dovrebbe dunque valere più delle vite umane? Se volgiamo il nostro sguardo ad Est, verso i tesori di Palmira, sotto i bombardamenti dei territori siriani, ci viene mai da chiederci se debbano essere oggetto di un’attenzione superiore a quella che riserbiamo agli abitanti di quei luoghi, anche loro minacciati dai colpi di mortaio? La risposta risplende nel cielo della nostra coscienza, ma non senza qualche nuvola.

« Bisogna salvare gli uomini perché solo loro possono ricostruire. Ma allo stesso tempo sono le opere che fanno gli uomini. Evolvendo attraverso le opere, l’uomo si sviluppa e cresce. Un’opera non muore per nulla, il suo ricordo può essere all’origine della creazione di un altro capolavoro », sostiene la storica Véronique Grandpierre. D’altronde, quali sono i ricordi più tangibili di tutte le civiltà passate? Non bastano libri su libri di scuola come attestato di tutte le testimonianze che l’essere umano ha voluto lasciare nel tempo. Già nei miti dell’epica classica emerge costantemente un elemento che differenzia gli umani dagli irraggiungibili Dei: l’eternità. La vita eterna è una delle massime aspirazioni di ogni essere umano con un briciolo di egocentrismo. Eppure, una volta che ci arrendiamo all’innegabile destino della vita, o per meglio dire della morte, affiora un’unica possibilità che possa sopperire ai nostri desideri: lasciare il segno. Il sogno di molti, l’obiettivo di una vita.

“In futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti”, affermava Andy Warhol nel lontano 1968. Ma sicuramente non avrebbe pensato lo stesso John Keats, poeta romantico inglese, morto prematuramente a 25 anni, avvolto dalla disperazione per non aver raggiunto il successo personale a cui aveva sempre puntato ( “If I should die I have left no immortal work behind me, nothing to make my friends proud of my memory” ). Affetto da tubercolosi, Keats scelse nel 1921, per sua precisa volontà, di trascorrere gli ultimi mesi della sua geniale vita nella capitale dell’antico Impero Romano, di cui aveva saputo apprezzare tutti i grandi capolavori che l’avevano resa centro indiscusso di cultura. Roma rappresentava per lui quasi una sorta di bower (pergolato), riprendendo il celebre inizio del poema “Endymion” del 1818, in cui la bellezza, sentimentale e delicata, partorisce l’attività poetica ed eroica. Una via di fuga dalla realtà umana nella culla dell’arte, soavemente accudita dalla poesia che emerge come la primavera dal profondo della verità. Avrebbe quindi la risposta a portata di mano, John Keats, se potesse osservare adesso la distruzione di sei siti patrimonio dell’umanità in Siria? Probabilmente, nel mio immaginario di liceale affascinato dalla poesia inglese, per riflettere a fondo sul valore delle vite umane rispetto a quello delle opere d’arte, Keats si sdraierebbe su un morbido prato per scrutare il cielo, consigliere di mille sognatori. Un cielo in cui la risposta appare chiara, come per tutti noi, ma in cui lo sguardo del poeta viene attratto dalla magia della nuvole. Nonostante provino per un attimo ad oscurare il cielo della propria coscienza, nel suo cuore simboleggiano l’eternità che si nasconde solo nella bellezza più pura. « Beauty is Truth, Truth beauty-that is all you know on earth and all you need to know ». La stessa beauty racchiusa dalle opere d’arte che ci hanno permesso di lasciare il segno attraverso il tempo, che ci fanno sognare e che ci permettono per un istante di dimenticare le tragedie in corso nel mondo…per farci cullare dai soffici contorni di una nuvola. Dopotutto, c’è un Magritte in tutti noi.

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