28 Febbraio 2017 | universalMente
Agricoltore, contadino, altermondialista, militante, rivoluzionario, attivista, passeur-citoyen, eroe, criminale, Robin Hood dei migranti.
Ecco alcuni della lunga lista di aggettivi che la stampa internazionale ha attribuito a Cédric Herrou, diventato famoso per essere “colui che aiuta i migranti tra le montagne della Valle Roya”. Tra irruzioni della polizia e processi a Nizza, la sua storia è rimbalzata su un incredibile numero di pagine e piattaforme online, dando vita ad un flipper di reazioni che hanno toccato perfino la sempre più lontana America di Trump.
Eroe o criminale?
I telegiornali non hanno nemmeno il tempo di presentare tutte le azioni di aiuto ai migranti che Herrou ha effettuato in questi anni che subito l’interrogativo si impone nel caos della notizia. D’altronde, quale piacere più sottile potrebbe mai stuzzicare l’animo umano se non quello di poter accendere la televisione e indossare per un attimo i panni di un giudice davanti ad un imputato inerme?
Eroe o criminale?
Cédric non si è mai posto questa domanda. E non si è mai nemmeno immaginato di diventare un giorno un caso nazionale. Né quando apriva le portiere del suo furgone per far attraversare la frontiera franco-italiana a dei richiedenti asilo né quando ha dato un tetto ad una cinquantina di Eritrei occupando una stazione abbandonata della Sncf (la Trenitalia francese, solo più cara e con meno ritardo).
Non è stato dunque l’aspirazione ai famosi “15 minuti di celebrità” declamati da Warhol a spingerlo a compiere numerosi atti illegali nei confronti della legge francese? Nemmeno la speranza di un attivismo politico che potesse diffondere un segnale grazie ai media?
Mentre mi guarda negli occhi attraverso quegli occhiali tondi (e maledettamente in stile francese), Cédric Herrou non nega la storica tradizione di resistenza e impegno civile della Valle Roya. È qualcosa di cui va fiero, perché è il mondo in cui è cresciuto, mano nella mano con l’associazione Roya Citoyenne, che conta centinaia di aderenti. E attraverso le sue parole e quelle di altri due attivisti, venuti a fargli visita (rigorosamente a piedi) attraverso la valle prima del processo, si propaga nell’aria un irresistibile profumo di semplicità.
Quella semplicità di cui la natura è la regina indiscussa e gli agricoltori i suoi primi discepoli. Quella semplicità che non nasconde un secondo fine nelle sue azioni. Quella semplicità da parole spicce e dirette, che fanno camminare degli aspiranti giornalisti attraverso una delle strada più pericolose d’Europa. Quella semplicità che risponde in primo luogo agli istinti della coscienza, e subito dopo alle leggi dello Stato.
Sarà per questo che con la stessa semplicità con cui ha accettato di incontrarmi Cédric Herrou si è vestito, con gli abiti di sempre, per andare in tribunale il 10 febbraio. Ad aspettarlo c’erano migliaia di persone che vedevano in quell’impassibile contadino un esempio da applaudire per coraggio e per sostegno. E c’era anche un Procuratore, che dopo la condanna a tremila euro di multa è stato ringraziato da Herrou per aver fatto appello alla sentenza, dimostrando anche lui una grande dose di “semplicità made in Valle Roya” («je n’osais pas le faire moi même de peur que vous pensiez que je me serve de la justice comme d’une tribune politique»).
Cosa ci dimostra questa semplicità? Probabilmente il fatto che Cédric Herrou finirà presto in qualche cassetto di ricordi giornalistici per lasciare spazio ai consueti discorsi politici sull’immigrazione. O forse che grazie alla mediatizzazione dei suoi gesti altri attori della vita quotidiana si renderanno colpevoli dell’ormai celebre “reato di solidarietà”. Per ora l’unica cosa sicura è che la fedina penale di Herrou è ormai inesorabilmente macchiata da un reato nazionale, ma «continuerò a fare quello che ho sempre fatto quando ho la possibilità di aiutare qualcuno, senza pormi eccessive domande» ci dice abbozzando il primo sorriso, con estrema semplicità.
Perché l’umanità non è un crimine, e non lascia macchie.
24 Gennaio 2017 | universalMente
Le mani grandi ed invecchiate prima del tempo si agitano vigorosamente nella sala. Kamal non è un gigante, ma è sicuramente buono. Di quella bontà che ti fa girare il mondo per raccontare un’idea di fronte ad un pubblico sempre nuovo, ma costantemente affascinato e stupito.
Un’idea che potrebbe essere il sogno di molti, ma che è diventata la realtà di Kamal Mouzawak. Per questo motivo, con disinvoltura e passione, una grezza voce francese ripercorre come una locomotiva la prateria della sua esperienza.
«La popolazione libanese conta 6 milioni di abitanti. Altri 15 milioni sono invece sparpagliati in giro per il mondo, e si sono portati dietro la cultura del nostro paese. La lingua? Vestiti tipici? Tradizioni religiose? Niente di tutto questo. Semplicemente, il cibo». In questa piccola fetta di terra di 200 km sulla costa Est del Mediterraneo che prende il nome di Libano si cela dunque un segreto culinario che non è andato perso nel caos delle guerre mediorientali e dei flussi migratori dei paesi limitrofi.
«Una gran diversità di etnie, religioni e politica. Il tutto in un piccolo paese, in cui il concetto di “altro” non esiste. Il Libano è un paese metà/metà. Cristiano e musulmano, orientale ed occidentale, di mare e di montagna. Un equilibrio fragile, ma che celebra le diversità come una ricchezza». Insomma, un mix di ingredienti che Kamal ha deciso di voler portare in tavola tutti i giorni in un progetto umano e goloso: Tawlet.
Per sfuggire dalla disperazione quotidiana di Beirut e dare spazio ai prodotti dei contadini locali, Kamal fonda nel 2004 Souk el-Tayeb, letteralmente “il mercato delle cose buone”. Un luogo di ritrovo per sperimentare e condividere, dalla cui esperienza costruttiva nasce nel 2009 Tawlet, il sogno di Kamal Mouzawak.
«In Libano la cucina non ha religione» afferma con fierezza il creatore di questo ristorante nel cuore della capitale Beirut, «per questo motivo a Tawlet troverete ai fornelli donne che vengono da tutto il paese per condividere le proprie ricette e dare sapore alla nostra cultura».
Mentre le immagini del ristorante e delle numerose chef scorrono sullo schermo, gli studenti non hanno ancora avuto il tempo di staccare lo sguardo da questa figura carismatica che li travolge con il suo accento libanese. Il cibo protagonista di una lezione di diplomazia in una facoltà di Scienze Politiche, non capita tutti i giorni.
«In un paese come il Libano, ci vuole una moltiplicazione di coraggio per fronteggiare questa moltiplicazione di catastrofi, guerre, disperazione. E una tavolo imbandita a cui sedersi».
27 Novembre 2016 | universalMente
Quando immagino una barca, nella mia mente si profila un orizzonte al tramonto, un mare tiepido e calmo, e un marinaio solitario che issa le vele anche se non c’è vento .
Ecco, il vento è forse l’elemento mancante dei miei sogni.
D’altronde, come dare torto al mio immaginario? Quando la fantasia prende il sopravvento, il potere di creare un mondo a mio piacimento, in cui le ansie quotidiane indossano dolci abiti confortanti, dissolve ogni paura e cancella qualsivoglia vento che possa disturbare il mio stato di quiete.
Così, mi ritrovo a notte inoltrata davanti ad uno spettacolo che capovolge completamente la mia prospettiva fantastica: centinaia di barche in balia del vento imprigionate in un porto. La forza maestrale dell’aria mi strappa un sorriso ed interminabili minuti, in cui i miei pensieri sono sovrastati da una musica penetrante e naturale. Le barche stavano danzando.
Ebbene sì, signori, dopo una giornata di studio e una notte quasi in bianco il migliore degli spettacoli va in scena durante la mia passeggiata notturna: tintinnii, giravolte e qualche sauts de chat nella cornice teatrale di un porto in cui il vento è venuto a portare la sua musica. Solo un pensiero riesce a penetrare nella bellezza del momento, dandomi un panico senso di déjà-vu: «Tutto è già intorno a noi, basta saper accendere gli occhi».
Le parole, dolci e forti, di Oliviero Toscani approdano nella mia mente nel momento più creativo che mi capitasse di vivere negli ultimi tempi. Ed è forse proprio in quell’istante che la magia dello spettacolo ha cominciato a dissolversi, spazzata via dal vento che continua a soffiare implacabile. Perché «solo gli stupidi affermano con fierezza di essere dei creativi».
«Non si può pensare di essere creativi», poiché la creatività non è un’idea che viene fuori dal nulla quando non c’è una vera necessità. Un fotografo con un microfono in mano davanti ad un pubblico pronto ad ascoltarlo è come un pesce fuor d’acqua. Eppure, le parole del maestro Toscani suonano forti e sicure nella sala, dove trecento ascoltatori pendono dalle sue labbra. «Toglietevi dalla bocca la parola creatività, è una parolaccia citata in continuazione, e sempre a sproposito».
Abbiamo tutti sognato di essere creativi un giorno o l’altro. Eppure abbiamo sempre passato più tempo a decidere come metter in pratica la nostra creatività piuttosto che a lasciarci andare al nostro istinto. E quante volte ci siamo ritrovati a fare i conti con lo studio, il lavoro, gli amici, la famiglia o qualsiasi forma di ostacolo magistralmente maneggiato dal tempo? Un pezzo della nostra creatività muore ogni giorno, soffocato dalle preoccupazioni quotidiane o dalla noia dei social network, veri e propri assassini di creatività.
E se avesse ragione il maestro Toscani, che si è ritrovato a scrivere un libro («per incatenarmi, mettermi alla prova e assaporare il gusto della ricerca e della libertà») su questa brutta parolaccia che è la creatività? E se ci volesse davvero solo un pizzico di coraggio per accendere gli occhi e sentirsi liberi di vivere la bellezza che ci circonda? La mediocrità dell’estetica delle pubblicità, delle vetrine, delle relazioni superficiali con finti amici virtuali che viviamo tutti i giorni spesso ci induce a vedere la realtà con gli occhi di qualcun altro.
D’altronde «solo gli stupidi vedono la bellezza solo nelle cose belle». Ma un sorriso timido e sincero quando troviamo la bellezza dietro l’angolo più remoto, quello può scappare a chiunque.
8 Novembre 2016 | universalMente
Il primo passo nella sala illuminata mi proietta in un altro universo. Un pensiero mi punge la mente come una freccia, e mi stuzzica per tutta l’intervista: « La potenza della luce sovrasta ogni cosa ». Ed in effetti sembra essere proprio lei la protagonista di questo incontro, tanto intimo quanto atteso, con un giornalista dalla storia tutta particolare. La piccola fotocamera della nostra televisione d’università si fa largo tra gli imponenti apparecchi di France 3, canale di rilevanza nazionale, che dominano la sala tra l’imbarazzo di tre giornalisti in erba. Tra camere monumentali e carrelli a scorrimento, sono l’improvvisazione e il sorriso la nostra arma di punta. Eppure, nella scenografia perfetta della biblioteca del campus, è proprio questa luce intensa “rubata” ai professionisti a spogliare un ospite di tutte le aspettative di superiorità create al suo riguardo.
In questa atmosfera, Kamal Redouani si siede elegantemente nella poltrona e ci sorride amichevolmente, in attesa della prima domanda dell’intervista. Non ha bisogno di fogli sottomano, né di libri da presentare: lui stesso è la storia da raccontare. Il vincitore del premio Rising star award 2014 per il cortometraggio “Islam contro Islam: inchiesta di una nuova guerra” è un concentrato di semplicità sorprendente. Dopo quasi dieci anni di speciale “infiltramento” in numerose forze jihadiste, qualsiasi eufemismo ha perso senso per questo giornalista. E il fatto che la semplicità sia uno dei sentimenti che emergono con più prepotenza tra le sue dolci parole né è la prova.
Kamal potrebbe essere ancora in qualche radio qualunque, a parlare di un soggetto qualunque, ascoltato da gente qualunque. Ma dopo otto anni a Radio France International, il signor Redouani ha sentito nell’aria la vera essenza del giornalismo e senza sé e senza ma ha deciso di coglierla. Come? Andando a “lavorare sul campo”, come si dice in gergo, con un equipe tecnica ed una telecamera sempre a portata di mano.
Così, partendo con la testimonianza degli oppositori dell’occupazione americana in Iraq, passando per la caduta del presidente Ben Ali in Tunisia e per il cuore della Primavera Araba, Kamal è approdato nel mondo dei salafisti jihadisti (Credete davvero che si chiamino “fondamentalisti islamici”?) per seguirne passo dopo passo lo sviluppo, fondazione dello Stato Islamico (daech) compresa. Nel suo libro “Inside Daech”, raccoglie tutte le esperienze raccolte fianco a fianco con semplici soldati o comandanti dell’Isis, viste da un punto di vista inusuale e personale.
Perché tutto questo? È la domanda che gli poniamo anche noi in questa famosa intervista, rilasciata espressamente per Sciences Po Tv del campo di Menton. « Per informare, semplicemente. Ho filmato la guerra, la morte, la speranza; ho incrociato talmente tanto odio e sofferenza da averne la mente piena». E allora cosa può mai spingerlo ogni volta a ripartire? Essenzialmente è la stessa domanda che ci porge anche lui: « A cosa possiamo ancora servire, noi giornalisti, quando le azioni più immonde sono rivendicate nel nome di una religione? ».
D’altronde, lo sguardo di Kamal si distingue dalla tipica immagine occidentale del Medio Oriente per la volontà di documentare i dissidi interni di società e paesi dilaniati da contraddizioni e lotte. I musulmani non sono tutti animati dagli stessi sentimenti e i documentari di questo autore offrono una visione profonda e inedita di eventi storici come il post-Gheddafi in Libia e le tensioni alla frontiera tra Turchia e Siria.
Per questo motivo il lavoro di Kamal Redouani continua, « per tutti quelli che hanno perso la vita a Parigi, per i miei colleghi morti sul campo, per l’umanità che esiste ancora in ogni angolo del mondo, anche il più scuro. È compito nostro continuare a fare lo zaino e tornare a porgere il microfono ad esseri umani davanti ai quali si sono spalancate le porte dell’inferno, ma anche agli altri, coloro che considerano che la parola “libertà” sia blasfemia ».
26 Ottobre 2016 | universalMente
Prima superiore. Tema in classe. I volti chini e concentrati su un foglio accogliente. Le idee che si sparpagliano caotiche e riempiono la testa e le ore a disposizione. E poi ci sono io, ad osservare i miei compagni e a descriverli a parole, per dare senso ad un testo che alla fine di «senso non ne ha», come affermerà in seguito la mia professoressa. Eppure, il soggetto era così famigliare e a portata di mano, impossibile da sbagliare! “Il concetto di eroi nel XXI secolo”.
Un soggetto così vasto ed inesplorato da aprire una vera e propria ferrovia nella mia testa, dove i binari scorrevano leggeri tra le caricature di personaggi politici, star musicali e piccoli attori della vita quotidiana: tutti accalcati sulla mia personale locomotiva dell’ “eroicità”.
Eppure, in quel fosco giorno di novembre, un pragmatico e panico senso di gratitudine accompagnò la mia penna stilografica nella descrizione di ognuno dei miei compagni di scuola seduti di fianco a me. Forse per colpa dei primi indecifrabili anni di adolescenza, ma trovavo straordinario il fatto di sentirmi felice in un ambiente completamente nuovo per me, con personalità forti e semplici che mi accoglievano ogni giorno. E così, uno dopo l’altro, il mio foglio diventava una tela in cui ritrarre a parole i miei “piccoli eroi quotidiani” che facevano realmente la differenza per me.
Non si trattava certo di « esseri semidivini ai quali si attribuiscono gesta prodigiose e meriti eccezionali » e nemmeno di qualcuno che « dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie » (Enc. Treccani), tuttavia la sincerità regnava sovrana sulla mia copia di bella, che resi fieramente alla mia professoressa nella totale indifferenza per il voto finale.
Ora, quando ripenso a quell’occasione, la mia mente viaggia attraverso i continenti e le storie raccontate da giornali e da persone straordinarie che incontro ogni giorno, alla ricerca dei “piccoli eroi quotidiani” che seminano coraggio e sorrisi agli angoli del mondo. E nel mio immaginario, mi rendo spettatore di uno spettacolo modesto e senza decoro, dove attori silenziosi non recitano parti prestabilite ma liberano il proprio senso di generosità e umanità davanti ad un pubblico che non applaude, ma impara e condivide.
Medici senza frontiere in ogni parte del mondo, figli senza frontiere con una vita di sacrifici, preti senza frontiere che diffondono i veri valori della fede, associazioni senza frontiere che si battono ogni giorno per i diritti di tutti, studenti senza frontiere senza paura di fronte all’eredità globale lasciata dalle precedenti generazioni. Sarebbero tutti attori validi per mettere in scena questo spettacolo, perfino in paesino come Gorino, sperduto tra le notizie di attualità ed esuberante di gioia per i suoi “quindici minuti di celebrità” alla Andy Warhol.
Là dove le barriere non vengono abbattute, ma costruire intenzionalmente, il concetto di “Eroi nazionali” risulta essere una nota stonata di un musicista in erba (verde) che ha fatto carriera diffondendo la paura di un’orchestra internazionale e senza frontiere, sicuramente di un livello superiore ai suoi ritornelli da flauto di prima media con cui riempie le piazze e i giornali. Eppure, l’accoglienza dovrebbe essere un gesto tanto semplice quanto quelle piccole azioni quotidiane che rendevano i miei compagni di classe i miei personali eroi. Senza addentrarsi in tutte le sfaccettature della parola “integrazione”, senza polemiche di diversità culturale o ceto sociale, senza vanto, senza celebrità, senza giornali.
Ma con tanta umanità.
« Sfortunato il popolo che ha bisogno i eroi. Ma ancora più sfortunato il popolo che ne disperde l’esempio e l’insegnamento » (Bertolt Brecht)