L’integralismo islamico

Già presenti da tempo, soprattutto in Medio Oriente, le correnti integraliste furono rilanciate, negli anni ’80, dagli sviluppi della rivoluzione iraniana e successivamente dalla vittoriosa resistenza all’occupazione sovietica in Afghanistan, dove erano affluiti volontari da molti paesi musulmani. Fra il ’96 e il ’97, gruppi fondamentalisti detti taleban (studenti delle scuole coraniche) assunsero il controllo di buona parte del paese imponendovi un regime di duro e intollerante oscurantismo, basato su una rigida interpretazione della legge islamica: vittime principali furono le donne, a cui fu tra l’altro impedito di lavorare e di frequentare le scuole.

Ma la presenza integralista si fece sentire in forme diverse anche in Stati governati da gruppi dirigenti di matrice nazionalista e laica, come l’Egitto e la stessaTurchia. Qui un partito di ispirazione islamica, il Refah, si affermò nelle elezioni del dicembre ’95, assumendo la guida di un governo di coalizione. L’esperienza si interruppe nel ’97, quando le pressioni dei militari, custodi dei valori kemalisti e garanti dell’occidentalizzazione turca, convinsero i partiti laici a formare una nuova maggioranza, dichiarando fuorilegge il Refah. Ma pochi anni dopo, nel novembre del 2002, si affermò nelle elezioni politiche un altro partito di ispirazione moderata, il partito islamico “Giustizia e Sviluppo” guidato da Recep Tayyip Erdogan. In questo caso il passaggio dei poteri si attuò senza particolari traumi e senza ripercussioni sulla collocazione internazionale della Turchia. Ma queste vicende mettevano in evidenza le contraddizioni di un paese impegnato da molti decenni in una difficile modernizzazione; di uno Stato costretto, per difendere le proprie istituzioni democratiche, a tradirne in qualche misura lo spirito. Un problema, quest’ultimo, evidenziato anche dalla sanguinosa repressione attuata ai danni dei movimenti separatisti curdi e che ebbe non poca parte nel determinare il rifiuto opposto, ancora nel ’97, dall’Unione europea alle richieste turche di adesione.

Ancora più drammatico il caso dell’Algeria, dove, già all’inizio degli anni ’90, l’egemonia dei gruppi dirigenti di matrice laica e militare, organizzati nell’FLN (Fronte di Liberazione Nazionale), risultava logorata, soprattutto a causa del diffuso disagio economico causato dal fallimento di un tentativo di modernizzazione. Tutto ciò porto sulle spalle del paese un imponente debito con l’estero: l’occasione perfetta per aprire larghi spazi alla propaganda dei gruppi fondamentalisti. Nel gennaio del 1992, le prime elezioni libere tenutesi dopo l’intendenza videro la vittoria al primo turno degli integralisti del Fis (Fronte islamico di salvezza). Il governo annullò allora le elezioni, scatenando la reazione dei gruppi islamici.

Questa reazione assunse tratti di particolare ferocia, dal momento che le frange estreme del fondamentalismo, sfuggite probabilmente al controllo della stessa dirigenza del Fis, misero in atto una strategia del terrore a base di massacri indiscriminati fra la popolazione civile: strategia che provocò, fra il ’92 e il ’97, oltre centomila morti, fra cui molte date donne e bambini, e che suscitò orrore in tutto il mondo isolando gli estremisti di fronte all’opinione pubblica algerina. Questi risposero con una dura repressione e cercarono di legittimarsi nuovamente attraverso altre elezioni tenutesi nel 1997, i cui risultati furono però contestati dalle opposizioni. La repressione, peraltro, non riuscì a fermare le stragi, che proseguirono, seppur con minore intensità, anche dopo una iniziativa di pacificazione lanciata nel ’99 dal nuovo presidente della Repubblica Abdelam Bouteflika.

Ma intanto il problema dell’integralismo islamico e delle sue manifestazioni violente ed estreme era esploso ben al di là dei confini dei singoli paesi, profilandosi come un’emergenza internazionale.

(testo di riferimento – Sabbatucci e Vidotto – Il mondo contemporaneo, dal 1894 ad oggi)

Le guerre Arabo-Israeliane (PARTE II): un conflitto senza fine

Nel 1974 l’ONU attribuisce all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) lo status di “garante del popolo palestinese”, e il conseguente diritto ai palestinesi di far valere la propria sovranità con ogni mezzo. Dopo numerose risoluzioni poste in chiave anti-israeliana, l’OLP dichiara la sua volontà di cancellare lo Stato Ebraico, impedendo così ogni possibilità di dialogo tra l’establishment israeliano e il leader dell’OLP Yasser Arafat.

Nel settembre del 1982 l’esercito d’Israele non ferma un gruppo di maroniti libanesi, lasciandolo libero di massacrare indisturbato la popolazione palestinese dei campi profughi di Sabra e Shatila (quartieri di Beirut sotto il controllo militare d’Israele). Muoiono 700 civili indifesi e la reputazione dello Stato di Israele è macchiata indelebilmente.

Seguono anni burrascosi e nel 1988 il movimento integralista palestinese HAMAS dichiara il Jihad contro Israele, dando inizio alla Prima Intifada.

Lo scenario sembra distendersi solo nel 1993 con gli accordi di Oslo in cui Arafat, a nome del popolo palestinese, riconosce lo Stato Ebraico accettando il metodo del negoziato, rinunciando all’uso della violenza e impegnandosi a modificare lo stesso Statuto dell’OLP in tal senso. Parallelamente, il Primo Ministro israeliano Rabin riconosce l’OLP come rappresentate del popolo palestinese.

La pace dura poco in quanto Israele, nel 1994, contravvenendo ai precedenti accordi, inizia la costruzione del muro di separazione con la Palestina, sostenendone l’utilità contro gli attacchi kamikaze palestinesi. L’ONU nello stesso anno dichiara illegale la barriera in quanto aperta violazione dei diritti umani. Come riportato dal primo rapporto sul muro di Gaza, stilato da parte delle Nazioni Unite,«il tracciato del Muro corrisponde ad un’annessione de facto di territorio palestinese, e costituisce una misura sproporzionata rispetto alle legittime esigenze di autodifesa di Israele, peggiorando ulteriormente le condizioni di vita dei Palestinesi».

Il 1995 vede la firma della seconda parte degli Accordi di Oslo, con la nascita dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e della polizia palestinese. Il 4 novembre dello stesso anno Rabin viene assassinato da un estremista conservatore israeliano e al posto di Primo Ministro subentra Ruben Peres. Gli scontri e gli attentati continuano anche quando dalle successive elezioni viene eletto come Primo Ministro Benjamin Netanyahu.

Nel 1997 in attuazione degli Accordi, Israele si ritira dai territori palestinesi occupati e il 95% della popolazione palestinese si ritrova sotto il controllo dell’ANP. Netanyahu non rispetta però gli accordi per quanto riguarda la politica di insediamento di coloni israeliani nei Territori Occupati, favorendo uno stato di continua tensione.

Ehud Barak viene eletto Primo Ministro nel 1999; egli continuerà il processo di pace con Siria e Palestina, ma questo comporterà le sue dimissioni nel 2000: Ariel Sharon diviene capo del governo. Sharon dichiara subito che non continuerà le trattative con Arafat, in quando uomo non più in grado di esercitare alcun controllo sui gruppi terroristici palestinesi, segnando l’inizio di una nuova escalation di violenze che prenderà il nome di Seconda Intifada.

Arafat muore nel 2004 e gli succede Abu Mazen come Primo Ministro palestinese.

Israele adotta, nel 2005, il Piano di Disimpegno Unilaterale, e abbandona tutte le proprie colonie nella Striscia di Gaza. Il partito palestinese di Al-Fatah si ritrova così a governare sull’intera regione. Israele continua comunque a controllare la Striscia di Gaza dal cielo e dal mare, insieme alla maggior parte degli accessi via terra.

Per l’ONU, quindi, la Striscia di Gaza resta territorio occupato e lo Stato Ebraico, limitando agli abitanti di Gaza la possibilità di pescare, ne aumenta la disoccupazione e la fame, contribuendo a rendere i palestinesi dipendenti dall’aiuto umanitario.

Nel 2006 Ariel Sharon entra in coma per emorragia cerebrale e la sua carica viene assunta da Ehud Olmert.

Dopo quasi 2 anni di controllo da parte di Al-Fatah, in Palestina vengono indette nuove elezioni, vinte dal partito integralista Hamas.

Gli USA e l’Unione Europea, nel 2007, condannano Hamas come organizzazione terroristica, imponendo alla Palestina un boicottaggio generale del partito, congelando tutti i fondi al governo palestinese e interrompendo l’invio di aiuti umanitari nella Striscia. Inizia contestualmente una nuova fase del conflitto tra Hamas ed Israele che vede, da parte israeliana, un embargo verso la Striscia, e da parte palestinese il lancio di razzi e tiri di mortaio contro installazioni e città israeliane.

Il 27 settembre del 2008 Israele lancia la prima grande offensiva a Gaza, con l’operazione Piombo Fuso, i cui effetti sono evidenti ancora oggi.

Siamo giunti così alla fine della Storia e all’inizio della cronaca recente, che continua a segnare implacabile le stesse dinamiche di tensione e conflitto. E’ inutile ormai parlare di buoni contro cattivi, le radici del conflitto Arabo-Israeliano sono troppo profonde per essere risolte facilmente in modo semplicistico. Bisogna comunque rimanere fiduciosi che un giorno, la Terra Santa, potrà dirsi “santa” per davvero. Perché sta scritto nella ciclicità della Storia Umana, che ad ogni periodo di conflitto, segue sempre un periodo di pace.

ORDEM ET PROGRESSO

La tendenza all’apertura e all’integrazione di aree economiche al di là dei confini fra Stati nazionali non è stato soltanto un fenomeno europeo. Infatti nel 1992 Stati Uniti, Canada e Messico siglarono il NAFTA (North American Free Trade Agreement), mentre nel 1991 Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay diedero vita al Mercosud (Mercato Comune del Sud), uno spazio commerciale comune che avrebbe presto inglobato Cile e Bolivia, generando effetti positivi sulle esportazioni dei paesi aderenti.

In America Latina l’integrazione e lo sviluppo furono però frenati dalla cronica instabilità delle economie. Negli anni ’90 del ‘900 si ebbe un ritorno della democrazia, ma anche dell’inflazione e della crescita del debito estero. La situazione sembrò stabilizzarsi durante il decennio, partendo dai paesi più grandi e popolosi del continente. In Argentina il governo di ispirazione peronista guidato da Meném varò, contraddicendo le sue stesse basi ideologiche, una serie di ordinanze atte a garantire un energico risanamento finanziario. In Brasile la situazione si stabilizzò con la creazione di una nuova moneta, il Real, sotto la presidenza del socialdemocratico Fernando Cardoso, mentre il Cile diede un nuovo impulso alla crescita avviata sotto il regime di Pinochet, basato su una notevole apertura agli investimenti stranieri.

Anche il Messico si trovò protagonista di un’inaspettata quanto fragile crescita, avviata sulle premesse cilene. La fragilità venne messa a nudo quando, a cavallo tra il 1994 e il 1995, scoppiò una grave crisi finanziaria che portò alla nascita di un movimento di guerriglia detto “zapatista” (prese il nome di Emilio Zapata, eroe della rivoluzione messicana), animato dalle compagini più povere degli Indios stanziati nella poverissima regione del Chiapas.

Per i gradi paesi del Sud America (Brasile e Argentina), a partire dal 1998, si profilò una nuova crisi. Le cause di essa furono essenzialmente due: da un lato l’attenuarsi delle misure di austerità e il ritorno a politiche di spesa facile (il caso dell’Argentina alla fine del secondo mandato di Meném), dall’altro le difficoltà del sistema finanziario internazionale (rispetto al quale i paesi in questione erano fortemente indebitati) in seguito al dissolvimento delle Repubbliche socialiste sovietiche e soprattutto all’insolvenza della Russia. In Brasile gli effetti della crisi non furono così disastrosi, poiché il paese assorbì senza troppi traumi il passaggio dei poteri che si verificò nell’ottobre del 2002, con l’elezione a Presidente della Repubblica di Inàcio Lula da Silva, ex-operaio sindacalista leader del Partito dei lavoratori. La terra d’Argentina, dove i peronisti nel 1999 avevano scalzato i radicali di Fernando de la Rua, si inabissò invece in una gravissima crisi finanziaria. La scelta già attuata dal governo Meném di scongiurare l’inflazione ancorando la moneta nazionale al dollaro, finì con il frenare le esportazioni e col rendere impossibile il pagamento del debito estero. La crisi raggiunse il suo culmine nel 2001, quando il governo bloccò i depositi bancari, facendo scoppiare una violenta protesta popolare che costrinse De la Rua ad abbandonare la presidenza. Dopo un periodo di interregno molto caotico si ebbe una parziale stabilizzazione con le elezioni del 2003 che videro la vittoria del peronista Nestor Kirchner. Al contrario del passato, la crisi economica non compromise la tenuta delle istituzioni democratiche. Al contrario, si consolidò la tendenza alla stabilizzazione di quest’ultime, seppur in presenza di scontri per il potere drammatici e la sempre maggior vitalità dei movimenti populisti.

Tipicamente populista fu la spinta che portò al potere in Venezuela l’ex generale Hugo Chavez (coinvolto pochi anni prima in un colpo di Stato fallito) che consentì, l’anno seguente, l’approvazione mediante referendum di una nuova costituzione che rafforzava i poteri del Presidente della Repubblica, invano contestata dalle forze di opposizione che cercarono più volte di deporlo. Sviluppi contrari si videro invece in Perù, dove nel 2000 il presidente Fujimori venne deposto dal Parlamento e fu costretto a fuggire all’estero per non per non essere catturato. Le seguenti elezioni del 2001 videro la vittoria del progressista Alejandro Toledo, che aprì il paese agli investimenti stranieri, mentre un altro rivolgimento pacifico di portata storica si verificò in Messico, dove le elezioni del 2000 interruppero il dominio del Partito rivoluzionario istituzionale, che durava da più di settant’anni. A vincere fu il conservatore Vincente Fox, che esordì con alcune misure volte a combattere la corruzione e a risolvere la crisi del Chiapas con la concessione di maggiori autonomie agli Indios.

Le guerre Arabo-Israeliane

Per guerre Arabo-israeliane si intendono quei conflitti che videro il contrapporsi di due schieramenti. Le popolazioni arabe da una parte e gli israeliani dall’altra. Questa serie di conflitti copriranno un arco temporale che va dal 1948 al 1973 sconvolgendo lo scacchiere internazionale, con molte ripercussioni sulla nostra storia recente.

II primo di questi conflitti nacque dal rifiuto della popolazione araba di accettare la spartizione della Palestina decisa dalle nazioni unite con la risoluzione del 29 novembre 1947. Il 15 maggio 1948, esattamente il giorno dopo la proclamazione dell’indipendenza israeliana, le forze armate di Iraq, Libano, Siria, Egitto e Transgiordania invasero lo Stato Ebraico, venendo respinte. Le neonate forze armate d’Israele, dimostrandosi efficienti e tecnologicamente superiori al nemico, riuscirono ad invadere la penisola del Sinai mettendo fine alle ostilità. La tregua del luglio 1948 permise ad Israele di appropriarsi della Galilea orientale, del Negev e di una sottile striscia di territorio fino a Gerusalemme che occupò per metà. In seguito, nel 1949 vennero siglati una serie di armistizi separati tra Israele e l’Egitto, la Siria, Giordania e il Libano.

II secondo conflitto ebbe come causa scatenante la nazionalizzazione del Canale di Suez voluta dal presidente Egiziano Nasser il 26 luglio del 1956. L’esercito israeliano, sfruttando la difficile situazione internazionale generata dalla decisione del presidente Nasser, compi tra il 29 ottobre e il 5 novembre di quell’anno una veloce avanzata nel Sinai fino al Canale. Il contrasto si complicò ulteriormente con l’ingresso nella guerra della Francia e del Regno Unito. Le due potenze europee vedevano infatti i loro interessi colpiti dalla nazionalizzazione di Suez. Il loro intervento fu duramente condannato dall’ONU. soprattutto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Le Nazioni Unite, al termine delle ostilità, inviarono un corpo di spedizione costringendo le forze anglo-francesi e israeliane di ritirarsi. Allo Stato Ebraico veniva tuttavia riconosciuto il diritto di accedere, per fini commerciali, al porto di Elat sul Golfo di Aqabah.

Il terzo iniziò quando Nasser, nel maggio del 1967, chiese il ritiro dei contingenti dell’ONU dalla frontiera del Sinai. Non trovando risposta decise di bloccare gli stretti di Tîran impedendo il traffico navale nel Golfo di Aqbah. Dal 5 al 10 giugno del 1967, durante quella che prenderà il nome di Guerra dei Sei Giorni, l’esercito israeliano dispiegò la sua intera aviazione distruggendo quasi totalmente le forze aeree egiziane. La fanteria israeliana invece occupò Gaza, il Sinai, la Cisgiordania, la parte araba di Gerusalemme e gli altopiani del Golan. La Guerra dei Sei Giorni si concluse con l’importantissima risoluzione 242 (databile il 22 novembre 1967) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Da questa risoluzione avrebbero fatto riferimento tutti i successivi tentativi di pace nella regione.

L’ultimo dei conflitti si originò il 6 novembre 1973, giorno in cui l’Egitto e la Siria sferrarono un attacco coordinato contro Israele durante la festa dello Yom Kippur, festività di cui la guerra prenderà il nome. La controffensiva israeliana fu di nuovo efficace e portò alla fine delle ostilità sancite dalla risoluzione 338 del 22 ottobre 1973. Con la risoluzione in questione il Consiglio di Sicurezza riuscì ad ottenere degli accordi di disimpegno fra Israele, Egitto e Siria, che garantirono la riapertura del Canale di Suez, rimasto chiuso dopo la guerra dei Sei Giorni.

Successivamente la pace separata tra Egitto e Israele del 1979 e l’invasione del Libano da parte dello Stato Ebraico, modificarono sostanzialmente il conflitto arabo-israeliano. Esso entrò in una nuova fase, con tensioni localizzate sul fronte siro-libanese e nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967, senza più registrare momenti di scontro generalizzato. Ma tutto questo, si vedrà nel terzo e ultimo capitolo.

Israele e Palestina, le radici del conflitto

A partire dal 1880, in pieno declino ottomano, a causa delle persecuzioni ebraiche durante i Pogrom nell’est Europa, alcuni ebrei stanziati nel continente iniziarono a creare colonie in quella che oggi conosciamo come Palestina. Questi gruppi, sotto la spinta idealista del pensiero di Theodor Herzl, posero le basi per quello che in futuro prenderà il nome di Movimento Sionista, movimento che aveva a cuore la creazione di uno stato ebraico nella terra che aveva visto la nascita del loro credo, la Terra Santa.
I notabili arabo-palestinesi, preoccupati per il sempre maggior numero di coloni ebrei, nel 1891 scrissero al Gran Visir di Istanbul affinché proibisse le immigrazioni sioniste. Questi si adoperò per la causa araba ma le pressioni Inglesi e Francesi lo costrinsero a ritirare il blocco migratorio.
Al 1914, ovvero all’inizio della Prima guerra mondiale, gli immigrati ebrei europei ammontavano a 85.000, più o meno il 9% della popolazione, mentre gli arabi musulmani e cristiani erano circa 500.000, più una parte di ebrei ottomani che da tempo vivevano nella zona ed erano perfettamente integrati. Durante la Prima Guerra Mondiale la Gran Bretagna promise agli arabi, e in particolare allo Sharif Hussein, la creazione di un solo grande stato arabo in cambio del loro aiuto contro gli ottomani. Ma nel 1916, segretamente, le potenze europee alleate siglarono gli accordi Sykes-Picot, essi prevedevano la spartizione dell’Impero Ottomano in grandi zone d’influenza, rispettivamente sotto il controllo di Francia e Inghilterra. Nell’accordo in questione la Palestina sarebbe dovuta rimanere suolo internazionale sotto il controllo di tutti e due gli attori, se non fosse stato per i britannici e le loro mire espansionistiche sul canale di Suez. Il possesso del canale infatti avrebbe permesso di mantenere sicuri i commerci con l’India e così, per aumentare la propria influenza nella zona, incentivarono la colonizzazione sionista nella zona, naturalmente il tutto a scapito della popolazione araba. Nel 1917, dopo aver promesso agli arabo-palestinesi la libertà di formare governi propri, il ministro degli esteri britannico Arthur Balfour mostrò i piani del governo inglese enunciando la celebre dichiarazione che porta il suo nome. Con la suddetta dichiarazione riconosceva agli ebrei europei il diritto di costruire un proprio stato in Palestina, in netta contraddizione con le garanzie di autodeterminazione date precedentemente agli arabi durante il primo conflitto mondiale. I sionisti più radicali, attraverso il loro leader Chaim Weizmann, nel 1919 rivendicarono il diritto, su basi bibliche, degli ebrei di colonizzare la Terra di Israele (Eretz Yisrael). Ciò significava che la colonizzazione non avrebbe avuto solo la Palestina come riferimento geografico ma avrebbe coinvolto anche molti dei territori ad essa esterni. Sempre in questo anno abbiamo il primo appello palestinese alle potenze europee, con la richiesta della creazione di una Monarchia Costituzionale Democratica per salvaguardare la libertà delle minoranze etniche e religiose. Il 1920 vide la ratifica del trattato di Sèvres, nel quale i vincitori del primo conflitto mondiale si divisero l’Impero Ottomano sconfitto. Naturalmente con varie spartizioni la Siria andò alla Francia e la Palestina alla Gran Bretagna nella quale il governo britannico istituì la Jewish Agency per promuovere l’economia israeliana. I palestinesi rimasero pressoché esclusi e il loro potere economico divenne sempre più gregario di quella ebraico. Per gli arabi divenne sempre più chiaro che riconoscere il Mandato inglese significava riconoscere la legittimità degli insediamenti sionisti. I notabili, in assenza di un’associazione come la Jewish Agency, si rifiutarono per tutto il dominio inglese di partecipare all’amministrazione terriera, ottenendo però il risultato di autoescludersi definitivamente dalla spartizione delle zone di influenza.
Pubblicamente gli intenti dei sionisti erano quelli di trovare un’armonia nella convivenza con gli arabi, ma le dichiarazioni dei leader della neonata Organizzazione Sionista confermarono i peggiori sospetti dei palestinesi. Infatti il Dott. Eder nel 1921 dichiarò, “Ci sarà solo una nazione in Palestina, ed sarà quella ebraica. Non ci sarà eguaglianza fra ebrei e arabi, ma vi sarà la predominanza ebraica appena i numeri demografici ce lo permetteranno”.
Sempre in quell’anno a Jaffa esplose il primo conflitto armato tra le due compagini con 200 morti ebrei e 120 arabi, a cui il leader sionista Ben Gurion rispose iniziando ad organizzare la difesa dei territori colonizzati dagli ebrei. Nel 1929 gli arabi organizzarono una sortita al Muro del Pianto a causa del blocco ebraico di due zone sacre musulmane molto vicine ad esso, l’Haram al Sharif e la moschea Al Aqsa.
La violenza araba aveva però un’altra causa. I sionisti, attraverso il Jewish National Fund, continuarono a comprare le terre palestinesi da proprietari arabi non residenti, espellendo i contadini arabi che non avevano più nessuna voce in capitolo. Le terre acquistate vennero dichiarate suolo ebraico, sulle quali solo gli ebrei potevano lavorare, e questo deteriorò i già precari equilibri. Equilibri che saltarono ufficialmente con la presa del potere di Adolf Hitler e dei fascismi in generale, esperienze negative che potarono alla fuga di migliaia di giudei dall’Europa facendo, nel 1940, arrivare la popolazione ebraica in Palestina al 33%. Gli anni successivi videro l’acuirsi delle tensioni fino al 1948, l’anno dello scoppio del primo dei grandi conflitti che ridisegneranno per sempre lo scacchiere politico internazionale, la guerra arabo-israeliana. Ma tutto questo lo vedrete nel prossimo articolo.

Bibliografia di riferimento a cura di Francesco Regolo

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