10 Febbraio 2017 | Lo sguardo letterario
Gente in Aspromonte è il libro più ricordato di uno scrittore oggi immeritatamente tra i più dimenticati: Corrado Alvaro. Ad essere più precisi, Gente in Aspromonte è una raccolta di novelle in cui l’autore ripercorre, con l’ausilio della memoria, l’infanzia trascorsa a San Luca, un piccolo paese in provincia di Reggio Calabria. Da questo scavo nel passato risulta non un’autobiografia, bensì una serie di racconti, crudi, oggettivi, sulla vita degli abitanti dell’Aspromonte e sul mondo rurale in sé, con le sue tradizioni, la sua arretratezza e in particolare i suoi rapporti di potere: Alvaro guarda senza diaframmi la dura realtà degli oppressi, con l’occhio del romanziere e giornalista vocato al realismo e sempre attento ai problemi che attanagliano il mondo.
«Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque», comincia a raccontare l’autore nella novella eponima che apre la raccolta. E non è, infatti, bella la vita di Argirò, pastore aspromontano e padre di quattro figli, che deve fare i conti, in un braccio di ferro spietato, con la sventura. Quelli come lui vivono in montagna, in case di frasche e di fango e si stupiscono quando, scendendo in città, scorgono case di muri. Quelli come lui devono ogni giorno tribolare per affrontare le asperità della vita, la ferocia dei potenti e dare da mangiare alla propria famiglia. Ma i tormenti sembrano non aver fine: prima Argirò viene licenziato da Filippo Mezzatesta, uno degli impietosi proprietari terrieri dell’Aspromonte; poi il torrente manda all’aria il suo raccolto. La famiglia del pastore è costretta, così, a un nuovo giro di vite: la moglie deve trovare impiego come domestica e il figlio Antonello viene mandato in città a lavorare, mentre Argirò percorre ogni giorno venti chilometri a piedi per fare servizio di trasporto tra il paese e il mare.
In questa catena di disgrazie, la nascita del figlio Benedetto si carica, per la famiglia, di grandi aspettative. Benedetto, difatti, si scopre da subito molto sveglio e veloce nell’apprendimento e Argirò decide di stringere ancora i denti e farlo studiare in seminario, perché possa in futuro riscattare la famiglia. Il vero protagonista della novella, però, non è Argirò, e nemmeno Benedetto. È Antonello, che, al pari di Agostino nella Malora di Beppe Fenoglio, deve vivere un’esistenza sacrificata e insapore come il pane e l’acqua di cui solo si nutre per supportare la famiglia e permettere al fratello più brillante di prendere i voti. Deve perfino rinunciare all’amore: «non ti invischiare, non t’innamorare, altrimenti siamo perduti» lo avverto il padre. Sarà proprio Antonello a insorgere, mettendo in atto una degna vendetta per liberare i compaesani dalla piaga-Mezzatesta.
Questa è una delle tredici storie condite di miseria e sopraffazione che Alvaro racconta, non senza una certa dose di moralismo, per far sentire la voce degli oppressi e fornire la testimonianza diretta di una terra in cui, all’inizio del Novecento, la modernità non è ancora riuscita a fare capolino. Scrive della Calabria nonostante la lontananza fisica dalla regione del sud Italia; torna col pensiero a San Luca anche dopo essere emigrato a Milano e aver viaggiato in Francia e Germania. Ma questo non deve stupire: come insegna Pavese «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (C. Pavese, La luna e i falò).
5 Dicembre 2016 | Lo sguardo letterario
Un nome di donna spicca all’interno di una letteratura quasi di monopolio maschile quale quella italiana. Il nome è Elsa, il cognome Morante. Segni particolari? Grandissima capacità affabulatoria, per merito della quale sono nate vere e proprie pietre miliari della narrativa del Novecento come Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo e La storia.
Elsa Morante nasce a Roma e qui muove i suoi primi passi da scrittrice. Sempre nella capitale, conosce lo scrittore e futuro marito Alberto Moravia e frequenta i più importanti ambienti intellettuali. Sebbene profondamente immersa nella città natia, l’autrice legò il suo nome anche a un altro affascinante luogo: Procida, un’isola tutta limoni e colori che contorna Napoli.
È il 1955 quando dalla penna di Elsa, nel giardino dell’Albergo Eldorado di Procida, nasce L’isola di Arturo, che Asor Rosa considera il suo risultato più alto e poetico e che, nel 1957, vince il Premio Strega. Procida è il palcoscenico su cui si muovono i personaggi del libro, ma non rimane un semplice sfondo: acquista un ruolo di rilievo per il significato che assume per il protagonista e narratore, Arturo Gerace. Arturo, orfano di madre e quasi abbandonato dal padre giramondo, vede nello spazio chiuso e ben delimitato dell’isola una sorta di grembo materno in cui rifugiarsi. Questo si comprende fin dalle prime pagine, in cui il narratore, dopo essersi presentato, dedica un capitoletto intero alla sua isola: disegna le strade, il porto, le botteghe, la chiesa, parla del penitenziario – nota triste e dissonante in questa musica festosa che è Procida – e della sua abitazione, la Casa dei Guaglioni. La descrizione è particolareggiata ed estremamente realistica e la vita sull’isola corrisponde all’infanzia e adolescenza di Arturo, trascorse in assoluta serenità: «La felicità per me era sempre stata una compagna naturale del mio sangue», conferma la voce narrante.
Arturo vive in uno stato di robinsonismo selvaggio: «Avrei voluto, con questo libro, scrivere una storia che somigli un poco in certe cose a Robinson Crusoe, cioè la storia di un ragazzo che scopre per la prima volta tutte le cose più grandi, più belle e anche quelle brutte della vita» dichiara la Morante (in un’intervista che compare all’interno del documentario di Francesca Comencini). Egli è in sintonia con la natura e totalmente ostile nei confronti delle donne, eccezion fatta per la sua cagna Immacolatella: «esse mi parevano figure goffe, quasi informi. Erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte […] certo io non mi sarei mai innamorato di una di loro, e non volevo sposare nessuna». Le uniche figure femminili che lo interessano sono quelle «regali e stupende» delle sue letture, ma è convinto che siano una mera invenzione libresca. Tale misoginia è un tratto ereditato dal padre, Wilhelm Gerace, che Arturo eleva ad eroe: «La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l’assoluto regnante! Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza, ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane». Se si considera il romanzo un sistema di pianeti, Arturo è un satellite che orbita attorno al padre, mentre Wilhelm è attratto da un altro personaggiopianeta, il carcerato Tonino Stella. Astro a parte è invece Nunziatella, il terzo elemento che mette in crisi l’equilibrio creatosi tra Arturo e il padre, incrinando definitivamente anche l’adolescenza del protagonista: il tre non è mai un numero felice, come ci insegna Le affinità elettive.
Nunziatella entra nella Casa dei Guaglioni in qualità di giovanissima sposa del padre, ma anche lei è totalmente trascurata da Wilhelm. Inizialmente, come in una sorta di strambo teatrino edipico, Arturo è avverso a Nunziatella perché viene a inserirsi tra lui e il padre e perché, facendo entrare una donna nella loro casa, Wilhelm va contro alla misoginia che il figlio condivide con lui. Ma l’avversione iniziale si tramuta in amore: Arturo arriva a dichiararsi a Nunziatella e a perdere quella serenità che aveva caratterizzato la sua vita fino al suo arrivo. Tenta addirittura di compiere un gesto disperato quale il suicidio, che, per fortuna, non va in porto. Alla fine, Arturo è costretto ad abbandonare la sua isola felice – ormai non più tale -, ovvero l’adolescenza, per salpare verso l’età della coscienza e della maturità: il romanzo si chiude con Procida che si nasconde alla vista del ragazzo, mentre lui e il balio Silvestro si stanno allontanando in nave.
L’isola di Arturo è dunque un Bildungsroman, un romanzo di formazione, in cui sono innestati alcuni motivi fiabeschi. Il protagonista, infatti, affronta una serie di prove iniziatiche, molte legate alla sua prima pulsione amorosa, che lo traghettano verso la maturità; inoltre, come rileva Giovanna Rosa (G. Rosa, Elsa Morante), sono presenti nella narrazione alcuni oggetti-amuleti che scandiscono l’avventura iniziatica di Arturo: l’orologio del padre, l’anello di Silvestro, gli orecchini di Nunziatella. Anche Procida, seppure isola reale ed evocata con dovizia di particolari realistici, assume le fattezze di un luogo fantastico e mitico: «Nelle figurazioni dei miti eroici, l’isola rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la tentazione delle terre ignote. L’isola, dunque, è il punto di una scelta: e a tale scelta finale, attraverso le varie prove necessarie, si prepara qui nella sua isola l’eroe-ragazzo Arturo» (E. Morante, quarta di copertina della riedizione negli Struzzi del ‘75).
Insomma, l’astuzia della Morante è consistita nel prendere un luogo concreto e vestirlo di caratteristiche simboliche, per farne la concretizzazione della ridente giovinezza che il protagonista deve salutare.
5 Novembre 2016 | Lo sguardo letterario
Senza il contributo offerto dagli autori liguri, la letteratura italiana risulterebbe mutila e significativamente più povera. La Liguria, infatti, ha visto un cospicuo proliferare di autori, specie nel XX secolo: è la regione natìa del mostro sacro del Novecento italiano Eugenio Montale, del poeta crepuscolare Sbarbaro, di Sanguineti e, volgendo lo sguardo alla stretta contemporaneità, di Umberto Fiori.
Uno scrittore il cui nome è indissolubilmente legato al capoluogo ligure, Genova, è Giorgio Caproni. L’autore, nato a Livorno ma genovese per adozione, ha esordito nel primo Novecento e la sua produzione è perdurata fino agli anni Ottanta. La critica lo considera un antinovecentista, ovvero un poeta che non è possibile inquadrare in quelle che erano le due mode poetiche degli anni a mezzo tra le due guerre mondiali, la linea montaliana e l’Ermetismo, ma che ha percorso una strada tutta sua. Proprio per questa natura di outsider la sua storia poetica è rimasta a lungo, utilizzando un’espressione di Pier Vincenzo Mengaldo, «subacquea». Ma la produzione di Caproni è tutt’altro che di second’ordine, e Mondadori, che l’ha ben compreso, l’ha pubblicata nella collana I Meridiani, in cui figurano i più grandi nomi della letteratura italiana ed estera.
Per addentrarsi nelle liriche caproniane è necessario ricorrere a una dichiarazione dell’autore che è stata eletta a caposaldo della sua poetica: «Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri». L’adesione al quotidiano è, dunque, irrinunciabile
per scrivere versi, secondo Caproni. Non sono, però, solo bicchieri e stringhe ad essere ospitati nelle sue poesie: anche la funicolare, gli spaghetti, le biciclette acquistano dignità poetica ed entrano, come parte della quotidianità, di diritto nella sua opera. Perfino le sue due muse, la madre Annina e la moglie Rina, sono “in ciabatte”, colte cioè nel loro tran tran quotidiano e quindi inevitabilmente lontane dalle donne della tradizione, dalle Beatrici e dalle Laure. Oltre ad oggetti e persone della routine del poeta, prendono posto nelle sue composizioni anche luoghi come latterie, bar, e, immancabilmente, Genova.
Gli anni genovesi (1922-1933) sono decisivi per la formazione del poeta, nonché dell’uomo, e l’autore stesso confida: «La città più mia è, forse, Genova. Là sono uscito dall’infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato […] ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi». Là, inoltre, il giovane Caproni intraprende i suoi studi di violinista, poi interrotti nel momento in cui realizza di essere vocato alla poesia. Le liriche che da qui in poi compone sono spesso
un tributo alla città che l’ha introdotto al mestiere di scrivere. Litania (Il passaggio di Enea), in particolare, consente di scandagliare il sentire che lo legava alla sua città adottiva. I versi, fedeli alla poetica del quotidiano, abbracciano la realtà nella sua interezza e mostrano un’ampia gamma di oggetti, toponimi, autori liguri e sentimenti. Ne risulta un rapporto controverso con la città: Genova è «delizia» ma anche «croce», è «fidanzata» e subito dopo «bagascia». È «mercantile, / industriale, civile», ma anche marina e solare. Il ritmo piatto, da litania, contrasta con lo shock che i versi provocano nel lettore, sia per le parole impoetiche che contengono, sia per il continuo contraddirsi dell’autore. In questa Genova camaleontica tutto è possibile, anche arrivare tranquillamente in paradiso. Ne L’Ascensore (Il terzo libro e altre cose), infatti, il poeta immagina di poter prendere l’ascensore di Castelletto per salire in cielo ed incontrare Annina, la madre morta. L’incontro è desublimato, già a partire dal mezzo che permette l’ascesa, un normalissimo ascensore pubblico che connette una piazza di Genova al belvedere del quartiere Castelletto (ora, all’ingresso, per ricordare la poesia, è stata affissa una targa che riporta alcuni versi de L’Ascensore).
Infine, una tappa obbligatoria per chi volesse fare un tour nei luoghi di Caproni è Piazza Bandiera, con la statua di Enea che sorregge Anchise e Ascanio. Il titolo della raccolta Il passaggio di Enea è ispirato proprio alla storia del monumento, che, prima di venire collocato in Piazza Bandiera, ha fatto il giro delle piazze genovesi. La statua di Enea, rimasta integra nonostante gli spostamenti e le guerre, diventa per l’autore il simbolo dell’uomo che, nonostante tutto, resiste al tempo. Dell’uomo che, nel secondo dopoguerra, davanti alle macerie è «veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso d’una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre questa non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento».
5 Ottobre 2016 | Lo sguardo letterario
Napoli è una città che disorienta per la sua eterogeneità. Il senso che domina il forestiero che non la conosce e la visita per la prima volta è quello di un profondo sperdimento: «sapere “dove si è ”non è certo facile a Napoli», scrive Raffaele La Capria (R. La Capria, L’occhio di Napoli, in Opere, Mondadori, p. 946). È impossibile, infatti, indovinare cosa si staglierà appena voltato l’angolo, durante una passeggiata, ma ogni passo permetterà di conoscere una nuova, diversa anima della città: dal suo cuore più verace, il centro storico, un reticolato di vie strette e gremite di cornetti per scacciare il malocchio, alle strade ariose e moderne della zona Chiaia, che ricordano di più Torino o Milano. E poi dal barocco della Chiesa del Gesù Nuovo, alle colorate maioliche del Monastero di Santa Chiara, passando per gli imponenti Maschio Angioino e Castel dell’Ovo, affacciati sul mare. Napoli è perfetta per chi ama la storia antica, con le rovine romane di Pompei ed Ercolano alle pendici del Vesuvio, ma anche per chi vuole godersi il mare, dalla esclusiva Capri alla meno frequentata Procida.
Immancabilmente, la città si presta anche per chi vuole fare una bella passeggiata nei luoghi della letteratura italiana. Molti, infatti, sono gli autori che hanno raccontato il capoluogo campano e che hanno
contribuito a fornire ulteriori prospettive da cui ammirarlo e interpretarlo, da Boccaccio, a Leopardi – sepolto, insieme a Virgilio, proprio a Napoli, all’interno del Parco Vergiliano – alla più contemporanea e
misteriosa Elena Ferrante. Nel novero degli scrittori napoletani rientra anche Raffaele La Capria, vincitore sia di numerosi premi alla carriera (Premio Campiello, Premio Chiara, Alabarda d’Oro, Brancati), sia, nel 1961, del Premio Strega con il suo più celebre romanzo Ferito a morte. La città è una parte consistente della sua narrativa e il rapporto che lo scrittore ha con essa è tormentato. Da un lato, La Capria ama il posto in cui è nato, soprattutto per il mare, onnipresente nei suoi libri, dall’altro ne rimane invischiato ed esso lo paralizza: «la mattina mi svegliavo col desiderio di intraprendere qualcosa, qualsiasi pur minima cosa rassomigliante a un lavoro, e sapevo che non avrei potuto far altro che girovagare per le strade della città senza concludere nulla» spiega ne L’occhio di Napoli. Perciò decide di lasciare Napoli e andare altrove, prima a Parigi, poi a Londra, poi ancora a Roma. Lo stesso accade a Massimo De Luca, protagonista di Ferito a morte e alter ego di La Capria, che, risucchiato dalla borghesia napoletana, è incapace di fare davvero qualcosa di diverso dall’errare tra un Circolo e un bar e, quindi, parte per Roma.
Importante è il punto di vista privilegiato da cui, nella giovinezza, l’autore ha potuto osservare e vivere la città: palazzo Donn’Anna, edificio simbolo del barocco napoletano che affaccia direttamente sul mare della borghese riviera di Posillipo. Il palazzo venne fatto costruire nel XVII secolo dal viceré di Napoli e duca di Medina don Ramiro Guzman per la moglie napoletana Anna Carafa. Donn’Anna, però, morì e la costruzione è rimasta ancora oggi incompiuta. L’autore abitò nello splendido edificio negli anni Trenta ed esso è lo scenario di molte pagine principali dei suoi romanzi. In Ferito a morte, ad esempio, per Massimo De Luca Palazzo donn’Anna diviene il simbolo della dicotomia tra Storia e Natura: la Storia è ciò di cui è artefice l’uomo, quindi l’edificio stesso, mentre la Natura, eterna nemesi della Storia, fa sì che il palazzo si avvii verso il declino, per mezzo del fenomeno denominato “bradisismo”. Il dualismo Storia – Natura è caratteristico dei libri dello scrittore e può essere considerato una modalità di comprensione di Napoli. Anche Gaetano, altro personaggio cardinale di Ferito a morte, ad esempio, propone un’opposizione tra Napoli, intesa come Foresta Vergine – quindi Natura – e Storia. Per spiegare meglio questo dualismo, ne L’occhio di Napoli l’autore ricorre alle Lettere Luterane di Pasolini: «Non è vero che comunque si vada avanti. Anzi assai spesso le società regrediscono o peggiorano» dice Pasolini a Gennariello, avvertendolo di non credere nella Storia e nel progresso.
Napoli è, appunto, un esempio magistrale di come la modernità possa essere una «mezza modernità», un «falso progresso», di come essa possa subire una battuta d’arresto, se minacciata dalla Natura. Natura che è da intendersi anche come natura umana, o meglio, napoletana. Infatti, anche la mentalità napoletana, secondo La Capria, concorre a rendere immobile la città e a impedirle di progredire per davvero: l’insistenza su un passato a cui si guarda sempre nostalgicamente, l’ostinazione ed esaltazione del dialetto e la borghesia con le sue giornate sempre uguali trascorse al Circolo Nautico sono alcune delle zavorre che ancorano Napoli a un tempo circolare, una lunga giornata che continua a ripetersi. Sebbene l’autore non possa fare a meno di scrivere della città che gli ha dato i natali, egli ritiene che la sua napoletanità sia un vero e proprio anatema. Essere uno scrittore nato a Napoli comporta un pedaggio da pagare: venire considerati sempre alla luce della città e dell’idea che si ha di essa. Parlare di Napoli ridimensiona l’autore agli occhi del lettore e del critico: «Se si parla di Pavese non si dice subito: scrittore piemontese. Se si nomina Gadda o Moravia non si dice subito: milanese, romano, e non è questo un predicato indispensabile per circoscriverne la risonanza, l’interesse e l’importanza» denuncia (R. La Capria, L’occhio di Napoli, p. 951). La città partenopea getta ombra sugli scrittori che ne parlano ed è, in ogni caso, difficile scriverne senza scadere nei soliti clichés, per questo, La Capria opta per lo scrivere di Napoli con la penna del demistificatore: sagace, ironico, crudo, alla stregua del Leopardi del periodo napoletano. Parla dei suoi problemi, ma anche delle sue bellezze e la difende da chi l’ha denigrata. Una frase diretta proprio a uno di questi denigratori, il poeta Guido Ceronetti, il quale sostiene che in nessun luogo come a Napoli sia così disumano e insopportabile vivere, cattura perfettamente il sentire dell’autore. Dopo aver spiegato il significato della parola greca deinós, usata per esprimere un sentimento insieme spaventevole e stupendo, La Capria, infatti, scrive: «Vorrei dire a Ceronetti: Guarda che anche Napoli è deinós, spaventevole e stupenda insieme. Ma questo ti sfugge» (R. La Capria, L’occhio di Napoli, p. 957).