Le due Napoli

 

Esistono due opzioni per chi vuole raccontare Napoli: si può scegliere di aderire al solito cliché, fatto di pizza, mandolino, Vesuvio e Pulcinella, di un popolo che mangia, canta e scherza spensieratamente, oppure si può raccontare la dura realtà del capoluogo partenopeo ed esautorare la trita immagine cartolinesca che viene proposta da secoli. Ai due modelli di narrazione corrispondono anche due Napoli, sideralmente lontane: da una parte troviamo quella edulcorata, in cui ogni asprezza è smussata, mentre nell’altra troviamo una città che pulsa, vive e, soprattutto, soffre. È questa seconda dimensione che Anna Maria Ortese decide di mettere in scena nella sua raccolta più celebre, Il mare non bagna Napoli; nei cinque racconti l’autrice si fa occhio, diventa un osservatorio vivente sulla plebe e ne narra le condizioni di vita disagiate, le speranze, le delusioni, la forza d’animo. Il libro è dunque un viaggio – una catabasi – nell’inferno dei vicoli cittadini, finalizzato a conoscere e far conoscere l’altro volto di Napoli, quello che spesso è passato in sordina; un viaggio che, per la scrittrice, si configura anche come un cammino dall’impersonalità, caratteristica dei primi racconti, all’estrema soggettività degli ultimi due, i quali, nei piani dell’autrice, dovevano essere due inchieste.

L’ultimo reportage è un unicum: qui, difatti, nel mirino troviamo gli intellettuali napoletani e non più gli indigenti; la Ortese offre al lettore il ritratto di un drappello di uomini che un tempo si erano battuti per sprovincializzare la cultura e aprirla a nuovi orizzonti, avevano impugnato le penne e scritto l’orrore dei vicoli ma non hanno trionfato nell’ardua lotta per il progresso. La tecnica dell’autrice consiste nell’esasperare la loro sconfitta: Erri De Luca, a proposito della fotografia di Luigi Compagnone (uno di questi vinti), scrive addirittura che lo scrittore, dal racconto della Ortese, «esce tritato fino e impacchettato in hamburger. Una polpetta umana disossata con cura, senza malanimo, anzi qua e là con tocchi amorevoli». Dunque, malgrado la volontà della Ortese, l’ultima narrazione non ha tutte le carte in regola per essere considerata un’inchiesta tout-court, perché la realtà viene alterata, i ritratti si fanno impietosi e, a causa dell’esagerazione, inverosimili.

Ricordiamo che i soggetti di questi quadri sono persone in carne ed ossa, le quali, alla lettura del testo, si sono profondamente risentite; Il silenzio della ragione – questo è il titolo del quinto racconto – e, più in generale, il libro che lo ospita, hanno dato adito a un tornado di polemiche da parte sia degli intellettuali chiamati in causa sia dei difensori della provincia partenopea: Il mare non bagna Napoli, infatti, è stato considerato da molti un libro contro la città e ha comportato persino l’esilio dell’autrice dal capoluogo campano.

Nonostante le inesattezze e il tono soggettivo di alcuni racconti, la raccolta resta comunque una stella luminosa nel firmamento delle opere che hanno segnato il Novecento, nonché una tappa fondamentale nel cammino verso il reale che, partendo dal neorealismo napoletano, è giunto fino a romanzi come Gomorra di Roberto Saviano.

«Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, con lumi brillanti a cerchio […]; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente. Cominciarono a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali. Fu Mariuccia per prima ad accorgersi che la bambina stava male, e a strapparne in fretta gli occhiali, perché Eugenia si era piegata in due e, lamentandosi, vomitava».

(Un paio di occhiali, da Il mare non bagna Napoli)

Ricordando Natalia Ginzburg

Ma il cancello che a sera

s’apriva, resterà chiuso

per sempre, e deserta

è la tua giovinezza.

Spento il fuoco,

vuota la casa.

(Natalia Ginzburg, Memoria)

Cent’anni fa a Palermo nasceva Natalia Levi, meglio conosciuta con il cognome del primo marito, Leone Ginzburg. Ma di siciliano l’autrice non ha conservato nulla, anzi, nascere in Sicilia è stato un evento del tutto accidentale: la famiglia Levi si trovava a Palermo perché il padre Giuseppe aveva ottenuto lì la cattedra di anatomia comparata. Ben presto, quando Natalia ha solo tre anni, i Levi si trasferiscono a Torino, in una grande casa in via Pastrengo. L’autrice dirà in seguito: «non avevo che un vago ricordo di Palermo, mia città natale […] mi immaginavo però di soffrire anch’io della nostalgia di Palermo […] cullandomi nella nostalgia, o in una finzione di nostalgia, feci la prima poesia della mia vita, composta di soli due versi: Palermino Palermino / sei più bello di Torino». E a Torino la vita di Natalia è legata a doppio filo: qui cresce, scopre sé stessa, inizia a scrivere e frequenta i più straordinari intellettuali dell’epoca. Ma andiamo con ordine.

Innanzitutto, l’infanzia della Ginzburg non si può propriamente definire felice. Natalia è stata istruita in casa da insegnanti private e questo è stato per lei motivo di solitudine. Quando veniva portata a scuola per sostenere l’esame di fine anno, un sommesso senso di invidia la pervadeva: anche lei avrebbe voluto essere povera come quei bambini, povera ma felice insieme agli altri, povera però come tutti. In questi anni a farle compagnia sono i libri a cui si appassiona e le poesie che scrive e che è costretta a nascondere ai fratelli per non venire derisa. Anche i primi tempi al Liceo Classico Vittorio Alfieri, quando studia finalmente in classe con altri coetanei, sono segnati da una nota di malinconia: è, ad esempio, l’unica a non avere un vicino di banco. In ogni caso, fin da subito si distingue per l’abilità nella scrittura con i suoi temi, che si guadagnano il plauso dell’insegnante e l’onore di esser declamati alla cattedra. Nel periodo liceale legge Anton Chekhov e Alberto Moravia, che erge a suo maestro: «Lessi e rilessi Gli indifferenti più volte, col preciso proposito di imparare a scrivere. Quello che volevo che mi fosse insegnato, era la facoltà di muovermi in un mondo impietrito, e Moravia mi sembrava il primo che si fosse alzato e mosso camminando nella precisa direzione del vero», spiega.

Occorre ora fare un salto di circa trent’anni e piombare nel 1963, quando Natalia Ginzburg vince il premio Strega – scalzando autori di notevole statura come Beppe Fenoglio e Tommaso Landolfi – con il suo Lessico famigliare. Il libro è, come dichiara in un’intervista rilasciata per la Rai, una sorta di «diario diseguale», di «autobiografia scoperta» in cui l’autrice ripercorre la sua vita dagli anni Venti agli anni Cinquanta. L’intento primario era quello di mettere per iscritto il vocabolario sui generis che la sua famiglia utilizzava e trasformarlo in un racconto, ma poi il materiale si è infittito ed il progetto si è concretizzato in un romanzo.

In realtà, è difficile catalogare il libro come romanzo, e anche l’etichetta “autobiografia” gli sta stretta. Certo, i fatti raccontati sono realmente accaduti, così come veri sono i personaggi, ma l’autrice stessa tiene a precisare nell’Avvertenza che Lessico famigliare «benché tratto dalla realtà, penso che si debba leggerlo come se fosse un romanzo: e cioè senza chiedergli nulla di più, né di meno, di quello che un romanzo può dare». È la memoria, per quanto frammentaria, a fare da propulsore ed a scandire il ritmo del libro, ed i ricordi che affiorano vengono messi su carta in maniera spontanea, senza seguire un preciso ordine cronologico, così che i vari piani temporali finiscono per intersecarsi. Il risultato è un flusso continuo di memorie, separate solo da spazi bianchi e non suddivise per capitoli o, come accade ad esempio ne La coscienza di Zeno, grandi aree tematiche. Inoltre, fatto piuttosto insolito per un’autobiografia, la protagonista non è la voce narrante: «questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia» scrive sempre nell’Avvertenza. Natalia-personaggio rimane, infatti, in ombra e a campeggiare fin dalla prima pagina è il padre, vera fucina di espressioni come «sempio» (stupido), «negrigura» (gesto inappropriato), «babe» (amiche di sua moglie), che costituiscono quel lessico valido solo tra le mura di casa a cui rimanda il titolo: «una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati».

Le pagine di Lessico famigliare permettono di intrufolarsi nella vita dell’autrice e di capire cosa accadeva nella Torino di quegli anni. Sarà ad esse, quindi, che si ricorrerà per continuare a raccontare gli anni Trenta di Natalia. Riprendiamo dal periodo del liceo, che è lo stesso del fascismo, a cui tutta la famiglia Levi è avversa, in particolare il fratello Mario, che faceva parte della cellula torinese del movimento antifascista «Giustizia e Libertà» insieme a Leone Ginzburg. È proprio Mario a far sì che Leone e Natalia si incontrino, nel ’33. Lei aveva scritto un paio di racconti, Mario li aveva passati a Leone e Leone li aveva spediti alla rivista «Solaria». Fu così che l’autrice pubblicò il suo primo racconto, I bambini. Poi, lei e Leone si legarono sempre di più e, nel ’38, pochi anni dopo la fine del liceo, i due convolarono a nozze e andarono a vivere nella casa di via Pallamaglio (ora via Morgari 11). Ginzburg fu un convinto dissidente del fascismo: «Leone, la sua passione vera era la politica». Fu anche socio fondatore della casa Editrice Einaudi, anch’essa nata negli anni Trenta.

Il libro fa ben comprendere ciò che è stata Einaudi ai suoi albori, le amicizie tra einaudiani come Cesare Pavese, Balbo e lo stesso Ginzburg, l’ascesa della casa editrice. Natalia racconta, ad esempio, che Leone e Giulio Einaudi dovettero insistere per convincere Pavese a lavorare con loro: «Diceva: – Non ho bisogno di uno stipendio […] –. Aveva una supplenza al liceo. Guadagnava poco, ma gli bastava. Poi faceva traduzioni dall’inglese […] Scriveva poesie. Le sue poesie avevano un ritmo lungo, strascicato […] alla fine si persuase, entrò anche lui a lavorare con Leone in quella piccola casa editrice». La casa editrice consiste, inizialmente, in due locali al terzo piano di un palazzo in via Arcivescovado 7, ma poi si ingrandisce e, quando la sede antica crolla durante un bombardamento, si trasferisce in corso Re Umberto.

La Ginzburg scrive anche della Seconda Guerra Mondiale e di ciò che ha comportato per lei ed i suoi cari. Prima della guerra, Leone insegnava letteratura russa a Torino ma perse presto il posto perché si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al Partito Fascista; poi anche il padre di Natalia, Giuseppe, perdette la sua cattedra e si trasferì a Liegi, in Belgio, per continuare ad insegnare. Quando, nel ‘38, entrarono in vigore le leggi razziali, a Natalia e suo marito fu ritirato il passaporto e Leone, essendo antifascista, ogni volta che un’autorità politica giungeva a Torino, veniva arrestato in misura preventiva. In seguito, venne mandato al confino, in Abruzzo, dove Natalia lo seguì con i loro figli e diede alla luce Alessandra. La vocazione alla scrittura, negletta in questo periodo, viene risvegliata grazie all’ausilio di Pavese, che scrive: «Cara Natalia, la smetta di fare bambini e scriva un libro più bello del mio», il libro in questione è Paesi tuoi, in cantiere in quell’anno. Nel ‘42 esce finalmente il primo vero romanzo ginzburgiano, La strada che va in città, che l’autrice, a causa delle leggi razziali, è costretta a pubblicare con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Nel luglio del ’44 Leone lascia il confino per Roma e la moglie a novembre lo raggiunge: «Arrivata a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice […] Leone dirigeva un giornale clandestino […] Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più». Muore lì, in prigione, torturato dai tedeschi, e la Ginzburg più tardi riverserà nella poesia Memoria il suo dolore per la morte del marito.

Terminato il confitto mondiale, l’autrice si sofferma a ragionare sulle tendenze letterarie del dopoguerra. Ora lavora all’Einaudi e scrive: «Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare […] Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia». Sono, questi, gli anni del neorealismo, in cui tutti sono presi dalla smania di raccontare l’esperienza vissuta. Sono anche gli anni Cinquanta – aperti dal suicidio di Pavese, di cui la Ginzburg non manca di scrivere -, sui quali si conclude Lessico famigliare.

Il valore documentario del romanzo è considerevole, anche se non c’è un vero intento cronachistico. C’è solo, più forte di tutto, la voglia di raccontare saltellando qua e là tra i ricordi.

I LIBRI SCAVALCANO I MURI – IL SALONE DEL LIBRO 2017

Inizia il conto alla rovescia per la XXX edizione del Salone del Libro di Torino (18-22 maggio), che quest’anno prende il nome di Oltre il confine, e «Lo sguardo letterario» non può soprassedere al parlare dell’evento speciale. La rubrica nasce come focus sul dialogo che gli autori italiani instaurano con la geografia, ma questa volta, all’inverso, si parlerà di come la città – Torino, nella fattispecie – racconta gli autori. E non si tratta solo di autori italiani, ovviamente. Il Salone, difatti, è da sempre una grande finestra sul mondo e convoglia scrittori, intellettuali, studiosi e personaggi di spicco di ogni ambito della cultura e dell’informazione e da molti angoli del pianeta. Il capoluogo sabaudo, dunque, brulicherà di grandi menti.

È stato un anno duro per il Salone, che ha dovuto affrontare la sfida con Tempo di Libri, la neonata fiera del libro che si è tenuta lo scorso aprile a Milano la quale, si temeva, mettesse in pericolo sia il numero di editori partecipanti al Salone, sia gli ingressi alla fiera di Torino.

Quest’anno, per quanto riguarda la letteratura straniera, il programma è ricco e denso: insomma, ce n’è per tutti i gusti. Dalla Francia arriveranno Daniel Pennac con Il caso Malaussene, nuovo e agognato capitolo del rocambolesco ciclo di Belleville, e Annie Ernaux, autrice del pluripremiato libro Gli anni. Ma ci saranno anche la penna americana Richard Ford, a colloquio con Sandro Veronesi, e un tributo speciale a Kent Haruf – nome che torna a risuonare nelle librerie con la Trilogia della Pianura, a distanza di più di due anni dalla morte dell’autore –, a Furore di Steinbeck e a Stephen King. E poi, ancora, parleranno il più noto autore indiano contemporaneo, Amitav Gosh, e il cileno Luis Sepulveda, mentre l’eccezionale Roberto Gifuni s’immergerà nelle opere di Bolaño. Gioca, invece, in casa Roberto Saviano, che presenterà La paranza dei bambini.
Oltre ai tradizionali incontri a Lingotto fiere, il XXX Salone ha in serbo altri progetti più eversivi, dai reading ad alta quota, a bordo della mongolfiera del Balon, a Jules Verne letto nel sommergibile del Valentino. La letteratura farà, si, da padrona, ma verrà accompagnata da un’ancella speciale: la musica, che sarà un’altra protagonista del salone. A margine dell’evento, infatti, è previsto un nutrito calendario di concerti nell’area denominata Note-Book, in via Cigna.

E, se il troppo brusio dà alla testa, il rimedio è bell’e servito: ci sarà una pionieristica Isola del silenzio, a cui si potrà accedere pagando con le Banconote da Dieci Minuti di Silenzio donate ai vari stand degli editori. Perché, senza il silenzio, non c’è musica, non c’è letteratura, non c’è pensiero.

Il programma del Salone è stato presentato il 27 maggio a Palazzo Carignano dalla triade Nicola Lagioia, Massimo Bray e Mario Montalcini e, in questa occasione, si è parlato di come l’organizzazione dell’evento abbia richiesto un duro lavoro d’equipe, una forte tenacia e, soprattutto, una grande passione. Passione che è emersa soprattutto dalle parole di Nicola Lagioia, direttore di quest’edizione, che ha a più riprese spiegato quale sia il valore del libro. Il libro non è una merce di scambio, resiste a ogni algoritmo, ha dichiarato. I libri scavalcano i muri e vanno, come recita il titolo del Salone, Oltre i confini.

I viaggi di Palomar

Il signor Palomar è un uomo tutto vista, uno scrutatore seriale che separa un tassello dal mosaico della vita e lo osserva con puntiglio. Il suo è un nomen omen: difatti, il protagonista eponimo del libro di Italo Calvino si chiama come un osservatorio della California. A differenza di quest’ultimo, però, egli non si limita soltanto a guardare, ma il suo occhio e la sua mente lavorano di concerto e ciò su cui si posa il suo sguardo diviene il centro da cui ramifica una sottile riflessione.

La sua disamina, che è organizzata in tre macro-aree tematiche (riflessioni di natura antropologica, esperienze visive, speculazione) e dalla quale poco viene escluso, prende avvio dall’inquadratura di un’onda. Poi, il focus si sposta ora sul seno di una donna, ora su qualche animale o su alcuni luoghi tipici del tran-tran quotidiano, fino ad arrivare alle cose intangibili e, inevitabilmente, in chiusa di libro, alla morte. Il modus operandi è all’incirca questo: ritagliare un segmento di vita; osservarlo a fondo e quindi descriverlo con perizia; interrogarsi; riflettere e cercare di rispondersi. Qualsiasi sia l’oggetto su cui ci si sofferma, la caffeina della meditazione deve sempre essere la curiosità.

Un uomo curioso non può che viaggiare, e, infatti, Palomar è punteggiato di osservazioni che traggono la loro linfa dalle città visitate dal protagonista. Nelle sezioni Palomar in città e I viaggi di Palomar, egli veste i panni di un’improvvisata quanto anomala guida turistica, prende inconsapevolmente il lettore per mano e lo porta con sé. La sua è un’angolazione inedita e, nel relazionare i luoghi che visita, sceglie sempre non una veduta d’insieme, una panoramica della città, ma un primo piano di un posto o di un elemento di volta in volta diverso. Cosa annota, ad esempio, di Parigi? Non i monumenti più conosciuti o gli angoli più scontati, ma quelle botteghe caratteristiche in cui ha fatto la spesa. Prima la charcuterie, dove «il suo sguardo trasforma ogni vivanda in un documento della storia della civiltà»: siamo, dunque, nell’orbita delle riflessioni di natura antropologica. Il cibo elaborato disturba i suoi sensi e gli impedisce sia di associare un sapore al piatto, sia di scegliere risolutamente cosa comprare. Palomar è convinto di questo: c’è un legame atavico tra l’alimento eletto e l’elettore; eppure, lui non sa cosa desiderare, in quale pietanza riconoscersi. Allora, disturbato, desidera andare via. Ma lo stesso sperdimento lo coglie anche in una fromagerie e, messo in difficoltà dall’ampia scelta di formaggi, non è in grado di decidere su due piedi. Perciò, il suo sguardo si fa enciclopedico ed egli inizia a catalogare i formaggi e a esaminarne i nomi: «Questo negozio è un dizionario; la lingua è il sistema dei formaggi nel suo insieme: una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza inesauribile». Qui, l’elucubrazione è insieme antropologica e linguistica. Come nel caso della gastronomia, anche nella formaggeria il protagonista osserva le cose che vengono vendute come se fossero reperti museali: «Questo negozio è un museo: il signor Palomar visitandolo sente, come al Louvre, dietro ogni oggetto esposto la presenza della civiltà che gli ha dato forma e che da esso prende forma».

Poi c’è Barcellona con il suo singolare gorilla albino, un esemplare unico che dà adito a una meditazione sulla diversità e, soprattutto, sulla comunicazione. Il gorilla canuto, dietro alla vetrata dello zoo, ha con sé un unico oggetto: il copertone di uno pneumatico. Cosa può significare con questo? Palomar qui parte a briglia sciolta: «che cosa meglio d’un cerchio vuoto è in grado d’assumere tutti i significati che si vuole attribuirgli? […] come il gorilla ha il suo pneumatico che gli serve da supporto tangibile per un farneticante discorso […] così io ho quest’immagine di uno scimmione bianco». E così, spiega l’incompletezza del linguaggio, l’indicibilità di alcune sfumature del pensiero. Di nuovo a Parigi – ma non si conosce il rapporto temporale tra le situazioni descritte nei diversi capitoli -, si diletta a osservare un’iguana del rettilario del Jardin des Plantes. Ma questi sono solo alcuni dei tanti animali che costellano le pagine del libro.

Ci sono, infine, i viaggi lunghi in luoghi lontani dalla Roma in cui abita, come quello in Messico o in un non meglio specificato paese dell’Oriente. Di quest’ultimo, Palomar non vuole offrirci uno scorcio del paesaggio o un preludio dell’atmosfera, piuttosto racconta nuovamente di una bottega, un bazar in cui acquista delle ciabatte spaiate. Chi mai avrà l’altra metà della coppia? Si chiede il protagonista. Quale catena di errori succederà a questa anomalia? Come si può intuire, le osservazioni, mai epidermiche, di Palomar muovono da una porzione ben segmentata della realtà, per poi estendersi fino ai più disparati campi, dalla metafisica, all’antropologia, alla semiotica, tra gli altri.

L’avventura di Palomar inizia sui giornali. L’ultimo romanzo – in cui, però, la forma romanzo viene sfaldata, a partire dall’assenza di una precisa successione temporale delle situazioni presentate – di Calvino nasce a puntate sulla terza pagina del «Corriere della sera», per poi migrare ad altre testate e, solo in un secondo momento, i pezzi vengono raccolti e confezionati nella forma libro. Il volume è alquanto autobiografico, l’autore, perciò, traspare nitidamente in filigrana dai pensieri di Palomar – che sono comunque alla terza persona singolare – e il risultato ottenuto da Calvino è un compendio dell’arte dell’osservare. Il protagonista talvolta si propone di immergersi nelle acque profonde della riflessione e di risalire a galla con gli occhi pieni di ciò che ha visto, mentre altri lacerti sono vere e proprie prove dell’estro dell’autore nell’ecfrasi.

Grazia Deledda, una scrittrice da Nobel

Qual è il ruolo delle donne all’interno della letteratura? Si chiede Virginia Woolf nel 1929, nel celebre saggio Una stanza tutta per sé. Se Shakespeare avesse avuto una sorella – chiamiamola Judith – con il tarlo della scrittura, cosa ne sarebbe stato di lei? Probabilmente sarebbe morta suicida, si risponde l’autrice: è impensabile che, ai tempi di Shakespeare, una donna possa aver avuto lo stesso genio del drammaturgo inglese. I manuali di storia della letteratura pullulano, infatti, di nomi maschili. Non perché le donne non abbiano davvero lasciato il segno, ma semplicemente perché le chiavi della cultura sono sempre state nelle mani degli uomini. Prendiamo come esempio il caso italiano: fino al Novecento non incontriamo nessuna Jane Austen, o, comunque, nomi come Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Amalia Guglielminetti, Sibilla Aleramo raramente si trovano nella rosa degli autori che si insegnano al liceo. Eppure molte delle nostre scrittrici hanno davvero fatto la storia, e questo è il caso di Grazia Deledda, l’unica donna italiana ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura.

La Deledda è stata proposta per l’ambìto premio a seguito del successo del suo più celebre romanzo, Canne al vento, scritto mentre si trovava a Roma e pubblicato prima a puntate per «L’Illustrazione Italiana», poi in volume nel 1913, anche se il Nobel è arrivato solo tredici anni dopo. Il libro è un grande affresco paesano: a fare da sfondo alla vicenda è, infatti, Galte, un piccolo paese della Sardegna ricco di costumi e tradizioni secolari. L’autrice, dunque, rimane inscindibilmente legata alla sua isola natale, tanto da farne rivivere i luoghi nei suoi romanzi.

Il protagonista della storia è Efix, il servo delle dame Pintor, che vive in condizioni di seria indigenza e che ha a cuore le sue padrone più della sua vita. In realtà, Efix non ha davvero i tratti del servo, ma si presenta più come una sorta di protettore e di saggio ed è lui a pronunciare, nelle ultime pagine, la massima che dà il titolo al libro: «siamo canne, e la sorte è il vento». Egli vive tutto solo in una capanna vicino al podere delle Pintor, di cui è incaricato di occuparsi. Ha sempre una parola conciliante per tutti e la sua etica è impeccabile. Non viene nemmeno più pagato per il lavoro che svolge perché le sue tre padrone (Ester, Ruth e Noemi), nonostante cerchino di fare il possibile per nasconderlo, sono cadute in disgrazia. Esse rappresentano la vecchia nobiltà terriera, incagliata nel passato e incapace di aprirsi al presente. La loro stessa casa è spia di questo moto retrogrado: essa sembra pervasa dalla morte e il fatto che sia attigua al cimitero non fa che confermare la percezione di un’atmosfera funebre.

L’arrivo di una misteriosa lettera gialla è il motore da cui la vicenda prende il suo avvio. Nella missiva è annunciato l’arrivo di Giacinto, il figlio di Lia, la quarta delle sorelle Pintor. Quella di Lia è una presenza ingombrante e incorporea all’interno del libro: non compare mai in carne ed ossa – anche perché al tempo della storia è già morta -, ma i ricordi legati a lei si affastellano nella mente dei personaggi, tanto da restituire al lettore l’immagine a tutto tondo di una donna che è riuscita nell’intento di ribellarsi all’acquiescenza delle sorelle e a un padre asfissiante come Don Zame, fuggendo lontano dal paese. Le sorelle non le hanno mai perdonato la fuga, e ora devono fare i conti con l’arrivo del figlio. Chi è davvero Giacinto? Che intenzioni ha? Perché è così refrattario a parlare del suo trascorso? Solo il servo riuscirà a carpire la vera identità del ragazzo.

Giacinto è il personaggio, per certi aspetti, più simile a Efix. Tutti e due, infatti, serbano un segreto sul loro passato peccaminoso. Ma, mentre Efix vive tutta la propria vita all’insegna dell’abnegazione per espiare il peccato indicibile, il ragazzo non sembra dar molto peso alle conseguenze delle proprie azioni. L’espiazione è, quindi, uno dei grandi temi che il romanzo affronta. Ma non l’unico: la vicenda è tutta un intarsio di segreti, passioni inconfessabili, matrimoni, credenze popolari.

C’è, in Canne al vento, la stessa atmosfera in cui sono immerse le storie della Austen, con in più un alone di mistero, una tensione sapientemente calibrata. Il tutto raccontato con una lingua moderna e sorprendente se si considera l’anno di pubblicazione del romanzo. Sono passati più di cent’anni dalla sua prima edizione, e il capolavoro di Grazia Deledda rimane una lettura sempre consigliata e invischiante.

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