5 Marzo 2018 | Lo sguardo letterario
Che tipo di libri vende e come se li procura?
Purtroppo l’antiquariato non è come la libreria moderna. L’antiquariato ha quello che ha e cerca di vendere quello, ma bisogna conciliare quello che si ha con il desiderio del pubblico, senza poter fare il difficile. Non mi interessa più acquisire altro materiale.
Quindi vende quello che ha?
Vendo quello che si è comprato nel corso dei decenni, magari le cose meno importanti che sono rimaste in libreria. La libreria antiquaria soddisfa un’esigenza tutta particolare del cliente. Il cliente se cerca l’opera nuova, l’ultimo libro, va in libreria moderna.
Che tipo di persone entrano in libreria? Ci sono tanti giovani? Sono più i turisti o i triestini?
Oramai ai giovani il libro d’antiquariato interessa sempre meno. Interessa in generale meno il libro, ma il libro d’antiquariato in particolare perché per loro, nell’ultimo ventennio, il libro d’antiquariato non rappresenta più niente. Il vero collezionista non esiste più. Il collezionista è una persona di una certa età che oramai ha completato quello che gli interessava cercare.
I turisti sanno dell’esistenza della libreria perché mi trovo menzionato in tutte le guide, non solo quelle italiane ma anche nelle altre. I giapponesi ad esempio sanno benissimo della libreria perché è menzionata in una guida giapponese dell’Italia. C’è anche una traduzione del Canzoniere di Saba in giapponese.
Sono molte le persone che vengono perché interessate a Saba?
Vengono, ma come se andassero un museo. Sono interessate a Saba anche per un motivo secondo me drammatico, che è la mancanza di un museo a Trieste che ricordi Saba. Esclusa la statua non c’è nulla. Mentre c’è un museo per Svevo e un piccolo museo per Joyce, per Saba non c’è nulla. La libreria non è una struttura pubblica, ma privata.
Ha ricevuto sovvenzioni da qualche ente per risollevare la libreria? La città che trattamento le riserva?
Due anni fa la biblioteca statale aveva mandato una cooperativa che aveva messo a posto e aveva pagato. Però due concorrenti si son fatti premura di dire che erano soldi pubblici sprecati, che non avrebbero dovuto esser spesi e mi son trovato un articolo sul quotidiano locale che mi criticava.
Perché ha deciso di continuare con la libreria? Le piace il suo lavoro?
Primo perché ho lavorato con mio padre, quindi quando poi è morto mio padre l’ho portata avanti e non ho tirato i remi in barca anche per (debito di riconoscenza?) rispetto per Saba, che aveva preso mio padre orfano a 17 anni e gli aveva dato un qualcosa che se no non avrebbe potuto avere. Adesso dico con orgoglio: Carlo Cerne non dice niente a nessuno, ma il Carletto di Saba se lo ricordano tutti.
La libreria, quando era gestita da Saba, era importante per la città? Ho letto sul sito che ha attirato artisti come Svevo, Carlo Levi. Può raccontarmi qualcosa in più a questo proposito?
Era un luogo importante: era un luogo di ritrovo di tutti i vari personaggi che abitavano a Trieste o che transitavano a Trieste. Tutti i vari personaggi sono venuti a Trieste, tra gli altri, nel ’21, prima che fosse importante politicamente, il maestro Mussolini, che insegnava a Tolmezzo, era transitato per Trieste e dato che, come Saba, collaborava a un giornale socialista, si erano incontrati. E nel ’38, quando furono promulgate le leggi razziali, Saba pensò che Mussolini gli avrebbe dato un aiuto. Invece non l’ha nemmeno in considerazione.
Nel 43 quando erano nascosti tutti a Firenze, nella soffitta di casa Montale, la Linuccia Saba aveva incontrato Carlo Levi e si era creata un’amicizia (tanti pensavano che facessero coppia, era una coppia a tre che è andata avanti fino alla morte di tutti i personaggi). Carlo Levi era in ottimi rapporti con Saba e quando veniva a Trieste passava alla libreria per la Linuccia.
Che ne sarà in futuro della libreria?
A questa domanda aggiungerei altri 4 punti di domanda. È vincolata, dal 2012 è studio d’artista, perciò non può venire qua a mettere un Mc Donald’s.
La libreria organizza o ha mai organizzato eventi culturali?
No, non c’è lo spazio. L’unico micro evento è stato la presentazione del volume La libreria del poeta.
Parlando di Saba, può raccontarmi come svolgeva il suo lavoro? Mi ricordo che aveva detto che non fosse bravo a vendere.
Saba era Saba, era un personaggio fatto a modo suo, che si sentiva lui importante. Se lui aveva il piacere di parlare con lei parlava. Se non aveva piacere era capace di metterla alla porta senza nessun problema. Un aneddoto: una giovanissima studentessa aveva visto una carta geografica in vetrina ed era entrata timidamente in negozio chiedendo quanto costasse quella carta. Lei ricorda ancora, oggi è pensionata, che Saba l’aveva squadrata 3 volte dalla testa ai piedi e le aveva detto: e a te cosa interessa? Non farmi perder tempo.
Sul sito c’è scritto che il rapporto di Saba con la libreria era di odio e amore. Era affezionato alla sua attività o la considerava solo in termini economici?
Il fatto stesso che Saba aveva detto che era un antro funesto, era direttore di una sala cinematografica, poi dopo venti giorni era entrato e l’aveva comprata. || il lavoro gli permetteva contatti con Milano, con Firenze. Bisogna considerare che erano tempi completamente diversi. C’era il colloquio, chiacchieravano, non guardavano all’incasso giornaliero. Una volta era normale. Lui non badava molto a spese: spendeva tutto quello che aveva. Il risparmio non era il suo forte.
Come trattava i clienti Saba, era scontroso? Aveva qualche cliente fisso?
C’erano gli abitudinari, c’erano i collezionisti che addirittura quando sia Saba sia mio padre compravano qualche piccola biblioteca e arrivavano gli scatoloni in negozio aprivano loro le casse per la soddisfazione di poter vedere per primi quello che era stato acquistato. Oggi tutto questo non esiste più.
E suo padre Carletto che ruolo aveva? Dalle poesie che Saba gli ha dedicato – penso a quella che si intitola Carletto, in cui viene descritto come un “canarino in gabbia affaccendato” – sembra che fosse più suo padre che Saba a curarsi davvero della libreria.
Mio padre e lo ha riconosciuto anche Saba, curava la parte commerciale: i clienti se volevano entrare e vedevano solo Saba non entravano neanche in libreria. Con mio padre venivano, discutevano, trattavano. Saba nella copia di mio padre scrisse: A Carlo Cerne, il famoso Carletto, che più coi fatti che con le parole mi ha aiutato a vivere. Quindi una dimostrazione che ha il suo valore non indifferente, dato che Saba non era magnanimo.
Fosse stato per Saba la libreria avrebbe chiuso subito. Il rapporto tra Saba e mio padre è stato quello padre-figlio. (avanza un’ipotesi) probabilmente, dato che Saba ha conosciuto il padre soltanto a 23 anni, suo padre era scappato prima ancora che nascesse. Da questo odio rancore nei confronti del padre potrebbe esser che Saba abbia voluto fare il padre dell’orfano che gli era capitato.
8 Febbraio 2018 | Lo sguardo letterario
«La professione dello scrittore dovrebbe essere piena di soddisfazioni morali e materiali. Io invece sono inchiodato al mio tavolo per molte ore al giorno ed alcune della notte, e quando riposo sono in biblioteca per documentarmi. Debbo scrivere a tutto vapore cartelle su cartelle, e subito spedire agli editori, senza aver avuto il tempo di rileggere e correggere»: queste sono le parole vergate da Emilio Salgari, autore di romanzi e racconti d’avventura, padre del pirata Sandokan e del Corsaro Nero. Già, perché il celebre scrittore, a scapito di ciò che si potrebbe pensare, visse una vita tormentata, di segno opposto rispetto a quella dei protagonisti dei suoi libri. Veronese di nascita, a sedici anni si trasferì a Venezia per compiere i suoi studi all’Istituto Nautico; il suo sogno? diventare capitano di una nave. Il desiderio, però, non si avverò, perché Emilio interruppe gli studi al secondo anno di corso, dopo essersi imbarcato solamente una volta. Pochi furono i viaggi reali che compì, molti, invece quelli mentali e fantastici: i romanzi di Dumas e Verne, i libri della biblioteca civica, le mappe, gli atlanti e la sua mente vulcanica gli permisero, infatti, di conoscere terre lontane senza mai spostarsi; «scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli», affermò, a ragione. Egli fu, quindi, un autore di libri di avventura decisamente poco avventuroso; quello che desiderava fare e che, per una qualche ragione, non era in grado di mettere in atto nella realtà, riusciva a realizzarlo solamente grazie a carta e penna.
Terminata la poco fortunata esperienza scolastica, si dedicò all’attività giornalistica e iniziò a pubblicare i suoi primi racconti e romanzi. A trent’anni sposò un’attrice di teatro, Ida, che gli diede tre figli. Dopo la nascita della primogenita, la famiglia si trasferì in Piemonte, nel canavese; a quest’altezza cronologica, il nome dello scrittore non era ignoto, anzi, Salgari aveva raggiunto un discreto successo, anche se non era ben visto nei circoli letterari, perché i suoi romanzi venivano considerati troppo moderni e di poco spessore. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento diede alle stampe quello che è considerato il suo capolavoro, Il corsaro nero; il successo non fu mai accompagnato dalla prosperità economica: l’autore, difatti, visse una vita instabile e non riuscì né a far fruttare, a livello pecuniario, il proprio talento né a gestire gli scarsi guadagni. Infine, dopo la parentesi canavese, i Salgari si trasferirono per qualche anno a Genova, per poi tornare definitivamente in Piemonte, questa volta a Torino, in Corso Casale.
La malinconia fu un sottofondo costante della vita dello scrittore e diventò più acuta all’inizio del Novecento, quando Ida – moglie di Emilio – iniziò a dare segni di squilibrio e venne internata al manicomio; inoltre, anche la figlia Fatima non godeva di buona salute, poiché si ammalò di tisi. A questo punto, i debiti si moltiplicarono; lo scrittore iniziò a scrivere incessantemente, senza quasi ricontrollare ciò che ideava, per sostentare la famiglia e pagare le cure a Ida.
La vita di Emilio Salgari, a differenza dei suoi libri, non ebbe un lieto fine; nel 1909, l’autore tentò il suicidio e nel 1911 ripeté il gesto efferato, riuscendo nell’intento. L’epilogo della storia è degno di un’opera tragica: il romanziere, prima di togliersi la vita, scrisse alcune lettere – ai familiari, ai giornali, agli editori –, poi salì sul tram armato di rasoio e, giunto nel bosco di San Martino, nella zona collinare appena sopra Corso Casale, si uccise con la pratica giapponese dell’harakiri, squarciandosi l’addome e la gola; il suo corpo dilaniato venne successivamente ritrovato da una domestica. Persino il funerale passò in sordina, perché coincise con i festeggiamenti, nel capoluogo piemontese, per i cinquanta anni dell’Unità d’Italia.
Le ultime lettere attestano la premeditazione del suicidio, nonché l’amarezza dell’autore; Salgari si rivolse così agli editori, denunciando la propria condizione: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». Ai figli, invece, scrisse di non potere lasciare loro che pochi soldi: «Sono un vinto: non vi lascio che 150 lire, più un credito di altre 600 […]».
La vera, inestimabile, eredità che lo scrittore ha lasciato è, in realtà, costituita dai moltissimi libri partoriti dal suo genio: ammontano a ottanta i romanzi attribuiti con certezza a Salgari, mentre altre opere vengono ritenute apocrife; al numero dei romanzi, poi, si deve aggiungere quello dei racconti, come prova della fecondità e della grandezza dell’autore veronese.
*Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf
5 Gennaio 2018 | Lo sguardo letterario
Nel 1997, quattro anni prima di morire, Lalla Romano pubblica il “romanzo non-romanzo” In vacanza col buon samaritano, riedito nel suo ventennale da Einaudi e frutto di quello che Giulio Ferroni chiama lo “stile tardo” dell’autrice, uno stile dominato dal vuoto, dall’assenza, in cui il linguaggio viene privato di ogni orpello per recuperare la propria essenzialità.
Il “buon samaritano” del titolo è l’immagine da cui scaturisce il libro e che diventa il suo centro gravitazionale; si tratta, certamente, di una figura cristiana, ma filtrata attraverso le opere di Rembrandt: «Quando dicevo “buon samaritano” […] rivedevo […] due o più incisioni di Rembrandt. Un uomo, un orientale, visto di spalle, sta caricando sulla sua cavalcatura un uomo inerte, svenuto», scrive l’autrice.
Come emerge dalla lettura dei brevissimi capitoli, raccolti in sezioni, il “buon samaritano” è sintesi di umiltà, umanità, compassione, pazienza, è colui che «ama l’uomo sofferente, e ne ha cura: signorilmente»: è Antonio, che si prende cura di Lalla; è Luciana, che la aiuta nella sua ricerca angosciosa; è anche Frieda, la moglie di Alessio; ed è soprattutto quest’ultimo, lo zio Alessio, un prete che si sveste dell’abito ecclesiastico per potersi sposare e il cui ricordo attrae misteriosamente la voce narrante e protagonista.
La vacanza è proprio un’incursione nella vita dello zio, morto di una malattia indicibile contratta al fronte; Lalla ne ricostruisce l’esistenza ripercorrendo i suoi luoghi – primo su tutti Bordighera –, conoscendo le persone che gli sono state accanto, ma anche osservando le fotografie e le cartoline offertegli da Luciana.
Uno dei traits d’union del libro è costituito dalla presenza ricorsiva della pittura, altra grande vocazione della scrittrice: non c’è solo Rembrandt, ma anche Friedrich von Kleudgen, e molti altri quadri senza nome, pregni di significato per chi scrive. Il vero e proprio collante che conferisce uniformità all’opera è, però, il suo carattere meditativo: la narratrice riflette, spesso laconicamente, sui vari aspetti dell’esistenza e sui propri affetti, durante quella pausa dalla consuetudine che è la vacanza.
In vacanza col buon samaritano è dunque un diario diseguale, reticente, pieno di buchi narrativi, privo di unità temporale (la “vacanza” è, infatti, la somma di più vacanze, di diversi intervalli di tempo, anche distanti tra loro) in cui vengono isolati e offerti al lettore soltanto i momenti di scavo interiore, per ritrovare ciò che è perduto.
5 Dicembre 2017 | Lo sguardo letterario
Michele è un bambino sui generis: ai cambiamenti preferisce la fissità, all’apertura verso il mondo esterno una malinconica solitudine. Ogni estate torna a Scalna, un piccolo paesino della campagna milanese in cui ogni anno trascorre le vacanze estive con la famiglia; Scalna è l’emblema dell’infanzia che sta lentamente scolorando, è il tempo, contro cui il bambino combatte quotidianamente e con veemenza la propria battaglia, per impedire ai luoghi, alle persone, agli oggetti, alla sua stessa vita di cambiare. Ma una lotta contro un tale contendente è inevitabilmente destinata ad essere persa: e quindi, pagina dopo pagina, il bambino – che non è altri che l’autore – narra la propria debacle. Il racconto è disseminato di indizi che permettono di inferire questa disfatta: prima ci sono gli alberi che crollano e inducono Michele ad asserragliarsi nella biblioteca, per non sottoporre allo sguardo un tale sfacelo; la biblioteca diventa quindi un guscio, un fortilizio, che impedisce al giovane il contatto con l’esterno, e dunque con il cambiamento. Poi c’è l’abitazione di Flora, l’anziana vicina a cui Michele fa spesso visita: nella sua casa il tempo sembra non aver avuto la meglio, perché tutto è rimasto com’era prima della guerra; ma il presente intollerabile, sotto forma di una modernissima lampada, riesce a infiltrarsi anche in questo luogo. E infine c’è Tabù, il cane di Flora, con cui Michele instaura un tenero e divertente cameratismo. Il cane della vicina pare essere lo stesso da tempo immemore: appena il cane muore, la donna lo sostituisce prontamente con una sua copia identica. Ma nemmeno questo escamotage riesce a ingannare il tempo, ed ecco che di Tabù si perdono le tracce.
Ciò che contamina lo schema mentale con cui Michele ha incasellato il mondo e, più nello specifico, la vita a Scalna, suscita in lui un’acuta insofferenza e lo spinge ancor di più alla reclusione. A corrodere questo schema ci sono soprattutto i Baldi, la famiglia che abita accanto a quella del protagonista-narratore: il loro modo di vivere è agli antipodi rispetto a quello del bambino, i Baldi sono numerosi, rumorosi, sempre allegri e partecipano alla vita comunitaria. L’astio che prova nei loro confronti sembra, però, essere ambivalente e fa sorgere un dubbio: Michele li odia davvero, o il suo sentimento è colorato da una punta di invidia?
Michele Mari racconta un’infanzia diversa, dolceamara, riuscendo nell’ardua impresa di conciliare uno stile e una lingua davvero unici, una scrittura certamente barocca, ricercata, a tratti difficile, con una sorprendente fluidità.
5 Novembre 2017 | Lo sguardo letterario
Conversazione in Sicilia è probabilmente il libro più celebre di Elio Vittorini; nonostante la popolarità del testo, però, in pochi sanno che, sin dagli anni Quaranta, l’autore aveva in mente di illustrare l’opera.
Nella stesura del romanzo, Vittorini, memore dell’intervento censorio sul Garofano rosso, dovette prestare attenzione a non offrire alla censura fascista un motivo per intervenire sul testo; per questa ragione, lasciò molto all’intuizione del lettore. Terminata la fase compositiva, il libro venne pubblicato prima in cinque puntate su «Letteratura», dal 1938 al 1939, per poi uscire in volume nel 1941; nello stesso anno della pubblicazione in volume, lo scrittore stava meditando di completare il testo arricchendolo con alcune immagini che avrebbero avuto il fine di chiarire i passi più reticenti del libro, nei quali aveva dovuto lasciare spazio al non-detto per timore della censura. L’idea originaria era quella di illustrare il libro con i disegni del pittore neorealista Renato Guttuso, che si stava affermando proprio in quegli anni, ma il progetto non venne inspiegabilmente mai portato a termine, anche se l’artista aveva già approntato diverse illustrazioni.
La realizzazione di una prima edizione illustrata di Conversazione in Sicilia avviene solo nel 1953; tre anni prima, infatti, Vittorini sottopone l’iniziativa di impreziosire il libro aggiungendovi alcune fotografie – non più disegni – all’editore Bompiani, il quale accetta di buon grado. L’autore, a questo punto, torna sull’isola natale, nei luoghi della propria infanzia, per scattare le immagini che confluiranno nell’edizione del ’53. Le due parti, visuale e scritta, funzionano, in questa edizione, come le braccia di un uomo: sono necessarie l’una all’altra e si aiutano reciprocamente. Lo scrittore, scattando e pubblicando le fotografie, compie un processo a ritroso, naviga al contrario dal punto di arrivo al punto di partenza, come ha giustamente osservato Giovanni Falaschi: «all’origine del testo scritto c’è un’immagine reale, o meglio l’immagine di qualcosa di vero […]. Attraverso le fotografie […] Vittorini si autointerpretò, risalendo non al testo scritto ma alle immagini per così dire iniziali».
Una seconda edizione illustrata viene pubblicata nel 1973; le fotografie, questa volta, sono di Elio Ragazzini e il progetto è commissionato dalla Olivetti. Sebbene il volume non abbia potuto ottenere il benestare di Vittorini, morto ormai da sei anni, la selezione di fotografie sarebbe piaciuta all’intellettuale di origini siciliane per la carica simbolica delle immagini scelte, che consuona perfettamente con la natura realistico-simbolica del romanzo.
La vicenda testimonia il continuo lavoro dell’autore sul testo: come i migliori scrittori, egli non si dà pace, nemmeno quando l’opera è stata pubblicata, ma ritorna ossessivamente sui propri passi; la storia che vuole raccontare sembra, così, non avere mai fine. Vittorini posticipa all’infinito non solo la vera conclusione dei libri che scrive, ma anche quella dei romanzi che legge: «di tutti i libri che mi piacciono straordinariamente non conosco le ultime dieci o venti pagine. Ho dovuto sempre fermarmi prima della fine. Come se non volessi esaurirli. Come se volessi riservarmi un ignoto in loro. Ho letto quindici volte il Robinson […] ma ancora ho da conoscerne le ultime trenta pagine. Ho letto dodici volte Guerra e pace di Tolstoj ma non ho ancora letto (nemmeno una volta) il suo ultimo capitolo. Idem per Moby Dick che ho letto cinque volte. Coi libri suoi questo mi è successo per Farewell to Arms […] è uno dei libri coi quali voglio continuare a vivere, e voglio che non finiscano», scrive a Ernest Hemingway nel marzo del 1949.