Voci nascoste – Una ricchezza da custodire

Nei giorni scorsi ho ascoltato il podcast “Voci nascoste”, scritto da Valerio Millefoglie e raccontato da Mario Calabresi. Insieme a tre fotografi, i due hanno attraversato l’Italia alla ricerca delle minoranze linguistiche con una storia antica e un presente ancora vivo. Hanno spaziato dalla Val d’Aosta al Salento, sulle tracce del patois e del griko, fino all’arbëreshë della Piana degli Albanesi in Sicilia.
Ancora oggi numerose persone tengono insieme tradizioni e secolarità semplicemente parlando. Non si tratta solo di anziani che hanno assorbito queste lingue antiche sin da bambini, ma anche di giovani che scelgono di impararle per riscoprire le proprie radici.
Sicuramente, le tre puntate mi hanno spinta a riflettere molto su quanta ricchezza dimenticata, o perlomeno trascurata, abiti le nostre valli e i nostri paesi, e su quale sia il modo più efficace di custodirla.
“Il campanile di Giotto, la Gioconda di Leonardo, per me che non ho opere monumentali da presentare ai turisti, sono la mia lingua. Lingua inquinata, spezzettata, inacidita con gli escrementi di volatili come monumento trascurato, annerita dallo smog, in pericolo costante di distruzione, ma pur sempre la mia opera architettonica più bella, il capolavoro d’arte della mia civiltà”
Ecco le parole di una poesia scritta da un membro della minoranza arbëreshë per celebrare la sua lingua, “l’albanese degli italiani”, derivata dagli albanesi che nel ‘400 giunsero sulle coste italiane per sfuggire alla dominazione turca.
La lingua è un “monumento vivente” in grado di stabilire un contatto con le civiltà del passato al pari delle testimonianze archeologiche. Anzi, essa dà la possibilità di immergersi ancora più autenticamente nel vissuto delle generazioni che ci hanno preceduti, soprattutto quando rappresenta l’unica eco del passaggio di popoli lontani. C’è una parola arbëreshë, kùjtimi, che indica il “ricordo attivo”, lo sforzo compiuto per mantenere vivo il legame con il passato e con l’identità dei propri antenati. Allo stesso modo, il griko è un ponte tra il tacco d’Italia e i greci all’altra sponda dell’Adriatico, il segno di un’unione cominciata in epoca bizantina o addirittura con la colonizzazione della Magna Grecia.
Trattandosi di lingue della “povera gente”, esse non solo rispecchiano il modo di vivere e di pensare di un popolo, ma sono anche intrise di atti e sofferenze quotidiane. Il patois, per esempio, la lingua delle pattes, che in francese significa “zampe”, è la lingua della terra, legata ai campi e agli animali. È il riflesso di un mondo contadino legato alla concretezza, in cui i concetti astratti non esistono e devono perciò essere espressi attraverso perifrasi.
Una delle sfide dei protagonisti del podcast è proprio quella di adeguare le lingue alle esigenze della contemporaneità. È il caso del giovane cantastorie e rapper valdostano Fabian Lucianax, che, insieme alla sua compagnia teatrale, crea contenuti per tenere vivo il franco-provenzale, anche attraverso l’introduzione di neologismi.
Ciò che emerge dai tre episodi, dunque, è che la contaminazione con la realtà “dominante” è inevitabile, e una chiusura alla realtà circostante risulta controproducente. Tuttavia, come osservano gli autori del saggio “Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza”, a cui il podcast è ispirato, “la lingua (…) può essere un elemento di differenza. E di conservazione delle differenze. Un antidoto a quel tipo di potere che – consciamente o inconsciamente – uniforma e appiattisce”.
Insomma, sebbene non sia possibile riportare le minoranze linguistiche al fasto di cui godevano nel passato, conoscerle ed interessarsi ad esse è prezioso. Si tratta di un’integrazione che può colmare le lacune dovute all’inconsapevolezza del nostro passato e fungere da legante per inserirci nel futuro con un’identità più complessa e sfaccettata.



Un normale ragazzo come pochi

A te, di cui porto lo stesso cognome, e del cui coraggio vorrei avere anche solo un briciolo.

 

Di solito la Camorra non ce l’ha con i giornalisti. 

Per te, invece, anche i camorristi hanno iniziato a leggere il giornale.

Evidentemente, gli articoli firmati “Giancarlo Siani”, scritti mentre eri un precario relegato alla cronaca nera della sezione di Torre Annunziata de Il Mattino, avevano urtato qualcosa di grosso. 

Ora, su quella parete in via Romaniello, resta il tuo sorriso brillante sotto gli occhiali rotondi. Alcuni scorci del tuo volto in vernice bianca e grigia – come la carta del giornale, il tuo campo di battaglia – altri in vernice verde acido, come la tua inseparabile Citroen Mehari, l’unico particolare che ti rendeva meno ordinario degli altri ventiseienni napoletani.

Su quel sedile, la sera del 23 settembre 1985, la tua testa si reclinò grondante di sangue. Discretamente, senza particolare scalpore.

Eri solo un ragazzo assetato di vita e di cambiamento, eppure, ti spararono 4 colpi.

Era il periodo della guerra tra i clan, all’inizio degli anni ‘80. A causa del terremoto e dell’elevatissimo tasso di disoccupazione, le famiglie Bardellino, Gionta e Nuvoletta avevano fatto dei paesi circumvesuviani il loro regno: le loro dimore lussuose svettavano in mezzo alle macerie e alle abitazioni di fortuna della popolazione; schiere di giovani disoccupati venivano arruolati nel giro di spaccio di eroina. 

In quel clima, la tua macchina da scrivere era la portavoce dei disagi e delle ingiustizie della gente comune.

Sei sempre stato intraprendente. Ti gettavi a capofitto tra manifestazioni, ricerche e collaborazioni con diverse testate in modo del tutto naturale, senza discorsi idealistici o presunzioni di eroismo. Anzi, nemmeno immaginavi di averne bisogno. 

Semplicemente, ti eri fatto carico della missione di informare le persone, di dare nomi e volti al marcio che tutti conoscevano, ma di cui nessuno voleva parlare.

Forse non realizzasti la portata di ciò che avresti scritto quando ti proposero una sostituzione estiva nella sede principale del Mattino, a Napoli. 

“Nonna manda il nipote a vendere l’eroina”, questo il titolo del tuo ultimo articolo, che denunciava lo scandalo dei minori coinvolti nel traffico di droga.

Grazie alla tua determinazione, chiaristi gli intricati rapporti di alleanze e inimicizie tra le famiglie camorriste della zona, e scopristi anche le loro relazioni con la mafia corleonese di Totò Riina.

Ma quello che pubblicavi sul giornale era solo la punta di un iceberg che stavi indagando ben più in profondità.

Qualcuno dice che i giornalisti vengono uccisi non per quello che hanno scritto, ma per quello che stanno per scrivere. Forse è per gli appunti gelosamente custoditi nel tuo diario che i Nuvoletta decisero che tu dovevi morire. 

Avevi telefonato a tua madre dicendole che saresti tornato a casa, perché non eri riuscito a comprare i biglietti per il concerto di Vasco Rossi a cui quella sera desideravi tanto partecipare. Ma, prima che potessi scendere dalla Mehari, due ragazzi ti si avvicinarono con le pistole puntate.

Ci sono voluti quasi vent’anni per ottenere le sentenze definitive, però, da quando quegli spari risuonarono per via Romaniello, diventasti un simbolo. Da allora, rappresenti la lotta di chi si rimbocca le maniche senza stare a congetturare sulle conseguenze, rappresenti il sudore e la fatica di scelte vissute e rinnovate attimo per attimo, rappresenti la certezza che, per essere eroi, non bisogna necessariamente ricercare le prime pagine. Anche il cantuccio in una rubrica di nicchia è prezioso

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