Ognuno nella vita ha le sue passioni, e non è per forza detto che a tutti debba piacere la poesia. Da un punto di vista editoriale la poesia non vende più molto perché è un prodotto letterario che si rivolge a pochi. C’è solo un caso in cui invece si registra una tendenza diversa, ed è quello degli Instapoets: poeti, di un’età generalmente compresa tra i 18 e i 34 anni, che pubblicano le loro poesie su Instagram o Tumblr. Tramite il canale dei social, infatti, riescono a rivolgersi a molte più persone, e finisce che è interesse delle stesse case editrici contattarli e pubblicarli.
Insomma, gli Instapoets sono un fenomeno oggettivamente interessante. Tra questi però c’è un personaggio in particolare che mi interessa, che negli ultimi anni ha avuto molto successo e che sarebbe bello si conoscesse un po’ di più anche qui da noi: parlo di Rupi Kaur, giovane Instapoets di origini indiane. Rupi Kaur è una di quelle persone che, anche nei momenti di massima incertezza esistenziale, ti fanno venire voglia di alzarti dal divano, prendere in mano la tua vita e fare, fare cose, perché da qualche parte si può sempre arrivare.
Di Rupi Kaur, negli Stati Uniti, si sta parlando molto, soprattutto da un anno a questa parte. Ma c’è stato un momento, nel 2015 in cui il suo nome era circolato ovunque, anche in Italia: chi ricorda?
Ma procediamo per gradi.
Rupi Kaur ha 24 anni. È nata a Punjab, in India, ma a quattro anni si è trasferita in Canada con la famiglia, e oggi vive a Brampton, in Ontario. La madre le ha trasmesso la passione per il disegno e da sola invece ha sviluppato quello per le parole. Da piccola sognava di diventare un’astronauta o una stilista, e invece inizia presto a scrivere poesie, come se fosse una specie di impulso: scrive per i compleanni dei suoi amici, ma soprattutto, al liceo, inizia a diffondere su un blog le sue poesie, restando però anonima. «Non ho iniziato a scrivere ponendomi uno scopo preciso. In realtà lo facevo per me, perché cercavo una forma di espressione che potesse essere catartica e non avevo assolutamente pianificato di condividere i miei lavori online», racconta Rupi durante un’intervista. È solo quando inizia il college, alla University of Waterloo, dove studia retorica e scrittura, che inizia anche a pubblicare online le sue poesie con il proprio nome, senza più avvalersi dell’anonimato. Nel 2013 si iscrive a Tumblr, dove condivide tutte le poesie che aveva scritto fino a quel momento (e non erano poche), ottenendo dei buoni risultati e una buona visibilità. Nel 2014 invece si iscrive a Instagram, e inizia anche ad accompagnare le sue poesie con illustrazioni.
Le poesie di Rupi Kaur sono scritte in versi, tutte in minuscolo e senza segni di interpunzione. Una scelta, questa, che deriva dal desiderio di rendere omaggio alla sua cultura indiana di origine, e in particolare all’alfabeto Gurmukhi, dove tutte le lettere sono uguali, e hanno lo stesso valore.
«Una rappresentazione estetica di quello che vorrei vedere nel mondo: più parità e più uguaglianza».
I temi che Rupi ha scelto di trattare sono molto vari e complessi: lo stupro, l’alcolismo, le dipendenze, le rotture sentimentali, la depressione, la felicità, ma soprattutto riflessioni su cosa significhi, oggi, essere una donna. Non solo da un punto di vista sociale, ma anche e soprattutto da un punto di vista fisico e biologico.
Durante un’intervista, in occasione della festa della donna, Rupi ha spiegato che affrontare questi temi non è una questione di scelta ma di necessità, perché, da persona che ama moltissimo la poesia e che divora libri, si è accorta che questi aspetti non sono abbastanza rappresentati.
«Non so come sia successo ma un giorno, una ragazza che mi seguiva da Seattle, mi ha contattata, commentando una poesia che avevo scritto sulle molestie sessuali, e mi ha detto: le tue poesie mi fanno davvero sentire come se fossi una donna. E non so perché, ma tra tutti i commenti che ho letto negli anni, quando ho letto quello ho pensato: non posso fermarmi. E quindi piano piano si è formata intorno a me questa specie di comunità di donne che parlavano di cose comuni che spesso però sono ancora considerate un tabù».
Attraverso la sua poesia Rupi Kaur porta avanti una vera e propria battaglia a favore dei diritti delle donne, contro la misoginia e il razzismo. Per questa ragione, oggi, se apriamo la pagina Wikipedia a suo nome, leggiamo che è una poetessa femminista. Ma qualcuno potrebbe chiedersi in che modo scrivere e postare una poesia su Instagram possa incidere concretamente sulla tutela dei diritti femminili. Ed è qui che entra in gioco l’ episodio avvenuto nel 2015, quello che ha reso famosa Rupi in tutto il mondo (e di cui probabilmente avrete sentito parlare). Avendo sempre avuto un rapporto un po’ complicato con il proprio ciclo mestruale, ed essendosi posta l’obiettivo di affrontare le proprie fatiche esistenziali e i propri disagi attraverso l’arte, a marzo 2015 Rupi ha postato su Instagram una foto di sè stessa, sdraiata sul letto con un pigiama sporco di sangue.
Dopo poche ore però la foto postata ha iniziato a circolare anche al di fuori dei suoi soliti contatti, e a ricevere una serie di commenti misogini e sessisti sulle mestruazioni. Non solo, ma nel giro di un giorno Instagram ha deciso di eliminare la foto, perché considerata offensiva.
Decisa a portare avanti una piccola, ma importante, battaglia personale, Rupi ha ripostato subito la sua foto, non solo su Instagram, ma anche su Facebook, ed è stata nuovamente censurata, finché Instagram non le ha porto ufficialmente le sue scuse.
«Ringrazio Instagram per avermi fatto capire che il mio lavoro è nato per criticare. Avete cancellato la foto di una donna completamente vestita durante le mestruazioni dichiarando che era contraria alle vostre linee guida, quando proprio le linee guida della vostra comunità rendono chiaro che non possa essere altro che un’immagine accettabile. La ragazza è totalmente vestita. La foto è di mia proprietà. Non attacca un determinato gruppo. Non è nemmeno spam. E, dato che non viola le vostre linee guida, continuerò a postarla».
L’anno prima Rupi aveva autopubblicato in formato ebook la sua prima raccolta di poesie e disegni, dal titolo Milk and Honey. La censura di Instagram, e soprattutto la sua reazione, le hanno dato così tanta visibilità che a ottobre 2015 la Andrews McMeel Publishing ha deciso di stampare su carta una seconda edizione del libro, che nel giro di pochissimo è diventato un best seller e a ottobre 2016 aveva già venduto mezzo milione di copie.
Milk and Honey è diviso in quattro sezioni, rispettivamente dedicate alla sofferenza, all’amore, alla separazione e alla resilienza. Ad oggi può essere considerato se non Il manifesto, uno dei manifesti delle donne della nostra generazione.
A luglio 2017 Rupi ha annunciato l’arrivo del suo secondo libro The sun and her flowers, pubblicato poi ad ottobre, e già diventato un successo.
voglio scusarmi con tutte le donne
che ho definito belle
prima di definirle intelligenti o coraggiose
scusate se ho fatto figurare
le vostre semplicissime qualità innate
come le prime di cui andar fiere quando il vostro
spirito ha sbriciolato montagne
d’ora in poi dirò cose come sieteresilienti o siete straordinarie
non perché non vi ritenga belle
ma perché siete ben più di questo
Ogni nome un uomo ed ogni uomo è solo quello che scoprirà inseguendo le distanze dentro sé Quante deviazioni quali direzioni e quali no? Prima di restare in equilibrio per un po’
Sogno un viaggio morbido, dentro al mio spirito e vado via, vado via, mi vida così sia
What does it mean to be a Human today?
“I am one man among seven billion others. For the past 40 years, I have been photographing our planet and its human diversity, and I have the feeling that humanity is not making any progress. We can’t always manage to live together. Why is that? I didn’t look for an answer in statistics or analysis, but in man himself.”
Sono un uomo in mezzo ad altri sette miliardi. Lungo questi ultimi quarant’ anni, ho fotografato il nostro pianeta e la sua diversità umana, e ho come la sensazione che l’umanità non stia facendo alcun progresso. Non sempre possiamo riuscire a vivere insieme. Ma perché questo? Non cerco una risposta nelle statistiche o nelle analisi ma negli uomini stessi.
–Yann Arthus-Bertrand
HUMAN è una raccolta di storie e immagini del nostro mondo, che offre la possibilità di immergersi nel cuore di ciò che significa essere umani. Attraverso queste storie ricche di amore e felicità, ma allo stesso tempo di odio e violenza, HUMAN ci porta a trovarci faccia a faccia con l’Altro, facendoci riflettere sulle nostre vite. Dalle storie di esperienza quotidiana ai racconti di vita più incredibili, questi incontri commoventi esprimono una rara sincerità e sottolineano chi siamo – il nostro lato oscuro, ma anche ciò che ci rende nobili e ciò che ci unisce in modo universale. Il nostro pianeta è reso manifesto nel suo aspetto più sublime attraverso immagini aeree mai viste prima, esprimendo un’ode alla Bellezza del mondo.
A volte la Bellezza si nasconde E quando la si trova è puro stupore
Filmato in 60 Paesi in più di due anni, le 2.020 persone intervistate ci guardano dritto negli occhi e ci offrono le loro storie, raccontatein 63 lingue. Qualunque sia il paese, la cultura, l’età o la religione delle persone interpellate, tutte rispondono alle stesse domande fondamentali sulla condizione umana:
Si sente libero? Qual è il significato della vita? Qual è stata la prova più difficile che ha dovuto affrontare e che cosa ha imparato da essa? Qual è il suo messaggio per gli abitanti del pianeta?
Un’immagine che diventa voce. Una voce che diventa sorriso. O lacrima. Una voce che diventa racconto. Una voce che diventa Vita. Una voce che diventa Umanità.
Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare. Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.
A. Baricco, Oceano Mare
Alla ricerca di chi?
Alla ricerca di che cosa?
Alla ricerca del mare nel mare.
Il pittore di Baricco ha la presunzione e il desiderio profondo di dipingere il mare con il mare. E la sua ricerca è continua: arriverà a dipingere innumerevoli tele, con l’obiettivo di avvicinarsi ogni giorno di più alla sua idea di perfezione artistica. Ognuno di noi ha bisogno di sogni per vivere.
Solo i giovani hanno di questi momenti. Non intendo dire i giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti. È privilegio della prima gioventù vivere in anticipo sui propri giorni, nella bella continuità di speranze che non conosce pause né introspezione. Uno chiude dietro di sé il cancelletto della fanciullezza – ed entra in un giardino incantato. Là persino le ombre rilucono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha un suo fascino. E non perché sia una terra tutta da scoprire. Si sa bene che l’umanità intera l’ha percorsa in folla. È la seduzione dell’esperienza universale, da cui ci si attende una sensazione singolare o personale: un po’ di se stessi.
J. Conrad, La linea d’ombra
Alla ricerca di chi?
Alla ricerca di che cosa?
Alla ricerca del tempo indefinito dell’essere adulto.
E così che il Capitano di Conrad si ritrova a dover affrontare la linea d’ombra, che non gli permette di conoscere ciò che sta al di là, ciò che lo aspetta. Galleggio alla ricerca di un me stesso con il quale poter dialogare ma questa linea d’ombra non me lo fa incontrare.
Ricerca di un viaggio, che è attesa e domanda, feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi.
Alla ricerca di chi?
Alla ricerca di che cosa?
Coraggio.
Domani andrò giù al porto E gli dirò che sono pronto a partire Getterò i bagagli in mare, studierò le carte e aspetterò di sapere Per dove si parte, quando si parte E quando passerà il monsone dirò: Levate l’ancora! Dritta, avanti tutta Questa è la rotta Questa è la direzione Questa è la decisione
(Humans, Like you: a Milano lo street art solidale di The Big Now in favore di Emergency, 17 luglio 2017, ASSOCOM.org)
C’è chi viaggia per passione.
C’è chi viaggia per lavoro.
C’è chi viaggia perchè la sua passione è diventata un lavoro.
E c’è chi viaggia per necessità, per salvezza.
Sono viaggi della speranza questi, attraverso il deserto e il mare, delle vere e proprie odissee che non sempre hanno un lieto fine. Sono viaggi alla ricerca di un posto migliore, dove la propria vita è al sicuro e non rischia ogni giorno di incontrare la morte. Si decide di partire, senza “se” e senza “ma”, qualunque cosa accada, perchè la Speranza è insita nell’uomo.
E chi intraprende questi viaggi sono uomini, donne e bambini, proprio come ognuno di noi, anche se spesso la loro dignità umana è messa in dubbio.
Sono “Humans like you”, che ricercano una vita migliore: perchè noi sì e loro no?
(HUMANS, LIKE YOU: la Street Art di The Big Now a Milano per Emergency, Fabio Casciabanca, 18 luglio 2017, NinjaMarketing.it)
“However long it takes us, we are okay.
To be or not to be: that is the question. And we will be, right?”
Essere consapevoli di ciò che accade attorno a noi e conoscere la realtà vissuta da questa umanità è il primo passo per poter aiutare e dare il proprio contributo.
E l’arte può essere un mezzo per far conoscere: il 15 luglio 2017 a Milano, nei pressi di piazza Duomo, otto artisti di strada hanno raccontato la tragedia umana dei migranti attraverso le storie di Emergency, con l’obiettivo di sensibilizzare e tenere alta l’attenzione sul tema.
Perché le storie e i drammi di ogni uomo, sono le storie e i drammi dell’intera umanità.
Ore 8.02. Partenza dalla stazione centrale di Tokyo. Destinazione: Kyoto. Attenzione signori, si chiudono le porte. Ci lasciamo alle spalle la grande metropoli, pronti per una nuova avventura.
Dal finestrino sfilano diversi paesaggi: campi, abitazioni, colline, foreste di bambù, grattacieli e poi di nuovo campi. A volte sembra che esista una città unica.
È questione di un attimo: gli occhi hanno giusto il tempo di percepire un’immagine che questa è già subito svanita. Viaggiamo ad alta velocità: 300 km/h. E in circa 3 ore riusciamo a percorrere una distanza pari a 400 Km. Il Giappone viaggia veloce.
Il battito del mio cuore è irrequieto, un misto di ansia e aspettativa. È in attesa di un nuovo piacere, di cui non conosce il retrogusto.
All’arrivo siamo avvolti da un’ondata di pendolari. Le persone, scese, si dirigono con sicurezza e decisione verso un’altra meta. Sembra che non ci sia tempo da sprecare.
Le scritte in giapponese non aiutano molto e così decidiamo di affidarci a una cartina di fortuna e alla guida della Lonely Planet, sperando di trovare la giusta direzione al primo colpo. Evidentemente dai nostri visi traspare una forte insicurezza, tanto che si avvicina a noi una signora che, con un inglese un po’ impacciato, ci domanda se può aiutarci con un sorriso sul volto. Sì, grazie, molto gentile. Stiamo cercando la Soy Guest House. Saprebbe indicarci?
Osserva con attenzione la cartina e l’indirizzo su Google Maps. Tranquilli, posso accompagnarvi io.
È puro stupore: ho incontrato la bellezza in questa donna, in modo del tutto inaspettato.
La seguiamo e ci facciamo guidare all’interno della città. Ci muoviamo tra strade affollate, tipiche di una grande metropoli, e piccoli quartieri che svelano la Kyoto più antica e tradizionale. Si mescolano il nuovo e l’antico e lentamente vengono alla luce tutte le sfaccettature di questa città del Sol Levante.
Osservo attorno a me: tutto è così diverso, tutto è così affascinante. Cammino con lo zaino sulle spalle in uno stato di perdizione: si susseguono case, negozi, supermercati, bancarelle, passanti, turisti, palazzi, templi dai colori vivaci e sgargianti. Mi faccio travolgere da questa umanità e rimango sospesa, a bocca aperta e con le braccia abbandonate.
Luna (così si chiama la nostra gentile accompagnatrice) ci rivela il suo amore per questa città: son nata e vissuta qui. Ho viaggiato molto in giro per il mondo ma Kyoto rimarrà sempre la mia casa. È qui che si trova il mio cuore.
Dopo poco arriviamo alla nostra destinazione e la ringraziamo enormemente per la disponibilità: Arigato Luna. Addio.
La guest house in cui trascorreremo qualche notte si rivela essere molto carina e particolare. La nostra camera dà su un piccolo giardino e ha un piano rialzato, ricoperto con tatami e su cui, per la notte, si può stendere un futon (tipico materasso della cultura giapponese utilizzato per dormire).
Posiamo i nostri zaini, ci rifocilliamo e siamo pronti a ripartire. Dopo aver consultato la guida, decidiamo di incamminarci verso Il Kijomizu-dera, uno tra i più frequentati ed interessanti templi buddhisti della città.
Si erge su una delle colline che abbracciano la città e che domina il bacino di Kyoto. Il complesso fu fondato nel 798 ma gli edifici attuali sono ricostruzioni del 1633. Oggi è uno dei siti più emblematici della città.
Veniamo subito accolti da un imponente edificio, lo Hondō, contornato da un vasto portico colonnato che si affaccia sulla collina. I colori sono intensi: arancio, rosso, verde. Ripresi anche sui kimono di alcune giovani ragazze che, come noi, si godono il fascino di quel luogo.
Il complesso è completamente immerso nella natura, il che lo rende ancora più suggestivo, e circondato da una miriade di statue e lanterne in pietra.
Ci spostiamo tra padiglioni e santuari, pagode e piccoli templi in legno, decorati con nastri o piccole bandiere colorate, in ricordo di preghiere espresse da qualche fedele. L’aria è impregnata da un odore dolceamaro: è incenso. Viene utilizzato durante le cerimonie religiose o acceso davanti ad immagini buddhiste. Dà un piacevole senso di rilassatezza.
Lungo il percorso incontriamo anche un anziano monaco che gentilmente ce ne offre alcuni bastoncini.
Ci ritroviamo così lungo le vie dell’antica Kyoto, costellate di negozi che vendono artigianato tradizionale e piccoli ristoranti con specialità gastronomiche locali. Queste si ergono lungo pendii più o meno ripidi, collegati da un’infinità di scale. Ci inoltriamo in questi vicoli e ci facciamo guidare dal vociare ininterrotto dei negozianti: quadri, teiere, ciotole, vestiti, statuine, cartoline. Sembra una festa, tutti sembrano preda dei preparativi. Ad un certo punto, il mio sguardo è catturato dal passaggio di una ragazza che subito si distingue dalle altre: è una geisha. Il suo viso è di un bianco pallido ma spiccano i suoi occhi, contornati da un ombretto rosso, come le sue labbra. I capelli sono raccolti in un’acconciatura complessa e, tra una ciocca e l’altra, si distinguono dei fermagli preziosi o dei boccioli di fiori. Il suo kimono è di un rosa tenue, con qualche sfumatura di rosso e bianco. Ha un passo sicuro, veloce, sembra quasi non voglia farsi notare ma è ingannata dalla sua stessa grazia. Posso fotografarti? Mi risponde con un cenno del capo e un timido sorriso. Arigato. Grazie. E come è comparsa, così sparisce velocemente.
Il sole è ormai quasi sceso all’orizzonte e il cielo si tinge di incantevoli sfumature arancioni e rosate.
Al termine di una scalinata, ci ritroviamo all’inizio del Tetsugaku-no-Michi, il cosiddetto Sentiero della Filosofia. Prende il nome da un famoso filosofo del XX secolo, Nishida Kitarō, che era solito passeggiare qui, perso nei suoi pensieri. Il percorso, fiancheggiato da un piccolo canale, si snoda fra una gran varietà di piante, cespugli e alberi in fiore che ci regalano una sfilata di colori. È molto tranquillo e ci lasciamo cullare dalla piacevole sensazione di benessere mentre un vento leggero ci accarezza.
Dopo poco più di mezz’ora, un intenso vociare ci fa capire che ci troviamo in una delle vie principali del centro città. I lati della strada sono costellati di bancarelle che si estendono a perdita d’occhio. Veniamo colpiti dalla quantità di teiere, ciotole, tazze, posate, vasi, tutti in ceramica decorata con splendidi disegni e motivi orientali. A causa della luce sempre più scarsa, vengono accese numerose lampade: come delle lucciole indicano il percorso ai viandanti.
È pura poesia.
Ci lasciamo trasportare, spinti dalla curiosità. Respiro a pieni polmoni questa sensazione di serenità e bellezza. E chiudo gli occhi. Sul mio viso nasce un sorriso e ’l naufragar m’è dolce in questo mar.
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