«Un filosofo greco aveva immaginato che la parola “bello” (kalòs) derivasse dal verbo “chiamare” (kalèo). Si tratta, a rigore, di una falsa etimologia, ma l’intuizione di fondo è vera. La bellezza è una chiamata, le cose belle ci invitano al compimento, perché loro compiute lo sono. Se avessero la parola la userebbero in forma di domanda: e tu a che punto sei della tua pienezza? Una luna in un cielo blu cobalto, un mare di luce screziata dalla onde, gli occhi chiari di un’anima nitida, un quadro, una statua, una melodia, una poesia, un vestito, un lavoro ben fatto, un gesto elegante, sono altrettante lampeggianti chiamate per nome: a che punto sei? Che ne fai dei doni della vita? Se solo avessimo più deserti e più cieli da ascoltare».
Ormai sono passati anni da quando per la prima volta incontrai queste parole. Furono come un fulmine a ciel sereno, seppero far tremare qualcosa in me. Mi sentivo appellata: «E tu, Margherita, a che punto sei?».
La risposta non la trovai al tempo e nemmeno adesso è così nitida. Ma dopotutto il modo in cui osserviamo e viviamo segue le stagioni. Si pensi alla notte. Alle volte è buia, nera, pesante, talmente scura da spogliarci dalle nostre corazze quotidiane. Ed ecco che spuntano le nostre fragilità, la nostra inadeguatezza: è Inverno.
Ma la notte sa essere anche altro. Sa essere soffitto di sogni appesi alle stelle, ad esempio. È Estate o Primavera.
Ma il ritmo delle stagioni del cuore è meno regolare, è così imprevedibile.
Questa risposta che si è ormai fatta costante ricerca, trova un poco di sollievo in libri, opere, pensieri volanti. O anche poche righe lette di sfuggita nello sfogliare di pagine:
R. M. Rilke, Lettere ad un giovane poeta
«Tu sei così giovane, così al di qua di ogni inizio, e io ti vorrei pregare quanto posso di aver pazienza verso quanto non è ancora risolto nel tuo cuore, e tentare di avere care le domande stesse come stanze serrate e libri scritti in una lingua molto straniera.
Non cercare ora risposte che non possono venirti date perché non le potresti vivere.
E di questo si tratta: vivi ora le domande.
Forse ti avvicinerai così, a poco a poco, senza avvertirlo, a vivere la risposta».
Ed è incontrando queste parole che le mie stagioni cominciarono ad avere un proprio ritmo, a volte lento, a volte baldanzoso. Cominciai a vivere le domande che nascevano dentro di me, a prendermene cura, a farle crescere. E a volte sono anche riuscita a far nascere le risposte, come frutti maturi.
Bisogna saper ascoltare i propri deserti e i propri cieli. E attraversarli.
E tu, caro lettore, sappi renderti terra fertile.
Buon viaggio!
«Mi piace tanto pensare con la mia testa e non stare lì a sentire cosa ne pensano gli altri.
Quella è la libertà, voglio essere una donna libera come lo sono stata»
Margherita Mo, 95 anni, partigiana
«Quello che può essere incoraggiante e particolarmente importante è vedere che le donne possono farcela, anche in ambiti in cui non ce ne sono molte».
Samantha Cristoforetti, 41 anni
«Le donne hanno bisogno di trovare in un’altra donna la dimostrazione che è loro possibile essere e fare. L’esempio le aiuta ad acquistare una maggior fiducia in sé stesse».
Tina Anselmi, Primo Ministro della storia del nostro Paese
«Penso che questo movimento sia la cosa più importante che sia successa alle donne dal diritto di voto»
Asia Argento e Laura Boldirni sul palco del Women in the World Summit
«La fonte del mio potere non è la mia bellezza, ma la volontà di condividere le mie più profonde debolezze. La vera bellezza è stare bene con l’essere voi stesse»
Ashley Graham, modella curvy
«Io non urlo, non salto in giro
non devo alzare davvero la voce
perché sono una donna
in modo fenomenale»
Maya Angelou, poetessa e attivista americana
«Non importa se sei un ragazzo o una ragazza, se ami qualcosa devi buttarti al 100%»
Rosalee Ramer, la più giovane pilota professionista di Monster truck
«Canto soprattutto delle donne somale che vivono in Inghilterra, delle donne della mia famiglia, della loro straordinaria forza e saggezza. Sono le donne che ispirano la maggior parte dei miei componimenti, perché in loro si riflette l’essenza dell’amore e della vita»
WiShire, Poetessa
«Sono qui oggi per riconoscere e rappresentare le ragazze afroamericane le cui storie non sono in prima pagina su tutti i giornali nazionali»
Naomi Wadler, 11 anni, alla March for Our Lives di Washington
«Voglio scusarmi con tutte le donne
che ho definito belle
prima di definirle intelligenti o coraggiose
scusate se ho fatto figurare
le vostre semplicissime qualità innate
come le prime di cui andar fiere quando il vostro
spirito ha sbriciolato montagne
d’ora in poi dirò cose come
siete resilienti o siete straordinarie
non perché non vi ritenga belle
ma perché siete ben più di questo»
Rupi Kaur, Poetessa
Auguro alle donne di riuscire a creare solidarietà fra di loro, a fare gruppo, a unirsi. Le donne dovrebbero crearsi delle radici solide e intrecciate tra di loro, sarebbe un grande passo avanti, per tutti.
Ritrovo per le 8.30 al bar per una colazione condita di Senegal.
Arrivo un po’ in ritardo ma fortunatamente non sono l’unica: dopo poco mi raggiunge Elena, che mi accoglie con un sorriso. Dentro ci aspettano Miriam e Alice: mi presento con la prima, abbraccio la seconda e ci sediamo al tavolo. Ordiniamo un caffè caldo e una brioche ripiena.
Attorno a me sento come un odore lontano di Africa e immagino i cuori e le menti di Alice, Elena e Miriam tornare a rivivere le sensazioni e le emozioni di qualche anno fa, una malinconia velata di piacere a raccontarla.
Questo il loro viaggio.
Al terzo anno di Educatore Professionale – inizia Elena – ci è stato proposto di andare a fare la tesi all’estero e l’Università proponeva un progetto, con un’associazione di Torino (Jamm), che consisteva nell’andare a fare un tirocinio esperienziale di due mesi in un villaggio del Senegal, Adeane, in cui l’associazione stessa aveva sede: saremmo entrate in contatto con la cultura del posto e tutto ciò che comporta l’aspetto educativo, con il fine di sviluppare dei progetti da realizzare nell’arco della nostra permanenza.
Io e Miriam siamo state giù da metà novembre a metà gennaio, a cavallo tra il 2014 e il 2015, e Alice ci ha poi raggiunte per Natale.
La mia esperienza infatti – continua Alice – è stata un misto di vacanza, volontariato e incontri. Sono partita per raggiungere loro due ma io non avevo nessuna competenza nel mondo dell’educativa. Essendo una studentessa di Medicina ho però avuto la possibilità di frequentare il piccolo consultorio medico e ostetrico del villaggio.
Noi siamo partite con un’educatrice, Francesca, che ci avrebbe fatto da tutor, e con altri tre che andavano a farsi un’esperienza di volontariato. La partenza è stata un po’ “allo sbaraglio”, senza nessuna particolare preparazione e informazione sul paese, e siamo arrivate lì abbastamza “ignoranti” di ciò che avremmo incontrato. Siamo arrivate a Dakar in aereo e poi ci siamo dirette ad Adeane, a bordo di una station wagon per una durata di circa 8-10 ore: ma quello è già stato fighissimo! Ci siamo dirette verso la regione meridionale del paese, attraversando anche il Gambia, e immergendoci in una natura rigogliosa e molto verde – ricorda Elena con un sorriso sul volto.
Adeane è un piccolo villaggio rurale, costituito da numerose capanne. La sede dell’associazione, dove stavamo anche noi, era poco più fuori, a Dindi, circondata da terreno coltivato, dove abbiamo lavorato anche noi per i primi tempi.
La sveglia suonava intorno alle 8.30, ci dirigevamo verso i campi e bagnavamo la terra. Dopo circa un’ora mangiavamo colazione, molto abbondante. O meglio, più che una colazione era un pranzo! Con l’inizio delle scuole, materna ed elementare, è cominciato anche il nostro periodo di osservazione degli stili educativi, per circa una settimana/dieci giorni.
Per quanto mi riguarda, – precisa Alice – la mattina davo una mano agli infermieri, personale tuttofare, che si occupava di assistere le donne durante i parti, di seguire il follow-up dei bambini nei primi 4/6 mesi e delle donne durante la gravidanza. Inoltre c’era un piccolo triage dove si selezionavano i pazienti che potevano essere seguiti da loro in ambulatorio e chi invece necessitava di un controllo medico e quindi veniva inviato all’ospedale di Ziguinchor. Raggiungevo l’ospedale infermieristico in moto, mentre solitamente al ritorno facevo una passeggiata. Attraversando il villaggio venivo fermata da tutte le persone che incontravo ed era sempre un momento di confronto e risate.
Nel pomeriggio invece seguivo il lavoro di Elena e Miriam dando il mio contributo in base alle loro necessità.
Concluso questo, era il momento delle grandi partite di calcio nella piazza principale: il più sentito dal villaggio e al quale non mancavamo mai. Corse, risate, chiacchierate, bimbi, giochi, amicizie. Era tutto e si faceva tutto. Quando calava il buio significava che era il momento di tornare a casa.
Dopo 20 minuti di camminata per la campagna arrivavamo alla nostra abitazione dove Lai, il nostro fratellino senegalese, ci aspettava per cucinare e cenare tutti insieme. A volte avevamo ospiti, a volte no. In Senegal nessuno ti invita a casa, ma tutti cucinano un piatto in più, almeno se arriva qualcuno hai qualcosa da offrirgli. La serata si passava davanti al fuoco facendo il caffè e il thè senegalesi e sentendo storie di una cultura lontana, ma affascinante, che ci faceva sognare.
Abbiamo vissuto il paese attraverso gli occhi di Paco, ragazzo di 27 anni, nato e cresciuto ad Adeane, che è stato il nostro punto di riferimento e intermediario con la comunità durante la nostra esperienza. È stato un confronto bellissimo: Paco ama il Senegal e parlando con lui te ne puoi solo innamorare, e ama la nostra amica Francesca, con cui è fidanzato, e quindi anche l’Italia.
La sua è una famiglia allargata: oltre a mamma, papà e sette-otto fratelli, con loro vivevano anche altri componenti, non facenti parte del legame famigliare ma considerati tali.
Ad Adeane non esistono le porte di casa, non esistono muri e barriere. Lì ho capito cosa significa fare parte di un gruppo, condividere le gioie e i dolori, le feste e i momenti di difficoltà. Sei sempre il benvenuto. Ad esempio, nel villaggio c’è una sola televisione e la si guarda tutti insieme, perché non è importante cosa vedi, ma è una scusa per riunirsi, per parlare. Da noi la televisione è uno strumento per assuefarsi: ti siedi e non pensi e soprattutto ti isoli. In Senegal no, sei sempre parte di qualcosa e non ti senti solo. Il villaggio si prende cura di te e tu ti prendi cura di lui.
Alla fine sei figlio un po’ di tutti, sei figlio del villaggio. Senti di appartenere a qualcosa e non a qualcuno.
Abbiamo vissuto e conosciuto l’Umanità con la U maiuscola, quella che ti fa sentire a casa non appena arrivi, che ti circonda sempre di persone curiose e pronte a farti mille domande, di bambini timidi e un po’ spaventati, ma non appena incroci il loro sguardo si fidano, si avvicinano e toccano la tua pelle bianca perché vogliono capire come mai sei così pallido. Di donne che ti chiamano in casa per farti assaggiare cosa stanno cucinando, di uomini che passando in moto urlano il tuo nome storpiato e ti salutano, di ragazzi che si mettono a ballare e ragazze che ti fanno le treccine ai capelli. Insomma è l’Umanità che ti fa capire che non esiste un io e un tu, ma esiste solo un NOI.
Uno degli aspetti che abbiamo apprezzato maggiormente è stato il rito di iniziazione dei giovani uomini. Si tratta di una prassi molto sentita all’interno del villaggio e velata da un alone di sacralità. Vi è addirittura uno spirito – il Kankouran – che ha il compito di proteggere i ragazzi durante il periodo di isolamento (circa un mese) all’interno della foresta.
Al giorno d’oggi le pratiche si sono modernizzate, per cui i ragazzi non sono completamente isolati dalla comunità ma hanno la possibilità di continuare a frequentare la scuola e anche la famiglia.
In particolare noi avevamo assistito alla parata conclusiva in cui i ragazzi avevano ormai terminato l’iniziazione, in seguito alla circoncisione, e erano stati riconsegnati al villaggio, ormai uomini.
Era stata una festa enorme, al ritmo di tamburi e canti tradizionali, caratterizzata da una miriade di colori, che ti avvolgevano come pioggia. Ti immergevi completamente nello spirito della festa, arrivavi davvero a crederci.
La cultura laggiù è un misto di tradizioni animiste antiche e dell’islam moderno. Non c’è estremismo religioso, molte famiglie, se non tutte, hanno nonni di culture e fede diversa, ma tutti vivono insieme rispettando gli usi e spesso fondendo insieme aspetti di diverse religioni.
É così affascinante vedere come la tradizione e il patrimonio culturale possano essere collante tra le generazioni.
Ti porti nel cuore la nostalgia di questi spazi così aperti, del fatto che “quello che è mio è tuo”.
Ti fa riflettere come sia importante il fatto di creare una rete, senza alcun interesse di ritorno: tu sei un punto di riferimento per la comunità perché dev’essere così e basta, perché te lo senti dentro. «Si mangia tutti da un unico piatto».
Il nostro, però, non vuole essere un racconto da “mal d’Africa”. Siamo tornate consapevoli del fatto che non potremmo mai vivere laggiù. Abbiamo conosciuto un mondo che ci ha aperto degli orizzonti di riflessione ma che deve ancora crescere sotto molti aspetti, che presenta i suoi limiti. È un altro approccio alla vita.
Nonostante ciò, il Senegal è diventato parte di noi.
Un Grazie immenso a Alice, Elena e Miriam che mi hanno contaminato con i loro racconti al gusto d’Africa.
La mia colazione è stato un viaggio alla scoperta di una nuova terra, una cultura antica e radicata, e di un popolo affascinante. Grazie per le vostre storie.
«A sturdy bicycle and a stubborn mind. Sometimes that’s all it takes to make dreams come true. I’m Fredrika from Sweden. 2.5 years ago I kicked off this solo bicycle journey around the world and let me tell you – it’s been quite a ride. Best part? The biggest adventure is yet to come. Welcome!»
È così che Fredrika accoglie i visitatori sul suo blog (www.thebikeramble.com): una ragazza, una bicicletta e un mondo da scoprire. Fredrika Ek è una ragazza svedese di 28 anni e nell’estate del 2015 ha intrapreso Il Viaggio: girare il mondo in sella alla sua bicicletta, durato per circa 3 anni e lungo più di 51000 chilometri. Ha viaggiato attraverso ben 45 nazioni differenti e toccando i 5 continenti.
«Perché? La mia forza trainante è stata l’urgenza di far esperienza di tutto. Volevo andare dappertutto. Incontrare chiunque. Assaggiare qualsiasi tipo di cucina, e conoscere ogni cultura. Volevo vedere ogni panorama e nuotare in tutti i mari: volevo davvero conoscere questo mondo. Ho lasciato molte cose alle mie spalle: la mia famiglia, i miei amici, la mia vita. Molte persone intorno a me e molti miei pensieri mi dicevano che tutto questo non avrebbe funzionato. […] Ci sono stati momenti o eventi che mi hanno fatto pensare di fermarmi e tornare indietro, a casa. Di arrendermi. Ma non l’ho fatto».
Questa incredibile esperienza le ha permesso di esplorare e di vedere un altro mondo: durante il lungo cammino ha incontrato numerosissime persone che hanno saputo accoglierla, ospitarla per un pasto caldo o per una notte e lasciarla ripartire con tutto il tifo possibile.
«Ovunque sia arrivata c’era sempre qualcuno pronto ad accogliermi a braccia aperte. E queste sono le stesse persone che voglio aiutare a mia volta, così il cerchio si chiude».
Fredrika al suo ritorno è infatti stata iniziatrice di una raccolta fondi, tramite ActionAid, basata su piccole donazioni: l’obiettivo iniziale era di arrivare a 40000 euro ma ne sono stati raccolti il doppio.
«è il mio piccolo tentativo di rendere questo mondo un pochino migliore per alcune persone. Sono tornata con l’obiettivo di esprimere quanto il mondo sia bello e quanto sia importante sapersene prendere cura!».
Grazie Fredrika per il tuo coraggio e la volontà di mettersi in gioco e scoprirsi.
Grazie per aver dimostrato la forza di una donna.
A te, buona ricerca!
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