17 Novembre 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Fissavo la sveglia da un po’. Solo che al buio non si vede niente. Provavo a fantasticare su che ora fosse. Il problema è che in quei momenti il tempo perde tutto il suo valore per cui non capisco mai se stiano passando minuti o ore. La sveglia mi spaventa, suonando e accendendosi. Sono le 7,30 e devo scendere dal letto. È tutta la notte che penso e mi diverte la sensazione che mi rimane di essere nel bezzo di un romanzo scritto a quattro mani da me e da Joyce. Vi posso assicurare che non si capisce niente: è tutto così collegato che è impossibile non perdersi. Appena in piedi, tiro su la tapparella di camera mia e apro la porta. Un freddo gelido mi investe, portandosi dietro un brivido rivitalizzante. Vado in bagno sfruttando solo la luce del poco sole che c’è. Torno in camera per cambiarmi e prepararmi a questa giornata. Poi torno in bagno e, mentre mi rado, penso ancora un po’. Il corridoio tra camera e bagno è il sentiero perfetto per pensare camminando e perdendo meno tempo possibile.
Faccio colazione con le fette biscottate, una marmellata pessima che non vedo l’ora di finire e poi il caffè. Quello, invece, è buono e ne compro sempre un pacchetto nuovo ben prima che finisca l’altro perché non vorrei mai farmi trovare impreparato. Metto la camicia più blu che ho e il giubbotto con più tasche che ho. Ci infilo il taccuino e la penna, poi controllo che la penna avesse il tappo. Credo di avere l’interno della tasca piena di righe di penna. Prendo anche il registratore perché non si sa mai. Devo andare ad intervistare il destino, appuntamento alle 8,30 a casa sua, che dista un quarto d’ora con i mezzi dalla mia. Poi lo sanno tutti che con i mezzi non è mai veramente un quarto d’ora, quindi meglio partire prima. Voglio fare una buona impressione. È singolare come io, che ho sempre pensato che chi giudica dalle apparenze non meriti grande considerazione, abbia questa pretesa. La verità è che c’è chi fa retorica, chi esagera, ma tutti quanti, nessuno escluso, giudica su quello che vede, sente, percepisce al primo impatto. Per questo, credo, tutti i passanti che incontri guardano per terra, ascoltano la musica o fissano un punto all’orizzonte: non vogliono giudicare troppe apparenze, altrimenti sai che confusione! Prendo il bus. Convalido il biglietto. Forse sono l’unico. Ci sono stati anni in cui non lo facevo spesso. Non ne vado fiero. Guardo fuori dal finestrino e vedo il caos perfetto di tutti quelli che vanno per la loro giusta strada. Al mattino sanno tutti dove andare. Non mi sembra di notare nessuno che perde tempo come faccio io nel corridoio di casa. Avendo pensato a casa tocco la tasca dei jeans per controllare di aver preso le chiavi. Le ho prese. Una signora mi chiede se scendo per paura di perdersi la sua fermata. La faccio passare. La mia è quella dopo ancora.
Dopo la discesa della signora, prenoto la fermata. Devo ancora decidere quale tra due domande che ho in testa farò per prima. È importante cominciare bene un’intervista. Sono convinto che un’intervista perfetta nasca da una singola domanda. Poi tutto il resto deve venire da sé. Se anche solo qualche virgola è forzata, puoi avere per le mani un titolo, uno scoop sensazionale, una confessione esclusiva, ma ti sei allontanato dalla verità. E questo non è bene. Anche se tutti ti diranno: “Ottimo lavoro!”. L’autobus si ferma e io scendo. Mi ero appena abituato al freddo del bus. Quello fuori è un po’ diverso. Non ho preso i guanti per dare al destino una fredda stretta di mano. “Va bene la cordialità, ma voglio stare sulla realtà, sul concreto. Fuori fa freddo, per intenderci”. È questo quello che voglio fargli capire. Se non lo capirà mi sarò ghiacciato le mani inutilmente. Magari mi offrirà qualcosa di caldo da bere. Anche questo ha un significato in un’intervista. Seguendo le indicazioni che ho, arrivo davanti a un palazzo elegante dove probabilmente vivono studenti in affitto, pensionati e forse qualche famiglia. Se non ho sbagliato ci vive anche il destino. Suono il campanello. Soffio subito nelle mani per scaldarle un po’. Non mi piacerebbe, tra tutte le domande che posso scegliere, esordire con “Posso mettere le mani sul termosifone?”. Questa storia dei guanti è una grandissima stupidaggine. La prossima volta, se dovesse esserci li indosso e poi li tolgo un attimo prima di entrare. Infilo le mani in tasca e mi guardo intorno. Poi do un’occhiata al cellulare: il tipico gesto di chi aspetta un po’ nervosamente. Provo di nuovo a suonare il campanello. Sono sicuro di non avere sbagliato. Il destino mi sta aspettando, eppure non mi apre. Guardo verso l’alto chiedendomi quale potesse essere la sua finestra. C’è un filo della luce che ospita una fila di placidi piccioni. Sembra si stiano scambiando due parole, gli uni accanto agli altri. In quel momento, però, uno di loro decide di lasciar cadere dall’alto un suo ricordo biancastro, dritto sul mio giubbotto. Istintivamente dico “Noooo!” con faccia schifata. Recupero un fazzoletto e comincio a pulire. “Sarà il destino”, penso. La porta si apre.
4 Ottobre 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Ha destato scalpore negli ultimi giorni il discorso del re Harald V di Norvegia, che, in breve tempo, si è conquistato uno spazio nella grande piazza pubblica di Internet. Con semplicità disarmante il sovrano, 79 anni, ha detto che i norvegesi sono quelli del Nord, del Centro e del Sud e anche i provenienti da Afghanistan, Pakistan, Polonia, Svezia o Siria, che vivono in Norvegia, oppure le ragazze che amano ragazze, i ragazzi che amano ragazzi e ragazzi e ragazze che si amano gli uni con gli altri o ancora chi crede in Dio, chi in Allah, chi in tutto e chi in niente. Il discorso si è concluso con una frase di grande significato: ”Spero che possiamo prenderci cura l’uno con l’altro. Che possiamo rinforzare il nostro Paese con fiducia, solidarietà e generosità”. E nella suddetta grande piazza pubblica di Internet c’è chi ha detto che è uno statista illuminato, chi ha affermato che è un buonista lontano dalla gente, chi è convinto che sia un discorso che deve far capire all’Europa quali sono i valori da difendere e chi, invece, sostiene che è facile parlare in questo modo in un’isola felice come la Norvegia, uno di quei Paesi scandinavi che si piazzano sempre ai primi posti nelle classifiche positive europee. Dal mio punto di vista, si può giudicare in modi diversi questo discorso, ma, di certo, non si tratta di retorica, perchè la Norvegia crede realmente nella fiducia e nella solidarietà, nonostante siano attitudini umane rare e difficile, oserei dire addirittura innaturali, viste le costanti mostruosità del nostro tempo, perpetrate da uomini verso altri uomini. Interessandosi ai temi del carcere, della pena e della rieducazione non ci si può non imbattere nel modello Norvegia, che scommette su chi ha sbagliato, in modo da non avere un pericolo o un peso per la società, ma una nuova risorsa. Ci sono dietro questioni etiche e politiche di non poco conto e sarebbe troppo facile schierarsi in una delle due opposte fazioni: chi vuole il perdono assoluto e gratuito, in nome del pietismo, e chi invece sbatterebbe i criminali in galera, garantendo loro che non vedranno più la libertà, per far desistere chi ha intenzione di delinquere. Entrambi sono atteggiamenti lontani dalla giustizia. Nessuno ha la verità in tasca, ma noi proviamo a dare una chiave di lettura sul tema, per incuriosire, far nascere un interesse e, sarebbe importantissimo, delle prese di posizione. Per approfondire le questioni di pubblica sicurezza, così attuali ai nostri giorni, abbiamo provato a osservare l’esempio della Norvegia con i tassi più bassi di recidività e con un alto numero di persone che hanno saputo cogliere la seconda opportunità, a loro riservata, arrivando addirittura a eccellere nei campi più disparati. Per cercare di capire come si vede il sistema carcerario norvegese direttamente da Oslo, abbiamo rivolto qualche domanda a Ingeborg Margrethe Svanes, Senior Advisor del Ministero della Giustizia e Pubblica Sicurezza di Norvegia.
La Norvegia spende molto per ciascuna persona che è in prigione (85000 € all’anno secondi i nostri dati). Pensa realmente che ri-educare sia un vero affare?
Esiste un principio di normalità nella politica di correzione norvegese che significa che la punizione sta nella restrizione della libertà e nessun altro diritto viene rimosso dalla corte di giustizia. Perciò il colpevole condannato ha gli stessi diritti come tutti coloro che vivono in Norvegia. L’ Education Act si applica a chi è in prigione e ci sono anche altri programmi e attività disponibili per i detenuti. L’Agenzia di correzione (agenzia specifica del governo norvegese, ndr) tenta di prevenire le recidive offrendo ai colpevoli, attraverso le loro stesse iniziative, delle occasioni per cambiare il loro comportamento criminale.
La Norvegia ha uno dei sistemi carcerari più moderni in Europa e nel mondo. È possibile esportarlo all’estero, secondo Lei?
La Norvegia mira attraverso la cooperazione internazionale ad assicurare che le sanzioni penali siano comminate in accordo con le leggi e normative internazionali, in particolare la Convenzione dei Diritti Umani. Ci terrei anche a menzionare che attraverso EEA Grants (contributi finanziari, a cui partecipano anche Islanda e Lichtenstein per la riduzione delle disparità economiche e sociali nell’area economica europea (EEA), ndr) la Norvegia sta finanziando varie misure per migliorare gli standard nel sistema carcerario in diverse nazioni europee dell’Est.
Le politiche europee in questi anni sono molto concentrate sulla sicurezza e i cittadini sembrano votare politici che promettono di “chiudere i criminali in galera e buttare via le chiavi”. Cosa insegna l’esperienza norvegese a proposito di ciò?
In accordo con il principio di normalità, il progresso durante la detenzione dovrebbe essere mirato il più possibile al ritorno in comunità. Più è chiuso un sistema, più sarà difficile il ritorno alla libertà. Perciò uno procederà verso un rilascio graduale da prigioni ad alta sicurezza a prigioni di sicurezza minore e possibilmente passando per centri di riadattamento alla vita sociale per ex detenuti (halfway house). Il rilascio su licenza è favorito e il Servizio di Correzione userà i loro poteri descrizionali per organizzare un processo dove lo sconto della pena è influenzato da rischi, esigenze e risorse individuali.
Potrebbe menzionare alcune storie esemplari di persone che vengono da una prigione che hanno completamente cambiato la loro vita? Sono il vero orgoglio della scelta della Norvegia in campo giudiziario?
Uno studio indipendente pubblicato nel 2010 mostrava che il numero di persone che sono state rilasciate dal carcere e sono risultate nuovamente colpevoli entro due anni era al 20%. Per leggere di più circa lo studio si veda:
http://www.kriminalomsorgen.no/getfile.php/2819934.823.xpewptatwc/Nordic+relapse+study+abstract+.pdf. Posso anche rimandare a uno studio sulla recidiva nelle nazioni nordiche che potrebbe essere interessante. Si veda https://brage.bibsys.no/xmlui/handle/11250/195255 per più informazioni.
Secondo Lei, come potrebbe migliorare ulteriormene il sistema carcerario norvegese?
Il Servizio di Correzione ha abbozzato una strategia per le operazioni del periodo 2014-2018, in cui gli obiettivi e le misure sono descritti in maggiore dettaglio. Si veda: http://www.kriminalomsorgen.no/getfile.php/2766216.823.fvprryqpxf/Operations+Strategy+2014-2018.pdf. In più, le informazioni che riguardano il Servizio di correzione norvegese in generale è disponibile in inglese al sito: www.kriminalomsorgen.no.
Ringraziamo la signora Svanes per la disponibilità dimostrata nel rispondere alle nostre domande e sottolineamo come non è detto che quello norvegese sia un modello esportabile in Italia, per le diverse condizioni socio-economiche, ma la scelta dei valori in cui si vuole credere e la gentilezza, disponibilità, competenza e trasparenza delle istituzioni, nei confronti di un ragazzo qualunque di un altro Paese che vorrebbe conoscere informazioni a loro modo delicate, dovrebbero essere posti in cima alla lista delle priorità, sia parlando di Italia sia del tormentato e, ad oggi, quasi impercettibile governo europeo.
18 Agosto 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Poche parole aizzano le folle e le esaltano come: “Chiudere in cella e buttare via la chiave!”; poco importa quale sia l’odioso reato commesso. L’omicida, lo stupratore, il ladro (non l’evasore che è persona per cui è più facile sentire una strana e incomprensibile solidarietà), lo spacciatore o il politico corrotto devono marcire, chi più chi meno, in galera. La questione è delicata perché tocca da vicino le opinioni, mette in discussione la sicurezza personale del singolo, della propria famiglia e (oserei dire soprattutto) dei propri beni. Del resto, nessuno meglio di Fabrizio De André nel suo monologo in musica “Sogno numero due” ha sottolineato quale sia “il ruolo più eccitante della legge, quello che non protegge: la parte del boia”. Nell’ottica di chi è innocente e onesto, dal proprio punto di vista, consegnare alle forze dell’ordine i colpevoli o anche solo i sospettati di esserlo è una ulteriore garanzia di controllo e sicurezza, ma non è con la caccia all’uomo e il giustizialismo esasperato che una società può pensare di stare in piedi. Le norme e le leggi sono fatte per essere rispettate e la loro applicazione deve essere precisa, sensata e inflessibile. Detto ciò, il sistema carcerario italiano è ampiamente insufficiente e, anche se non è così immediato rendersene conto, addirittura pericoloso. La criminalità organizzata spesso si serve delle carceri per raccogliere manovalanza fedele, che non ha prospettive dopo il ritorno alla libertà, per i loro traffici illeciti. L’attuale polemica sul terrorismo dovrebbe far riflettere sul fatto che proprio le carceri sono la migliore palestra per l’indottrinamento, non certo di stampo religioso, ma improntato alla violenza e alla strage, nei confronti di sbandati, vittime di lavaggi del cervello al limite dell’alienazione. Insomma, le carceri vanno rivoluzionate per tentare di assicurare veramente i criminali alla giustizia. Ad oggi, la somiglianza con un covo di criminali ancora più pericolosi è la più fedele ed è, perciò, inaccettabile. In attesa che si apra un vero dibattito costruttivo a livello sociale e parlamentare, in barba a chi continua a spostare il centro dell’attenzione su altri argomenti in modo da poter essere sicuro che non si parli mai di niente, non resta che tentare di andare ad analizzare l’esempio di altri Paesi. Premesso che è doveroso pesare il contesto nella lettura dei dati tra i diversi Stati europei, salta immediatamente all’occhio il tasso di recidività a due anni in Norvegia è al 20% (fonte PLOS One, rivista peer-reviewed a libero accesso della Public Library of Science). In Italia la recidività si aggira addirittura attorno al 70%. Innegabile è il fatto che, quali ne siano le cause, il sistema detentivo italiano è un fallimento. In Norvegia gli accorgimenti sono relativamente semplici: ad esempio, le guardie carcerarie non fanno parte delle forze di polizia, ma compiono un percorso di studi a sé in cui seguono corsi, tra gli altri, di psicologia e la loro formazione è finalizzata al corretto rapporto con il detenuto. Purtroppo la questione centrale in Italia è il sovraffollamento, che contribuisce a creare un ambiente completamente ostile a chi è incarcerato. In Norvegia, che evidentemente non vive di questi problemi, si ritiene che la sola privazione della libertà (per tempi più o meno lunghi a seconda del reato) sia più che sufficiente come pena e quindi il sistema carcerario si adopera per dare l’opportunità a chi ha commesso crimini di uscire dalla propria cella definitivamente, con nuove competenze date dalla formazione sia scolastica che tecnica e, quindi, nuove possibilità nel vasto mondo fuori dal carcere. È tutt’altro che inusuale leggere di imprenditori norvegesi che hanno dato il via alla loro attività dopo essere usciti dal carcere. La prigione di Bastoy, isola formata da un gruppo di case in cui i detenuti sono liberi di lavorare in una segheria per mantenersi, dove si trovano soltanto cinque guardie non armate e il battello di congiunzione con la terraferma è guidato da uno dei detenuti stessi, è un modello internazionale, per chi deve scontare gli ultimi cinque anni di pena per determinati reati. C’è da dire che imitare semplicemente il programma norvegese sarebbe stupido, oltre che impensabile. Un Paese che non è capace di garantire opportunità serie e concrete neanche ai cittadini onesti, non si può permettere di farlo per chi è in carcere e quindi è andato contro alle leggi di quello stesso Paese. Però, non è più accettabile ad oggi che il carcere umili, alieni e prepari chi ci è detenuto a crimini ancora peggiori, se possibile. Nessuno ha le risposte in tasca: far partire progetti di lavoro e formazione che oggettivamente abbattono i tassi di recidività ha un costo importante e in un Paese che deve centellinare le proprie risorse, a fronte di livelli spaventosi di disoccupazione, di un’economia in deflazione e di un’emergenza migranti inedita, a cui vanno aggiunti gli inenarrabili sprechi, certamente verrebbe sollevata una polemica legittima. C’è chi ha provato a rispondere all’emergenza con attività di teatro con volontari, ma, ammesso che ciò abbia un’effettiva utilità, è un’ encomiabile azione minima, a cui va dato un seguito in termini molto più concreti. Forse cominciare a mettere in campo argomenti seri, costringere l’opinione pubblica a confrontarsi con la realtà del nostro sistema carcerario e della condizione della giustizia in Italia e provare a sostenere la tesi che urlare a squarciagola “In prigione, in prigione”è inutile e pericoloso. Perchè se continuiamo a voler buttare le chiavi siamo complici e colpevoli e potremo un giorno avere come la sensazione di sentire nelle orecchie un fastidioso sussurro: “In prigione, in prigione, proprio tu, andrai in prigione, e che ti serva da lezione!”.
Marco Brero
23 Aprile 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Alla ricerca di chi?
Alla ricerca di cosa?
C’è chi è alla ricerca di pace e chi è alla ricerca di un guizzo.
C’è chi è alla ricerca di un sogno e chi è alla ricerca del tempo perduto.
C’è chi è alla ricerca di un progetto serio e preciso e chi è alla ricerca di un abbozzo, uno schizzo.
C’è chi è alla ricerca del coraggio di chiedere e osare e chi è alla ricerca del perché di un rifiuto.
C’è chi è alla ricerca di un affare: una moto usata e ben tenuta e chi è alla ricerca di un compratore.
C’è chi è alla ricerca di un motivo per tirare a campare e chi è alla ricerca di una cura.
C’è chi è alla ricerca di un famigliare e chi è alla ricerca dell’autografo di un calciatore.
C’è chi è alla ricerca della propria occasione e chi è alla ricerca dell’ennesima avventura.
C’è chi è alla ricerca di un brivido estremo e chi è alla ricerca di un po’ di serenità.
C’è chi è alla ricerca di un posto nel mondo e chi è alla ricerca di un buon ristorante.
C’è chi è alla ricerca di una vacanza alternativa e chi è alla ricerca di un appartamento in città.
C’è chi è alla ricerca di qualcosa di nuovo e chi è alla ricerca anche se ne ha già viste tante.
C’è chi è alla ricerca dell’ispirazione e chi è alla ricerca di un’idea innovativa.
C’è chi è alla ricerca di giustizia e chi è alla ricerca di vendetta.
C’è chi è alla ricerca di un vecchio disco in soffitta e chi è alla ricerca di una cotta estiva.
C’è chi è alla ricerca insieme a tanta altra gente e c’è chi è alla ricerca senza nessuno che lo aspetta.
C’è chi è alla ricerca di una posizione di rilievo e chi è alla ricerca della felicità.
C’è chi è alla ricerca di un bagno perché non ce la fa più e chi è alla ricerca di informazioni.
C’è chi è alla ricerca di un’isola tutta per sé e chi è alla ricerca dell’aldilà.
C’è chi è alla ricerca di spiegazioni e chi è alla ricerca di soddisfazioni.
In fondo è bello che ci sia tutta questa ricerca continua, futile, lenta, infruttuosa, contorta, interrotta, scientifica, costosa, sbagliata, distratta, fantasiosa, provocatoria, artistica, comica, sospetta, comprensibile, condivisa. Non importa come sia la ricerca di ognuno, l’importante è che esista una ricerca. Solo così non si ha la certezza di trovare qualcosa, ma quantomeno se ne ha la possibilità. Il sale della ricerca sono le domande, i dubbi, il confronto, tutte cose che fanno bene. Non abbiate paura di essere alla ricerca, né di dire di essere alla ricerca. Forse qualcuno vi imputerà di non essere ancora arrivato, ma voi sappiate che state mettendo il vostro impegno per rimanere in movimento, alla ricerca, mai rassegnati, sempre aperti a nuove opportunità. Così c’è scritto da qualche parte del nostro DNA: siamo esseri umani alla ricerca di riempire lo stomaco e il portafoglio, alla ricerca di qualcosa di buono da tenere nei nostri ricordi o da raccontare ai nipotini, alla ricerca di un’occupazione e alla ricerca della libertà, alla ricerca di noi stessi e del nostro futuro. Siate sempre alla ricerca, dentro voi e negli altri, dell’energia che ci vuole, per rimanere sempre alla ricerca.
Alla ricerca di chi?
Alla ricerca di cosa?
Marco Brero
30 Marzo 2016 | Vorrei, quindi scrivo
Signore e signori, ma voi ve ne accorgete quando la storia vi passa davanti? Non sembra sia così evidente per tutti, ma, piano piano e inesorabilmente, tutto scorre, le cose cambiano. E in questa rivoluzione impercettibile l’ombelico sta in un’isola che è un piccolo pezzo di terra in mezzo all’oceano, che è un pezzo di nostalgia in mezzo alla frenesia, che puzza di sigaro e ha i colori della bandiera, delle foglie del tabacco e dei Tropici. A Cuba è cambiato il mondo, sta cambiando il mondo e, come in tutti i lenti processi storici, la memoria sceglie di selezionare dei simboli, delle particolarità, perché ricordare tutto sarebbe troppo difficile. E quindi quando nomini Cuba a te viene in mente il faccione barbuto di Ernesto Che Guevara e forse ti chiedi perché il fotografo Alberto Korda non si era preso i diritti per la foto più famosa e riprodotta del Guerillero Heroico. Poi ti rispondi che Alberto Korda era cubano, credeva nella rivoluzione e non voleva guadagno per sé, ma per tutti e così capisci che forse nella storia le cose vanno quasi sempre in una certa direzione, ma c’è lo spazio per gli uomini e il loro libero arbitrio. Oggi Cuba non è solo più Che Guevara, Fidel Castro, i sigari, le spiagge, il Buena Vista Social Club, Guantanamera e il rum di L’Havana. Da qualche tempo, dopo operazioni diplomatiche complesse, l’isola più grande dei Caraibi, punto di riferimento di un’ideologia con le sue ragioni e con le sue contraddizione si è aperta al mondo. Qualcuno ti dice: <<Se non sei mai stato a Cuba, vacci ora! Prima che cambi tutto, che gli Americani ci portino le industrie e i fast food>>. Forse hanno ragione, Cuba fino a poco tempo fa poteva avere il sapore di un angolo di mondo che nella sua polvere e nel suo sudore manteneva ancora la purezza di un tempo passato, mentre l’inevitabile americanizzazione sporcherà questo candore ideale. Eppure, anche i nostalgici e i romantici dovranno rendersi conto che questo cambiamento darà al “Isla Grande” e ai suoi abitanti maggiori libertà: quella di viaggiare e addirittura quella di ascoltare la musica. Infatti, a Cuba il regime dei Barbudos aveva vietato di passare in radio e di acquistare i dischi dei gruppi rock americani e britannici, colpevoli di rappresentare un Occidente devoto agli eccessi del capitalismo. Un cubano non dovrebbe conoscere né Elvis Presley né i Beatles, eppure, per fortuna, la musica non si può sequestrare e, quindi, gli echi delle note del rock ‘n roll sono arrivati fino a L’Havana e dintorni. Ma quando il 25 marzo 2016, due giorni dopo la visita storica del Presidente Obama, a sancire ufficialmente il disgelo, alla Ciudad Deportiva della capitale si sono esibiti i Rolling Stones, quasi tutti avranno pensato quello che il leader dello storico gruppo britannico, Mick Jagger, ha urlato nel microfono: “Los tiempos estàn cambiando, finalmente”. Un concerto gratuito a cui hanno partecipato 250000 persone e che ha simbolicamente dato inizio a una nuova era. Certo, tra molti anni ci ricorderemo di Obama a Cuba, ma più probabilmente la nostra memoria assocerà al disgelo e al riavvicinamento tra Cuba e l’occidente una folla sotto un palco che canta “I can’t get no satisfaction” con tutta la soddisfazione del caso. It’s only rock ‘n roll, cantano gli Stones, eppure ha un significato simbolico che sposta di almeno un po’ il corso della storia e, se ci pensate, questo è l’intento delle canzoni, che non hanno un potere fisico, ma possono avere un valore simbolico che abbatte i muri e unisce i popoli. Dopo la rivoluzione islamica del 1979, l’Iran proibì la musica rock. La risposta fu affidata al gruppo punk rock dei The Clash che furono protagonisti di un pezzo di successo mondiale, dal forte contenuto sarcastico: “Rock the casbah”. Quindi Cuba e la linguaccia dei Rolling Stones sono soltanto un’altra tappa compiuta da quei rockettari, spesso imprigionati in problemi di droga o alcolismo, che, però, con la loro musica sono stati in grado di suonare, in qualche modo, la libertà, forse senza neanche volerlo seriamente. È strano assegnare a un certo tipo di musica un ruolo così importante, eppure è proprio chi la proibisce a conferirle importanza. Da nostalgico e romantico, anche io in cuor mio spero che i cubani vedano il cambiamento imminente come un’opportunità, ma non un obbligo. Spero che non perdano la loro identità e che non vogliano a tutti i costi riconoscersi in modelli a cui non hanno mai potuto guardare. Il mondo occidentale e gli Stati Uniti d’America non offrono per forza delle soluzioni giuste, ma, in ogni caso, sono un’opzione, che prima a Cuba era stata arbitrariamente esclusa. Spero vivamente che Cuba e i cubani mantengano i loro colori, i loro odori, i loro suoni e le loro tradizioni, perché non è vero che si conservano solo chiudendosi entro se stessi. Mick Jagger sul palco ha detto che è sempre bello visitare una nuova città. Signore e signori, sarà anche solo un concerto, sarà anche solo stato un affare di poche ore, sarà anche stato considerato una piccola Woodstock da parte di quelli che a Woodstock volevano andare, ma non potevano, insomma sarà anche stato solo rock ‘n roll, ma, come dice il pezzo dei Rolling Stones, mi piace.
Marco Brero