18 Settembre 2014 | Vorrei, quindi scrivo
Che cosa è la crisi per un ragazzo liceale o che ha appena iniziato l’università? È difficile trovare una risposta esatta perché egli si sta affacciando su un mondo adulto, lavorativo, che ormai ha fatto sua la crisi. Come è usuale pensare in Euro e non più in lire, per un giovane è cosa comune avere uno spread elevato, dati occupazionali bassi e salari ai minimi. Questi elementi sono parte dell’habitat nel quale è cresciuto e vive giorno dopo giorno. Ma se a un adolescente si chiede come si fuoriesce da questa normalità, risponderà: “Cambiando”. Non dirà ritornando al passato.
Qui si accende la lampadina. Teoricamente l’idea c’è, bazzica tra i pensieri, non resta che realizzarla. Il cambiamento va messo in pratica. C’è da trovare la voglia, la motivazione per dare una svolta in ogni circostanza.
Chiunque può capire che di cose normali è pieno il mondo. Una passeggiata sotto i portici, una visita sul web o un giro al centro commerciale… Ovunque si trova l’ordinario. Ed è molto triste pensare che molti di noi definiscono ordinarie le proprie vite, la loro unica esistenza.
Se io sono diventato abituale, come posso aspirare allo straordinario?
Un nonno del mio paese ripete a ogni ragazzo che incontra: “Tutti noi siamo importanti. Se fossi stato solo sulle montagne, a combattere da partigiano, non avrei combinato nulla.” Detto un po’ più a effetto: la vita ha il miglior copyright.
Riuscire a convincersi umilmente della propria grandezza è un tassello fondamentale per dare adito al cosiddetto cambiamento che si vuole vedere nel mondo. Essenziale è la parola umilmente: se non so relazionarmi con gli altri, riconoscere le mie mancanze e apprezzare le capacità altrui, come posso farcela? Rimango solo. Essere grandi non sta per essere re superbi pronti a sottomette le altre persone grazie alle proprie inclinazioni, ma vuol dire essere se stessi, unici nei propri difetti. Avere il copyright significa seguire le proprie passioni, vivere animati da sogni che sono propri.
L’indice di felicità pro capite, misurato da un’università statunitense, in Italia non è mai stato così basso come negli ultimi cinque anni. Proprio dall’inizio della crisi. È noto che ci sono difficoltà economiche che incidono sulla vita quotidiana di una famiglia, però nel nostro piccolo cosa possiamo fare? O ci si piange addosso o… si cambia. E si cambia a partire da se stessi. Ci si distingue dal proprio vicino mettendosi in gioco. Troppo spesso ci si abbandona alla speranza e non si fa altro che ammirare o disprezzare quanto succede intorno a noi. Non si partecipa. Perché dedicarmi a qualcosa quando ci sono altri che possono impegnarsi al mio posto? Forse è proprio vero che siamo la patria del dolce far nulla. Ci piace lamentarci, criticare. Al momento ci interessa anche l’idea di un cambiamento, ma non spetta a noi portare avanti un nuovo progetto.
Ad esempio se desidero un mondo più ecologico perchè non utilizzo la bicicletta anche d’inverno? Fa freddo? In Norvegia la usano per tutto l’anno con temperature ben più rigide delle nostre. Sono abituati? Prima o poi ci adatteremo anche noi a qualche grado in meno pedalando. Ma se non iniziamo a pedalare…
Con la crisi ci siamo chiusi in noi stessi, lasciamo guidare la nostra vita da altri. Non sappiamo più sporcarci le mani e stringere un rapporto straordinario con la nostra giornata, la nostra quotidianità. Non siamo motivati a una piccola metamorfosi. Siamo diventati egoisti con la nostra esistenza e con la terra in cui viviamo. Non siamo più in vero rapporto con noi e con il nostro paese. Infatti temo che la nostra sia diventata una relazione sbilanciata, una relazione basata sul fatto che noi cittadini ci prendiamo tutto quello che vogliamo, ignorando con grande tranquillità le cose che sono molto importanti per l’Italia. Saremo pure un paese piccolo, ma siamo anche grandi! Siamo la patria di Dante, di Manzoni, di Leonardo, di De Andrè, Benigni… di Roma, della pizza! Del destro di Andre Pirlo… e anche del sinistro di Andrea Pirlo! Dei canali di Venezia, del mare della Sardegna, delle Alpi. Siamo la patria di Cesare Augusto, delle opere dei Romani. Siamo la patria delle Cinque Terre, del cibo. E un amico che fa il prepotente con la propria terra, non è più un vero amico. E spesso non siamo più amici di noi stessi.
Siamo un paese di cui si piange addosso, un paese troppo spesso abbandonato dalle sue persone. Non sappiamo dire bene di noi, d’altronde l’erba del vicino è sempre più bella. Io non voglio crederci. Lo stivale non avrà tanti muscoli, non sarà un superometto, ma la bellezza vive in lui, come vive nelle persone che lo abitano. Se solo sapessimo apprezzare questa bellezza, ci renderemmo conto che per la nostra Italia, e soprattutto per noi, è giusto partecipare alla sua bellezza, promuovendo il suo bene, sperando nel suo meglio, che è anche il nostro meglio.
La politica non ci aiuta? Le leggi sono difficili da interpretare e il fisco è solo pronto a trovare errori nel mio bilancio? Probabilmente sì, ma non sono queste buone ragioni per abbandonarsi a se stessi. Anzi, sono motivazioni per essere ancora più forti, per portare avanti una politica dal basso, forte, giovane e ancorata alla nostra grandezza, che è la singola esistenza di ognuno di noi.
Il naturalista Darwin osò affermare che non è la specie più forte a sopravvivere e nemmeno quella più intelligente, ma la specie che risponde meglio al cambiamento. Non c’è citazione migliore per descrivere la situazione attuale, soprattutto quella economica che tanto condiziona il nostro vivere da farlo diventare monotono.
Perchè in fondo la crisi esiste, ma ci siamo anche noi. E tocca a noi scegliere come stare al mondo. Restare afflitti e desolati nel nostro io o aprirci a nuove opportunità? Rimpiangere il passato o vivere per ricordarsi del futuro?
Luca Lazzari
6 Settembre 2014 | Vorrei, quindi scrivo
Immaginate un funambolo alle prime armi alle prese con una corda, il rischio, il vuoto e le vertigini. Immaginatelo con le braccia tese alzate per mantenersi in equilibrio, in procinto di sollevare la pianta del piede per il primo passo… stop! Fermate qua la scena!
Non credete possa essere un distacco da brividi? Non si tratta di una partenza per un viaggio di cui non si conoscono meta e durata, ma è il distacco da una certezza, è il coraggio di correre dei rischi. Per essere funamboli è necessario aprirsi a nuove esperienze di vita: la lettura di un nuovo romanzo, la scoperta di un hobby, una decisione difficile da prendere, l’incontro con una persona, il coronamento di un sogno . Insomma, in fondo ogni scelta che si prende è pressoché esclusiva e comporta un distacco, materiale o non, dalle possibilità scartate. La scelta è un aprirsi e un chiudersi di porte che non sempre può risultare banale. Quante volte ci siamo ritrovati di fronte a due porte, con in mano entrambe le chiavi per aprirle? Quante volte siamo stati soddisfatti della decisione presa? Ma anche quante, invece, rimasti delusi?
In fondo il filosofo Kierkegaard direbbe che non è importante l’oggetto della scelta, ma è fondamentale il modo in cui si prende la decisione di infilare una chiave nella toppa e ”clac” fare il primo giro, mentre si butta alle spalle l’altra.
Ritornate al funambolo: ha trovato il coraggio dentro di sé, chiude gli occhi, fa un respiro profondo, alza il piede, è sospeso, lo riappoggia e, in quell’atmosfera quasi surreale, silenziosa, sempre con gli occhi chiusi abbozza sul suo viso un sorriso. Ce l’ha fatta, è nuovamente con entrambi i piedi sulla corda, mezzo metro più avanti, però. Ha corso un grande rischio; l’indecisione e la paura lo stavano per sopraffare.
La stessa cosa vale per chi decide di partire, di scegliere ed è consapevole che rinuncerà ad «un certo ”se stesso” […] per scommettere su un futuro ”se stesso” totalmente ipotetico», come riportava un’intervista dello scrittore Julio Monteiro Martins. Entrano in gioco una molteplicità di emozioni forti e contrastanti. Il pacchetto ”distacco” comprende anche dolore, difficoltà, incomprensione, solitudine.
Come può sentirsi il funambolo a quindici metri d’altezza sospeso nel vuoto? Come possiamo sentirci noi giovani con un nuovo mondo che si apre ed offre centinaia di porte con altrettante chiavi?
Mezzo metro più indietro il funambolo sarebbe al sicuro, sulla terra… Se noi giovani ci voltassimo indietro ci renderemmo conto che ci sono una famiglia, una casa, una scuola che ci hanno cresciuti e alla quale in fondo ci siamo affezionati…
Il distacco e le future difficoltà fanno paura, ma chissà che non potrebbero trasformarsi in occasioni di crescita o essere (come a tutti voi auguro!) le basi per un avvenire ricco di soddisfazioni.
Immaginate, ora, il nostro funambolo che, una volta riaperti gli occhi dopo il primo passo, alza la testa e si rende conto che può farcela!
Perché in fondo, come dice Jovanotti, ”la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare…”.
Eleonora Sarale
30 Agosto 2014 | Vorrei, quindi scrivo
Aveva appena compiuto diciannove anni quando è salito su un aereo a Fiumicino direzione Kansas City. Alla fine di quest’anno scolastico si laureerà in International Bussinnes e inizierà subito un periodo di tirocinio in Brasile a San Paolo per sei mesi.
Lui è Lucas De Rossi, romano di mamma brasiliana e appassionato di calcio. Proprio grazie a questa sua passione ha realizzato il sogno di volare negli States per completare gli studi.
Dopo un’esperienza da sedicenne nelle giovanili della SS Lazio ha trascorso i suoi ultimi anni in Italia come giocatore della Tor di Quinto. Fantasista dal bel dribbling, per due anni consecutivi ha vinto il campionato nazionale Juniores per poi trovarsi senza squadra. Poche le proposte nel Lazio. La migliore era arrivata da una squadra sarda di serie D, ma per Lucas era troppo scomodo raggiungere l’università di Sassari o Cagliari dal centro sportivo di allenamento, oltre a difficoltà contrattuali riguardanti vitto e alloggio. Nulla da fare: studiare e giocare a calcio sembrava un’impresa impossibile.
Giorgio Antogirolmi, secondo allenatore della Rockhurst University di Kansas City, si trovava in Italia per trascorrere le vacanze estive e, notando per caso le buone capacita’ di Lucas, formula una proposta, gliela presenta e il giovane italo-brasiliano accetta subito. Trasferimento nel Kansas, borsa di studio per pagare almeno in parte le esose tasse universitarie e tanto calcio.
La Rockhurst University è una università gesuita le cui tasse annuali si aggirano a circa 40 mila dollari più vitto e alloggio a parte. La prima offerta a Lucas fu di 25 mila dollari l’anno a salire in base ai suoi risultati scolastici e calcistici. Ad oggi egli riceve circa 35 mila dollari l’anno dalla sua università e la grande possibilità di sentire il suo sogno di diventare manager in una multinazionale sempre più vicino.
Raggiunto nella stessa università da Stefano Radio, neolaureto triennale presso la Sapienza di Roma ed ex portiere del Genoa categoria allievi, i due, aiutati da Giorgio, hanno dato vita a una società che si propone di aiutare gli studenti italiani interessati a studiare negli States ottenendo una borsa di studio.
College Life Italia, questo il nome della loro iniziativa, dopo aver valutato il curriculum scolastico e calcistico dei giovani italiani e aver avuto informazioni su di loro direttamente dalle loro ex società calcistiche, contatta i coach e gli uffici di selezione di diverse università statunitensi che meglio si adattano alla richieste e alle capacità del candidato. College Life Italia guida i propri studenti in tutti i passaggi pre trasferimento (assicurazione medica, SAT, TOEFL, contatto con l’università,..) e assicura assistenza per tutto il periodo di studio.
Accomunati dalla stessa esperienza, Giorgio, Stefano e Lucas si propongo non solo in veste di venditori, ma anche con spirito gentile e comprensivo nei confronti dei candidati italiani.
Se qualcuno di voi lettori è interessato a tentare di dare una svolta alla propria carriera universitaria e calcistica non esiti a contattare per email Giorgio, Stefano e Lucas a collegelifeitalia@gmail.com. E’ possibile fissare un appuntamento Skype e sono disponibili a chiarire tutti i vostri dubbi e soprattutto quelli dei vostri genitori.
In bocca al lupo!
Luca Lazzari
24 Agosto 2014 | Vorrei, quindi scrivo
Caro professore,
Come è possibile che una persona susciti in un’altra sempre lo stesso profondo sentimento? E come è possibile che bastino poche parole o azioni sbagliate a cambiarlo del tutto?
Ilaria
Cara Ilaria, Mi incuriosisce la tua domanda: stessa persona = stesso sentimento (a volte profondo), credo che tu intenda sia in positivo sia in negativo. Come può una persona suscitare lo stesso sentimento a distanza di tempo in un’altra? Proverò a risponderti seguendo questo percorso: a) lo stesso sentimento non nasce per la natura dei soggetti; b) per mantenere un sentimento profondo bisogna essere attivi e non passivi. a) Lo stesso sentimento non nasce per la natura dei soggetti. Allora che cosa accade quando due persone provano lo stesso sentimento? Avviene come tra due magneti? È perché la parte positiva attrae sempre quella negativa o perché le parti con lo stesso segno si respingono continuamente? Ossia avviene per la loro intrinseca natura? Credo di no. È allora come è possibile che due persone, che vivono incessanti cambiamenti interiori ed esteriori, possano provare lo stesso “profondo sentimento” quando si incontrano? Io penso perché continuano ad alimentare nuovi pensieri positivi (o negativi) sulla stessa persona. La presenza dell’altra persona attiva dentro la nostra mente mappe neurali (della felicità o della repulsione) che in passato avevamo creato. Vengono richiamate alla memoria queste emozioni di piacere o di dolore. La consapevolezza di queste emozioni produce sentimenti positivi o negativi e da questi nascono nuovi pensieri che già ci dispongono positivamente o negativamente verso di lei. L’altro, d’altra parte, reagisce allo stesso modo e, se la comunicazione era stata positiva, ossia aveva prodotto piacere, ognuno dei due si dispone già in una modalità di apertura, di ascolto, di fiducia e di comprensione. Questa modalità di relazionarsi influenza nuovamente i sentimenti e le emozioni. Il fatto che si provi continuamente un profondo sentimento non indica che le parti sono invariate come nella calamita, indica all’opposto che questo è possibile proprio perché nelle due persone avvengono microscopici adattamenti, continue rielaborazioni, e che viene alimentato un flusso costante di pensieri e di sentimenti, anche a distanza. È grazie al continuo rinnovamento dell’immagine e della rappresentazione dell’altro che si possono mantenere affetti così profondi e duraturi. I pensieri sono certamente responsabili di questo continuo rinnovamento. Grazie al rinnovamento, si consolida la nostra affettività.
b) Per mantenere un sentimento profondo bisogna essere attivi e non passivi. Penso che potremo riassumere questa idea con questa espressione: nella ripetizione si conquista l’(ir)ripetibile. Cioè la profondità della relazione. Vediamo. Di solito ci viene ricordato che la nostra vita è irripetibile, ma noi sappiamo che nella nostra vita avvengono moltissime ripetizioni: persone, eventi, comportamenti. Quello che spesso dimentichiamo è che proprio nelle ripetizioni si crea l’unicità e la specificità dell’esistenza. Mi spiego. Facciamo l’esempio del ripetersi del movimento di una lancetta dell’orologio. Dopo qualche tempo la lancetta ripercorre lo stesso movimento sul quadrante, ma è indifferente agli infiniti passaggi precedenti. Tutto è nuovo, anche se inaugura lo stesso giro. Oppure consideriamo la ruota di una bicicletta: ogni rotazione generata dai pedali sembra identica a quella precedente. C’è dunque una ripetizione invariata nel movimento delle lancette dell’orologio e nel movimento della ruota. Per le persone non è diverso: ogni volta che incontri un’amica, una compagna di scuola, una persona a cui sei affezionata avviene qualcosa di particolare. Tutte le mattine entri in classe e dici ‘Ciao’ ai tuoi compagni. Come un rito. Tutte le mattine, come il giro della ruota. Ma dopo qualche tempo ti rendi conto che quel ‘Ciao’ è più affettuoso o più distaccato, che a volte può essere premuroso, tenero, caldo o più indifferente e disinteressato. Pensa solo alla differenza tra il ‘Ciao’ d’inizio anno e il ‘Ciao’ che vi congederà alla fine dei cinque anni di liceo. Stessa parola, stessa persona, risultati completamente diversi: quella parola è dunque in grado di produrre un’iniziale curiosità, un timido interesse, una profonda gioia, un grandissimo sorriso e anche una nostalgia da nodo alla gola che ti farà sciogliere anche molte lacrime. Questo è per dirti che la ripetizione anche di frasi simili produce un cambiamento dentro di noi. Crea un legame e genera la nostra storia.
Ora torniamo al punto 1: l’esperienza origina pensieri che influenzano i sentimenti che a loro volta condizionano le emozioni. In quell’apparente ripetizione si creano infinite variazioni che producono davvero l’unicità della vita. Allora la ripetizione non è noiosa piattezza, invariabile monotonia, ma è come il movimento del cavatappi: ogni giro consente di scendere in profondità. Oppure, se preferisci pensare alla puntina di un giradischi (anche se non se ne vedono più), ogni giro non scorre nello stesso solco, ma in solchi sempre diversi, e questo movimento invece di produrre uniformità genera invece la melodia unica della vita. Quello che apparentemente è lo stesso incontro con la stessa persona, in realtà ha subito moltissime variazioni. Sono queste microscopiche variazioni che, giro dopo giro, generano la profondità dell’emozione e del sentimento. La profondità dell’affetto si ottiene cioè con il cambiamento, e il cambiamento avviene proprio là dove noi pensiamo che ci sia semplice consuetudine (Il filosofo danese Kierkegaard ha scritto pagine molto belle sulla “ripetizione”, facendola diventare l’emblema della vita matrimoniale: non monotonia, ma graduale conquista di sé nella relazione con l’altro). La ripetizione di una bella esperienza, d’altra parte non necessariamente è bella. La bellezza si ottiene non dalla semplice reiterazione di un momento o di un’avventura, ma dall’impegno a creare situazioni nuove in un’esperienza simile. Cioè, dipende dall’attività della persona. Ed è per questo che due persone continuano ad amarsi profondamente, non solo per l’attrazione, ma perché si impegnano a generare nuovi pensieri che interpretano continuamente l’altro; l’attrazione rimane alta perché c’è un’attività creativa e ingegnosa incessante fatta di continua immaginazione e rappresentazione dell’altra persona. Da questo potremmo spingerci oltre e dire che l’amore non è (solo) sentimento, ma è un’attività. Ma per questo, facciamo un’altra volta. È però vero che, a volte, bastano “poche parole o azioni sbagliate” a cambiare i sentimenti. Seneca ricorda che:“Basta un solo giorno a disperdere e a distruggere quanto ha costruito un lungo periodo di tempo con molte fatiche e col favore degli dèi. Chi parlò di un giorno ha assegnato un tempo troppo lungo ai mali che incalzano: basta un’ora, un attimo per rovesciare degli imperi. Ci sarebbe un po’ più di conforto per la debolezza nostra e delle nostre cose, se tutte le cose andassero in rovina con la stessa lentezza con cui si formano: invece, gli accrescimenti avvengono lentamente, la rovina rapidamente” [Lettere a Lucilio]. La costruzione dell’amicizia o dell’amore avviene lentamente, ma la distruzione talvolta può essere fulminea. Perché il linguaggio ha il potere di modificare il nostro sentire. Modificando in modo negativo i nostri sentimenti e la modalità di cogliere i segnali che provengono dall’altra persona, ci dispone in modo diverso nei suoi confronti. Se non ci sentiamo più stimati o amati e sentiamo venire meno il rispetto e la considerazione ottenuti in precedenza, ci convinciamo che la relazione si è danneggiata e di conseguenza il nostro corpo attiva emozioni di tristezza e di sfiducia che condizionano i nostri sentimenti e i nostri pensieri. A loro volta, i pensieri intervengono a ritoccare le emozioni. Quello che apparentemente è immobile è invece ciò che si ottiene da un lungo lavoro, in parte conscio in parte inconscio, per mantenere un delicato e fragile equilibrio.
Un caro saluto, Alberto Lusso
24 Agosto 2014 | Vorrei, quindi scrivo
Se c’è una cosa che l’uomo moderno è davvero bravo a fare, è correre. Lo dimostriamo ogni giorno: fin da piccoli impariamo a muoverci all’incalzante ritmo di scuola-casa-amici-compiti-sport, o se preferite, in un altro contesto, lavoro-casa-famiglia-amici-sport-supermercato-traffico…aggiungete le situazioni in cui vi rispecchiate. Per moltissimo tempo si può vivere su questa giostra senza rendersene conto, col rischio di realizzarlo all’improvviso e avvertire un terribile desiderio di cambiare vita, di trasferirsi nel cuore di un bosco, o su un’isola deserta in cui esistono solo palme e sabbia bianca.
Ma perché organizziamo la nostra vita in modo da dover continuamente correre? È troppo facile pensare che la società ce lo imponga, come una regola assoluta da rispettare se vogliamo far parte del “sistema”.
C’è chi afferma che correre sia un meccanismo di autodifesa, un espediente che ci inventiamo per non dover fare i conti con istanti “vuoti” in cui siamo spinti a pensare, a riflettere e forse a giungere a conclusioni – su di noi, su chi ci sta vicino, su ciò che facciamo – scomode.
“Ridurre al minimo le ore in cui è più facile che si presenti a noi questo odiato fantasma del tempo” scrive Eugenio Montale nell’articolo del 1961 “Ammazzare il tempo”. Abbiamo la necessità di fare, di non fermarci mai, tanto che cerchiamo di riempire di impegni anche quello che chiamiamo “tempo libero”, perché ci spaventa l’idea di avere un momento che ci costringa ad accettare i pensieri che cerchiamo di allontanare. In breve, corriamo perché abbiamo paura di farci male fermandoci.
Di certo questa è una faccia della medaglia. Ma non l’unica. Se dovessimo semplicemente evitare di pensare, basterebbero un divano e un televisore. Ciò che ci spinge a correre in bilico tra mille impegni è anche il non voler rinunciare a nessuno di essi. Perchè ognuno è un aspetto della nostra vita che in qualche modo la rende unica, e non la sentiremmo nostra se non fosse formata dai mille pezzetti che compongono le nostre giornate. E per quanto correre possa essere stancante e faticoso, siamo disposti a farlo, ad arrivare a casa la sera con i piedi doloranti ma sapendo di aver riempito il nostro tempo di tanti momenti che ci hanno fatti stare bene.
Ogni tanto avvertiamo comunque l’impulso di scappare, di fermarci per un po’, di allontanarci dalla pista per prenderci una pausa. Ma questo non significa per forza non volerne sapere della nostra vita abituale: è semplicemente un momento in cui abbiamo bisogno di riprendere fiato, per poi rimetterci a correre con più grinta e più passione.
Non è una corsa contro qualcun altro; non c’è un primo o un secondo classificato. È una corsa in mezzo ad uno splendido paesaggio, in cui se acceleriamo è solo per vederne il più possibile. Mettere un piede davanti all’altro meccanicamente, con gli occhi chiusi e le orecchie tappate per scacciare i pensieri, è un modo di affrontare questa strada, ma di certo ci fa perdere qualcosa. Correre ad occhi aperti, ammirare ciò che ci sta intorno, fermandoci quando serve e ripartendo quando siamo pronti…credo sia il miglior modo per godersi il viaggio.
Di Anna Mondino