Il 31 dicembre è un giorno speciale capace di segnare la fine di un anno e la nascita di un altro. Giorno di bilanci e di desideri, giorno che simbolicamente fissa nel calendario un perché per ripensare al passato e per aprirsi al futuro. Insomma, un giorno propizio per essere finestra sul tempo trascorso e sul tempo che deve venire, ma anche per ricordarci dello scorrere del tempo che è stato e che non sarà più. Basti pensare al ruolo che ricopriamo in famiglia di anno in anno: da figli prima a genitori poi, e, un giorno, ancora nonni.
Questa visione del tempo che passa e non torna indietro è comune nella nostra cultura dove il tempo stesso viene definito nemico perché si prende tutto ciò che è più caro fino a segnare e trasformare il nostro corpo di giorno in giorno: le rughe ne sono un piccolo esempio. Non così, invece, era nell’antica cultura greca, dove il tempo veniva definito in due maniere distinte a seconda del suo significato quantitativo, krónos, e qualitativo, kairòs.
Krónos rappresenta il tempo cronologico e sequenziale ed è proprio la mitologia greca a raccontare come questa sola concezione di tempo non sia capace di dare un motivo al vivere di ogni giorno. Infatti, il dio Krónos giungerà a mangiare i propri figli per paura di perdere il potere perché gli era stato predetto che sarebbe stato spodestato da uno di loro. I giorni per Krónos non sono un’opportunità, ma sono segno dell’avvicinarsi della sua fine. E proprio cercando di annientare la realtà dei fatti, ovvero sia nutrendosi dei suoi figli che crescendo gli mostrano l’avvicinarsi della sua fine, Krónos cerca la prova della propria esistenza tentando di rendere eterna la sua condizione attuale di potere. Questa esperienza si ripete quotidianamente ancora oggi in chi ricorre alla chirurgia plastica per eternizzare il proprio viso o a giovani prostitute per proclamare l’eternità della propria virilità, volendo anestetizzare una verità comune a tutti quale il passare irreversibile del tempo.
Poi c’è kairòs che è il tempo come momento opportuno, cioè quel momento anche brevissimo, ma di altissima qualità, capace di dare senso a tutti gli altri istanti precedenti o successivi. E’ l’eternità in un attimo, come il primo bacio con il fidanzatino/a che seppur sia durato solo qualche secondo, sembrava non finire mai e dava una forza incredibile per affrontare ogni cosa, o come l’abbraccio, capace di recuperare il tempo el distacco, con un figlio che ritorna a casa dopo mesi trascorsi all’estero. Ecco come non è più la quantità, ma la qualità del tempo a riempire di gioia e di un motivo per essere felici il vivere quotidiano.
Da un lato il procrastinare di una condizione attuale cercando di saziare una sete egoistica di cui viagra e botulino sono solo due dei tanti strumenti per erigersi al di là del tempo che passa. Dall’altro il cogliere della pienezza del proprio tempo, perché ogni giorno diventa dono per vivere quello che si è in quel preciso momento. Oggi sono figlio, quindi mi faccio voler bene dai miei genitori. Oggi sono padre, quindi mi prendo cura dei miei figli. Oggi sono nonno, quindi vizio i nipoti e lascio consigli ai figli.
L’augurio per questo nuovo anno che verrà è quello di vivere il 2019 come momento opportuno della propria vita per essere la persona che si è, lasciandosi amare da chi ci accoglie per quelli che siamo e abbandonando le pretese di difendere ad ogni costo un’immagine di noi stessi di fronte agli altri o una posizione sociale perché, per quanto la nostra difesa sia imbattibile, il tempo non lascia scampo.
Il primo proposito di questo nuovo anno potrebbe essere individuare quella che è la condizione personale che porta a vedere il tempo solo come krónos, e lasciarla andare per ritornare ad essere liberi a scorgere kairòs, l’eternità del tempo in semplici momenti quotidiani. Perché, a volte, come canterebbe Jovanotti, l’eternità è solo un semplice battito di ciglia.
La prima volta che si incontra una persona è consuetudine stringersi la mano e dire il proprio nome. Dietro quelle poche sillabe, scandite prima di ogni altra parola, è nascosta l’unicità di ogni essere umano. In effetti, quanto è triste quando non si è chiamati per nome, ma con un numero come la matricola in università, o solo con il pronome “tu”?
Chiamare per nome proprio una persona è creare un legame con l’altro che non è solo una caratteristica del proprio aspetto fisico, ad esempio “quello bionda” o “quella con gli occhi chiari”, né una capacità che ha saputo esprimere, “quello che sa far ridere” o “quella che canta bene”. Una persona, prima ancora di ogni aspetto a lei legato, è il suo nome e il suo nome è la sua storia. Etimologicamente il sostantivo nome porta con sè la sillaba “no” dal verbo latino nosco che significa “conoscere”. Infatti, ricordare il nome di una persona è dare spazio alla conoscenza dell’altra persona; è la prima porta per sapere chi è l’altro, per iniziare ad instaurare un dialogo con il prossimo. Insomma, per conoscerlo. Proprio da questo primo dialogo, da questi primi momenti di conoscenza, può aprirsi una possibilità ulteriore e più grande: l’amicizia.
In questo tempo è comune parlare di amicizia sui social network, ma si conosce ancora così tanto una persona da poter raccontare fino in fondo chi è questa? Quante volte succede di poter contattare un amico per condividere le proprie gioie ricevendo in cambio solo entusiasmo anziché gelosia? Quante persone sono disposte a spendere del tempo gratuitamente per il bene dell’altro?
Dietro questi momenti così apparentemente impegnativi che si condividono con gli amici, si nascondono quegli attimi di divertimento e spensieratezza che solo in amicizia si compiono pienamente: la partita di calcio davanti alla TV con una buona birra, le chiacchiere davanti ad un gelato, la serata a ballare o quella a ridere e scherzare in un pub, la giornata sugli sci o quella sulla spiaggia, un buon bicchiere di vino davanti ad un tagliere ricco di salumi.
L’amico è proprio colui di cui si ricorda il nome e di cui mai si scorderà il nome, perché quell’amico è quel nome, non è quel volto. È quel nome, non è quella capacità. È quel nome perché quel nome è la storia del legame che lega due persone, quel momento da cui tutto è iniziato e dal quale c’è una persona in più che guarda l’altro con gli occhi di chi vuole solo il bene altrui.
La grandezza massima dell’amicizia si compie nella sua castità: essendo libera da ogni legame affettivo amoroso e parentale, l’amicizia si pone nella massima libertà perché non c’è altro che si interpone tra due persone oltre il desiderio di volere un bene vicendevole per l’altro. Non c’è bacio, non c’è piacere fisico, non c’è alcun cordone ombelicale ad aver unito due amici. L’unico gesto di massima espressione fisica tra due amici è l’abbraccio: due braccia che avvolgono l’altro per accoglierlo nella sua totalità. Un gesto tanto semplice quanto colmo di significato: abbracciarsi è affidarsi all’altro, è gettarsi tra le mani dell’altro, è sorreggersi a vicenda. Proprio per questo Virgina Satir scriveva: “Ci servono 4 abbracci al giorno per sopravvivere. Ci servono 8 abbracci al giorno per mantenerci in salute. Ci servono 12 abbracci al giorno per crescere “.
Nel quadro “La danza” del pittore francese Matisse si può scorgere il prorompere inarrestabile della vita, il suo continuo rinnovarsi, il suo eterno movimento impersonato da cinque amici che, tenendosi per mano e con i piedi sul confine del mondo, si abbandonano al tempo della musica. La composizione esplode di gioia e si apprezza il dono dell’altro per abitare con entusiasmo il mondo, ovvero la vita: i cinque amici non ballano soli, ma in cerchio, e nel momento in cui le mani non sono unite tra due, uno si tende verso l’altro che lo attende con il braccio teso e la mano aperta.
In una delle sue ultime canzoni, Jovanotti canta:
“E ti capita mai
Di stare fermo senza respirare?
Per vedere com’è il mondo senza di te
Per sapere se esiste qualcuno
Che ti viene a cercare
Perché a te ci tiene
Per gridarti: Io ti voglio bene”
Ripensando a quali possano essere queste persone pronte a gridare “Io ti voglio bene”, il primo pensiero cade sugli amici più intimi, sugli amici di cui si conosce così tanto il nome da sapere quale sia la storia di vita che cela quel nome. Ancora di più, saranno sicuramente quegli amici che conosco la storia dell’altro a correre e ad urlare “Ti voglio bene”.
Questo potere di abitare con gioia la vita è un dono grande che scaturisce dal chiamarsi per nome che non è altro che ricordarsi a vicenda dell’unicità e del prodigio che ognuno è.
L’amicizia è un dono grande che ci è dato e tutto è più bello condividendo ogni momento con chi si chiama per nome. E diventare amici della propria vita è chiamare per nome ogni cosa, fare verità in se stessi. Gli amici servono a ricordarci anche questo.
Da qualche settimana va in onda su Rai 3 Lessico Famigliare, un programma televisivo condotto dallo psicoanalista Massimo Recalcati nel quale gli archetipi della nostra società vengono raccontati analizzando il loro compito nella formazione della personalità di una persona: dal ruolo della madre a quello del padre, passando per l’importanza dell’educazione scolastica.
Nella puntata dedicata al ruolo della madre viene riletto un passo biblico (1Re 3,16-28) dove due donne reclamano entrambe la maternità di un bambino e, solo mettendo in gioco la vita stessa del bimbo, il re Salomone riesce a ridare alla mamma il proprio figlio perché solo colei che è disposta a rinunciare al possesso del bambino, pur di salvarne la vita, è la vera madre.
La colonna sonora per questa mamma capace di rinunciare a qualcuno o a qualcosa per il bene dell’altro, in questo caso rinunciare alla maternità e all’accudimento del bambino, potrebbe essere il brano Vince chi molla di Niccolò Fabi. In questa canzone il cantante romano ripercorre il proprio cammino di vita elencando chi e che cosa lasciare andare: le sue conquiste e le sue convinzioni (“tutti i miei attaccamenti, i diplomi appesi in salotto, il coltello tra i denti”), il suo passato (“i mobili antichi”), le sue relazioni tossiche (“lascio andare mio padre e mia madre e le loro paure”).
In un mondo dove attrarre a sé e possedere sembrano essere un obbligo morale e necessario per l’emancipazione sociale, soprattutto nel vecchio occidente, è la natura dell’uomo a richiamare l’essere umano stesso a una realtà in cui spesso è necessario lasciar andare e nella quale vince chi molla.
Il primo di questi momenti, in cui è bene mollare qualcosa o qualcuno, è la madre che perde il proprio figlio per farlo vivere. Una perdita doppia per la mamma: prima l’uscita dall’utero e poi l’uscita dal nucleo famigliare in età adulta. Può sembrare un ossimoro, eppure colei che dà la vita, che ha il dono di portare in grembo la vita, è chiamata per ben due volte a perdere questa vita che ha generato. Di sicuro non è una tappa facile per una mamma, in particolare nel vedere il proprio figlio abbandonarla per dedicarsi alla sua vita e alla sua nuova famiglia, eppure solo mollando il figlio e non opprimendolo la mamma vince, vedendo la propria creatura fiorire nella vita. È necessario perdere il proprio figlio e la propria figlia per ritrovare un uomo e una donna.
Il secondo è un momento più intimo: la vita che perde la vita per ritrovarsi. Accade davanti a un forte dolore, a una storia d’amore spezzata, a un grande tradimento. Di fronte a certe situazioni appare che nulla abbia più senso e tutto sia vacuo, ma proprio nel passaggio attraverso determinate ferite si riscopre la vita colma di un nuovo senso e di un più grande significato e la causa di questo disagio si trasforma in esperienza di crescita profonda. Solo mollando l’orgoglio e la pretesa di comprendere il perché immediato di certe situazioni si ritrova quella vita che sembrava perduta.
Infine il terzo momento è la certezza più totale che ogni essere umano ha: la vita che perda la vita, ossia la morte. È una tappa obbligata che può sembrare una condanna se osservata nelle coordinate spazio temporali umane. Lo scrittore francese Xavier Forneret scriveva: “Sa morire solo chi ha saputo vivere”. In un contesto dove parlare di morte è ritenuto spregevole e si cerca di allungare la propria giovinezza quasi a voler rinnegare l’avanzare della propria età in puro stile Dorian Gray, abbandonare ogni pretesa di eternità, accettando il limite temporale dell’uomo, libera l’essere umano da ossessioni e paure. Insomma, nel momento in cui la vita perde la vita, vince solo chi ha saputo vivere mollando ogni surrogato per eternizzare la vita stessa.
Imparare a perdere è un passo fondamentale per la crescita umana. Ad esempio, per i bambini lo sport è un alleato perfetto per imparare l’arte della sconfitta. Educare a perdere è un dono di grande bene. Infatti, nel momento in cui si è chiamati a scegliere di perdere volontariamente, si è consapevoli del risvolto positivo e umano velato da una sconfitta.
Decidere liberamente di mollare qualcuno o qualcosa non può che avere come spinta il bene dell’altro o di se stessi per amore proprio o del prossimo. Infatti sono due i vincitori quando si molla: il soggetto che molla e l’amore. D’altronde, non si può scappare dalla natura umana rinnegando l’amore perché se c’è un senso ad ogni momento, soprattutto di perdita, ma anche di morte, è proprio l’amore.
Nella nostra quotidianità di luci e ombre, le esperienze che viviamo e la loro rielaborazione ci consentono di andare oltre i limiti posti dal passato protesi verso il futuro. Così, per colorare ogni istante del nostro tempo, è bene concedersi la possibilità di ritrovarsi eliminando il superfluo, perchè per godersi lo spettacolo della vita è importante stringere i denti fino in fondo e dare tutto, ma è necessario lasciare andare quelle persone, quei pensieri e quelle cose che impediscono a sé e all’altro di splendere.
Ci vuole coraggio per lasciare andare e mollare. Ci vuole coraggio per essere vincitori.
In verità ci sono dei momenti che uno vorrebbe non arrivassero mai. La partenza di un amico caro, il trasloco non desiderato o la fine di un amore su cui si aveva puntato tutto. Sono attimi pesanti che sembrano durare un eterno, eppure anche in questo momento stanno avvenendo in qualche parte della tua città.
Ho provato per tanti anni a cercare una risposta al perché di puntuali istanti che sconquassano la quotidianità che ogni persona si crea. Ancora sono qui, con questo punto di domanda e penso che nessuno abbia una soluzione a questo interrogativo. Anzi, sono spinto a stare alla larga da chi ha una parola e una soluzione sempre a tutto e per tutto perché la certezza totale mi inquieta e mi lascia l’amaro in bocca.
Circa cinque anni fa mi trovavo ai Colloqui Fiorentini e un autore sul palco chiese: “Chi è felice, per piacere, può alzare la mano?”. Questa domanda è rimasta in me come un ritornello che si ripete ogni giorno, condito da tante esperienze ascoltate porgendo quella domanda che pochi secondi dopo lo scrittore stesso ci propose: “Quando vedete una persona con il sorriso e che dice di essere felice, chiedetegli il perché”.
Così, giorno dopo giorno, ogni essere umano è in cammino nei suoi momenti bui e nei suoi momenti di luce.
E’ ostinatamente dannoso voler imporre a se stessi sempre la luce o sempre il buio. Siamo tutti ugualmente degni di essere chiamati persone umane perché oscilliamo tra il buio e la luce e in questo incomodo pendolare scopriamo la radice più profonda della felicità: la gioia di amare e lasciarsi amare.
Non solo il fare, anche l’essere è parte integrante della nostra gioia piena che è il successo più grande della vita. Essere che implica mostrarsi limitati e vulnerabili, oltre che pieni dei talenti che ognuno di noi ha ricevuto in dono. Infatti, lasciarsi amare, quindi riceventi di felicità per gesti altrui, è un atto di umiltà incredibile, come a voler ammettere a se stessi del bisogno dell’altro per raggiungere una gioia piena.
Guardando a una persona in sedia a rotelle come Giampy ho scoperto la radice di questa gioia fatta del lasciarsi aiutare mentre si scende dal letto, mentre si mangia e mentre si esce per una passeggiata.
Jovanotti, nella sua canzone Terra degli Uomini, ci chiama alla quotidianità del nostro pianeta e della nostra totale umanità. Umanità incompleta, ma non per questo incapace di lasciarsi completare da gesti semplici e spontanei che cambiano la nostra vita: un mazzo di fiori alla fidanzata, un biglietto per un concerto regalato alla sorella o una pasta cucinata alla nonna quando è a letto malata. Sono piccoli gesti che nel nostro buoi e nella nostra luce ci risvegliano e ci chiamano a vivere ogni giorno perché danno un gusto diverso al nostro passaggio.
Chiedendo a una persona sul perché era felice, mi ha risposto in maniera molto schietta e alquanto toccante: “Dalla bella vita, alla vita bella. Buon viaggio!”
Potere, volere e dovere sono i tre verbi servili della lingua italiana e, insieme a quelli ausiliari, sono i maggiormente utilizzati sia nel linguaggio parlato sia nell’orazione scritta.
Quotidianamente ognuno definisce le proprie azioni e i propri comportamenti attraverso questi tre verbi che indicano la possibilità, la volontà e la necessità. Nell’andirivieni frettoloso di ogni giorno chi non mira a soddisfare i propri bisogni? O a compiere quanto più piace cercando l’occasione giusta?
La grandezza di questi verbi è la loro capacità di mettersi al servizio di altri verbi, supportandoli nel loro significato. Ad esempio, “fare”, il verbo più inflazionato fra tutti, assume differenti significati se preso così per se stesso o accompagnato da un verbo servile: è molto diverso affermare “poter fare”, “voler fare” o “dover fare” da “fare”.
Eppure, se si pensa a come ciascuno trascorre il proprio tempo, l’ansia da prestazione o il correre dietro alle cose imminenti ha trasformato il potenziale di questi verbi da servitori a serviti: si dà sempre più importanza al verbo servile che al verbo che viene accompagnato.
Nella frase “devo fare i compiti” è più importante il verbo “dovere” o il verbo “fare” con il relativo oggetto? Apparentemente, ma è questo che ci passa la scuola e il pensare comune, il verbo “dovere” è molto più importante, tant’è che i giovani di oggi sono più oppressi dal senso del dovere rispetto ai propri antenati. Invece, la parte principale della frase è “fare i compiti”, cioè quell’esperienza che aiuta a crescere e a migliorarci giorno dopo giorno.
Se i verbi servili non sono così importanti, allora perché sono tra i più utilizzati nella lingua italiana?
Nella loro natura primitiva, questi tre verbi nascondevano, e tutt’ora celano, la bellezza capace di muovere ogni uomo dando senso alla sua esistenza terrena: il desiderio. A conferma di questa tendenza, come riportano i dati Istat sui giovani, i giovani di oggi sono la generazione con il minor numero di aspirazioni e desideri e spesso appagati in partenza (dati-giovani.istat.it). Perché? Di certo, si è dato un significato fuorviante e menzognero a questi tre verbi servili tanto che è sempre più diffuso il detto “volere è potere”. Da un lato sono necessarie questa grande forza di volontà e spinta interiore, ma affermare che “volere è potere” è snaturare l’uomo, convincendolo che non debba tenere in considerazione l’altro o gli impedimenti che incontra durante il cammino di propria realizzazione, ma che tutto sia fattibile a partire dalla propria volontà. Ecco che, allora, è possibile distruggere una foresta a scopi propri poiché tutto giustificato dalla volontà e dal compimento ingannevole delle proprie propensioni.
Il desiderio, al contrario, incarna questi tre verbi servili mettendoli al pieno servizio dell’essere umano e della sua pienezza. Volere è essenziale, d’altronde la volontà di ciascuno rappresenta la sua libertà di fronte ad ogni scelta e il suo impegno in ogni decisione. Potere è indispensabile, perché se non si tiene in considerazione l’intorno nel quale si è immersi (compresi se stessi) e i limiti di ogni contesto, come si può prendere una scelta degna dell’uomo come animale sociale che si relaziona con l’altro e con l’ambiente da cui trae il necessario per vivere? Infine dovere è cardinale in quanto mette davanti agli occhi di ciascuno i passi chiave per dare spazio alla propria natura e questo implica degli sforzi che solo attraverso un passaggio obbligato, quale è il dovere, possono essere superati.
Il desiderio, quindi, riporta l’uomo in primo piano, chiamandolo a guida della propria esistenza e non schiavo di un oggi determinato dal dovere o potere o volere in tutto e per tutto. Diodato e Roy Paci, nella loro canzone proposta quest’anno a Sanremo, cantano: “Troveremo prima o poi il coraggio di vivere tutto per davvero senza rincorrere un altro miraggio?”. Come a dire: troveremo il coraggio di guardare la realtà per quella che è? Senza farci ingannare da menzogne sui desideri del nostro cuore?
Solo il giusto equilibrio tra questi tre verbi servili e il loro vero significato guidano l’uomo alla vera gioia e nessuno di questi, preso solo in se stesso, può dare pieno significato alla vocazione, o desiderio, di ciascuno. Un desiderio privo di volontà, di possibilità e di doveri è un inganno e, nella spasmodica quotidianità, un respiro colmo di questa consapevolezza non può che portare ogni persona a una nuova primavera, a una felicità più profonda e reale.
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