25 Marzo 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Avete mai letto Station Eleven di Emily St. John Mandel? Bene, se non lo aveste fatto, non fatelo in questo momento. La scrittrice canadese racconta le dinamiche di una società che viene distrutta da un’epidemia per la quale non vi è rimedio. Non è un libro leggero: è angosciante. Quando l’ho letto, qualche anno fa, l’ho reputato surreale. Mai avrei pensato che una situazione simile potesse succedere nel 2020.
È come vivere in un film, una serie TV stile The Walking Dead. La cosa più assurda è che fino a poco fa il problema sembrava confinato in Cina, ma nel giro di un mese l’Italia è diventata zona rossa. Non si può uscire di casa se non per le emergenze, si deve mantenere la distanza di sicurezza, moltissime persone sono in quarantena da settimane. Mio nonno dice che gli sembra di rivivere il periodo precedente alla guerra, quando ancora era un ragazzino e non si capiva esattamente cosa stesse succedendo. Le persone facevano finta di nulla, c’erano incertezza e una nube di confusione che ricopriva il paese.
Sembra una situazione irreale, eppure i dati forniti sugli infetti e sui morti sono elevati, fanno paura. Più persone si ammaleranno e meno gli ospedali saranno in grado di prendersene cura. Il numero di unità di terapia intensiva, pur potenziato, non è dimensionato all’emergenza che stiamo vivendo. La priorità sarà per i giovani, per gli under 60. I miei genitori sarebbero tagliati fuori dalle cure.
A Wuhan dal giorno alla notte hanno chiuso le stazioni della metro, bloccato le strade, cancellato treni e voli aerei, imposto un coprifuoco assoluto. E nonostante ciò ci sono voluti due mesi per uscirne.
Imporre delle regole del genere, così rigide, in Italia è più complicato, basta pensare a coloro che sono scappati a gambe levate da Milano non appena c’è stato l’allarme di blindare la città. Centinaia di persone hanno raggiunto le stazioni per cercare di salire sugli ultimi treni, senza rispettare gli appelli e le raccomandazioni dei medici e delle autorità sull’importanza di restare a casa ed evitare gli spostamenti per cercare di contenere il contagio. Chi ha preso il treno per tornare a casa ha permesso al virus di viaggiare per il paese, facendolo arrivare ovunque.
Tutto ciò però mi ha fatto ragionare. La gente è salita sui vagoni senza biglietto, disposta a pagare una multa salata pur di tornare a casa. Tutti ammassati, stipati, seduti persino per terra. Il personale ferroviario non è riuscito a farli desistere, neanche per ragioni di sicurezza. Code in biglietteria infinite, clima di angoscia e panico generale e la polizia ferroviaria ha dovuto intervenire per mantenere la calma. C’è chi spera di riuscire a partire, chi ha paura di non tornare a casa, chi non sa bene come comportarsi.
Così i treni sono partiti, strapieni di persone che hanno messo a rischio loro stessi e gli altri, pur di abbandonare il nord e le sue difficoltà.
Ho pensato al dramma dei migranti, anche se il contesto è ben diverso. Questo dovrebbe farci riflettere.
Da anni intere famiglie sono costrette a fuggire dal proprio paese. Scappano da guerre o fame e si ritrovano dall’altra parte del mondo senza saper parlare la lingua, senza conoscere usi e costumi, senza la minima idea di ciò che sarà di loro. E spesso non sono ben accette, vengono escluse, prese di mira, considerate “infette”.
È facile far finta di nulla quando le disgrazie non ti toccano in prima persona. Siamo semplicemente stati fortunati ad essere nati dalla parte giusta del mondo, dove bene o male le cose funzionano, abbiamo da mangiare, un tetto sulla testa e non siamo perseguitati per la nostra religione o il colore della pelle. Non dovremmo approfittare di questa fortuna ed estraniarci da queste realtà. L’egoismo non aiuta.
Adesso stiamo vivendo un momento storico in cui siamo noi gli infetti, ci sentiamo deboli e abbiamo paura. Chi non ha mai dovuto scappare lo sta facendo, chi non è mai stato discriminato lo sta provando.
Non appena si è diffusa la notizia che l’Italia era soggetta al virus molti stati hanno chiuso le frontiere e altri hanno imposto la quarantena agli Italiani. Essere discriminati non è piacevole.
Marco Cesario è un giornalista e scrittore di origini napoletane che da anni vive a Parigi e la settimana scorsa ha detto «I giorni scorsi abbiamo vissuto una vera e propria psicosi contro di noi. Da quando sono stati registrati nuovi casi anche qui, i toni si sono leggermente abbassati, ma continuano a mantenere le distanze dagli Italiani. Ieri parlavo con un collega italiano, tutti ci guardavano storto. A un certo punto abbiamo deciso di cominciare a parlare in francese, per evitare di farci riconoscere».
Ad oggi il virus è diffuso in tutta Europa, anche gli stati che prima facevano finta di nulla stanno prendendo le misure di sicurezza per cercare di contenere la pandemia.
Il Coronavirus è una calamità che ci ha colpiti all’improvviso. In giro si percepisce un’aria diversa, affaticata e confusa. Le persone sono attente, scettiche e preoccupate, stiamo vivendo una routine quotidiana completamente diversa da quella a cui siamo abituati. L’atmosfera è surreale.
Non dovremo dimenticare ciò che stiamo provando ora. Dobbiamo capire cosa significhi non poter viaggiare liberamente, non essere accettati a prescindere ed esser visti con diffidenza.
Pensiamo a tutte le persone che stanno vivendo queste realtà da anni e, da ora in poi, impariamo ad accoglierle invece che escluderle.
30 Gennaio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Non sono mai stata un’appassionata di basket né una fan sfegatata di NBA. Anzi, ne capisco ben poco. Però sono cresciuta con mio fratello Lorenzo, che ha sempre giocato a pallacanestro e che al liceo si alzava alle 3 del mattino per guardare le partite in diretta con gli amici. Un grande classico il venerdì sera era Space Jam, con protagonisti Michael Jordan e i Looney Tunes. Ho anche avuto la fortuna di assistere a una partita dei Trail Blazers a Portland, scatenandogli grande invidia.
Ma questo non vuole essere un articolo sportivo, né tecnico, sarei poco credibile. Ciò che mi ha spinto a tentare di raccontare qualcosa sul basket è stata una conversazione con Lorenzo a proposito di Kobe Bryant, poco prima di scoprire della sua morte improvvisa. Stava commentando il record che King James ha aggiunto alla sua carriera realizzando 29 punti contro Philadelphia e sorpassando Kobe Bryant al 3° posto nella classifica dei migliori realizzatori all-time della storia NBA.
Abbiamo visto delle foto in cui i due campioni si abbracciano e il tweet di Bryant che si complimenta con l’amico, «Continuing to move the game forward @KingJames. Much respect my brother #33644», in cui “#33644” sono i punti che James ha realizzato per battere il record.
Non è comune a tutti saper gioire per i successi altrui, è un’eccezione. Ma Kobe, oltre ad essere un campione è sempre stato un grande uomo. La sua mentalità l’ha portato ad essere uno dei migliori: «La mentalità non riguarda un risultato da prefiggersi, quanto piuttosto il processo che conduce a quel risultato. È uno stile di vita. Penso che sia importante adottare questo metodo in ogni impresa». Mamba Mentality è il libro che ha scritto, in cui condivide con i lettori la sua idea: provare costantemente ad essere una versione migliore di se stessi. Il suo modo di essere, la sua energia, la sua umiltà sono fonti d’ispirazione per chiunque avesse a che fare con lui. Amato e rispettato da tutti, rivali compresi.
Lorenzo mi racconta di quest’uomo leggendario, dei successi sportivi, ma anche dell’Oscar vinto con un cortometraggio: una lettera d’addio alla pallacanestro, in cui ammette che il suo cuore e la sua mente possono continuare a reggere il peso del gioco, ma che il suo corpo sa che è giunto il momento di salutarsi. Lo sport è importante e chi lo pratica trova nella fatica fisica un amico, negli allenamenti una fonte di sfogo, nel team che lo circonda una seconda famiglia.
Kobe dice, rivolgendosi all’amato basket: «Volevo che tu lo sapessi, così che potremo assaporare meglio ogni momento che ci rimarrà da gustare assieme. Le cose belle e quelle meno belle. Ci siamo dati l’un l’altro tutto quello che avevamo». Per chiunque è difficile separarsi da un amico, un partner, una persona a cui abbiamo voluto bene. Non posso neanche immaginare cosa significhi dover dire addio ad un amico fedele come può essere uno sport praticato a tali livelli, compiendo sacrifici per una vita intera. Mi ha colpito scoprire che Kobe, personificazione dell’American dream, manteneva un profondo legame con l’Italia, dove ha vissuto da bambino. Innamorato di Reggio Calabria e Reggio Emilia, vi tornava spesso con famiglia e amici, parlava italiano e aveva chiamato le sue figlie con nomi italiani. Confessava di aver imparato la tattica di gioco in Italia.
Dopo poche ore da questa conversazione Kobe Bryant e sua figlia Gianna hanno avuto un incidente in elicottero e sono deceduti. Avevamo appena parlato di lui, visto il suo cortometraggio, le sue foto con le figlie, i video su YouTube. E poi, in un attimo, quella persona non c’era più. Lorenzo è rimasto in silenzio, scioccato. Il mondo intero si è commosso. Marco Belinelli ha dichiarato: «Non pensi mai che una cosa così possa accadere al tuo idolo. Pensi che sia immortale». Per i fans è stato come perdere un fratello, un amico con ideali sani, che condivideva valori genuini e trasmetteva amore e passione, verso lo sport, la famiglia e la vita.
«Life is short. Don’t miss opportunities to spend time with the people you love», ha detto Kobe Bryant in un’intervista. Esiste cosa più vera? In qualsiasi momento tutto potrebbe finire, la nostra realtà è precaria. Ed è questo il messaggio che vorrei condividere. Passiamo il tempo a preoccuparci di cose futili, ce la prendiamo con le persone senza provare a capirle, pensiamo tanto a noi stessi e ci dedichiamo poco agli altri. Episodi come questi bloccano tutto per un attimo e ci sbattono in faccia la cruda realtà.
Dovremmo cercare di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, trovare un equilibrio che ci appartenga, circondarci di affetti a cui teniamo e che vogliano il meglio per noi. Dopo tutte queste riflessioni, non credo certo che diventerò un’appassionata di NBA, ma vorrei mettere in atto il consiglio prezioso del cestista.
Voglio emozionarmi in ogni momento e imparare a trovare la bellezza di ciò che mi circonda con l’energia e la passione di chi vuole vivere giorno per giorno fino in fondo.
13 Dicembre 2019 | Vorrei, quindi scrivo
Fin da quando siamo piccoli ascoltiamo ciò che succede attorno a noi. Per essere più precisi, l’apparato uditivo inizia a formarsi alla nostra ventesima settimana, quando ancora siamo nella pancia della mamma. I suoni che percepiamo stanno al di là del nostro guscio protettivo ed è così che cominciamo a conoscere il mondo esterno, ancora prima di vederlo. Tramite l’udito ci creiamo i ricordi, riconosciamo le persone e, facendoci attenzione, anche i luoghi. Infatti ogni posto ha un suono diverso, ogni città, ogni stanza della nostra casa. Il silenzio non esiste, neanche quando pensiamo di starlo ad ascoltare. Però attenzione, sentire e ascoltare sono due cose completamente diverse. Sentendo captiamo i rumori, ascoltando li assimiliamo, li memorizziamo e li comprendiamo.
Questo è ciò che mi ha raccontato Chiara Luzzana al MARKETERs Festival a Vicenza, durante un sabato mattina uggioso di novembre. Chiara ha sempre amato il rumore, il suono. Da piccola suonava la chitarra, il pianoforte e per poco non ha cominciato a frequentare anche lezioni di batteria. Crescendo ha capito che poteva fare di questa passione il suo lavoro. Oggi Chiara è una compositrice, sound designer e artista sonora, registra i suoni della vita di tutti i giorni e traduce la realtà in musica. Da più di 10 anni partecipa a progetti, sperimenta e costruisce microfoni e strumenti per l’ascolto degli oggetti quotidiani. «Quando lavoro con i suoni sono un’esploratrice, li devo scoprire nei lati più nascosti. Mi piace dare voce a ciò che è nato senza».
Il suo primo grande progetto è stato realizzato per la mostra Swatch Faces 2015. La sua idea è stata geniale e del tutto innovativa. Come ha detto lei, si è rinchiusa in una sorte di bunker in Germania e si è fatta dare tanti e diversi modelli di orologi Swatch. Ha rivelato che ognuno di essi produceva un suono diverso, generati dallo scatto della lancetta, dalla vibrazione del vetro, dal rumore della chiusura e apertura del cinghietto. Grazie a dei microfoni appositamente costruiti e al suo udito impeccabile, Chiara ha creato la colonna sonora per la pubblicità della Swatch, realizzata esclusivamente con i suoni degli orologi. Un esperimento del tutto nuovo, unico e inimitabile.
Il capolavoro di Chiara è però stato, senza dubbio, The sound of city. Nel 2014, l’artista ha iniziato a viaggiare in giro per il mondo, visitando le sue caotiche metropoli. Ha ascoltato ciò che la circondava, è andata alla ricerca dei luoghi più nascosti e intimi, ma ha anche esplorato i più comuni. Per Chiara le città sono una fonte preziosa di riflessione. Ogni rumore casuale diventa musica. Ha confessato che per riuscire a camminare a caso per la città per 24 ore e stare attenta a ciò che la circonda, deve imporsi alcune regole, perché altrimenti rischia di essere troppo vaga. Deve prepararsi fisicamente e mentalmente, perché, aldilà degli aspetti piacevoli della musica, questo progetto è faticoso sotto molti aspetti. Però di base c’è un principio che per lei è inalienabile, ed è che per raggiungere il piacere, occorre fare fatica. Per lei il suono è anche fatica: «La registrazione perfetta è fatica».
La prima città ad essere registrata è stata Shanghai, ora la sua colonna sonora si può trovare su Youtube, il suo primo ascolto da parte del pubblico è stato ad ottobre 2016 alla Biennale di Shanghai e al TEDx. Ha poi anche esplorato Milano, New York, Zurigo, Tokyo, Venezia.
«Ho ideato e creato il progetto mondiale The sound of city per indagare nell’intimo sonoro di ogni “giungla di cemento”. Ogni luogo ha qualcosa da raccontare ed un’anima da mostrare; io trasformo in musica quei suoni, quelle frequenze armoniche e quei rumori, che nella vita quotidiana passano inosservati. Ed è così che un semaforo diventa un sintetizzatore, un clacson, un sassofono, tombini drum machines e vociare orchestre d’archi».
Chiara mi ha trasmesso un’enorme voglia di esplorare, di girovagare per i luoghi remoti del mondo. Di arrivare su un’isola deserta, in cima ad una montagna o un grattacielo, rimanere zitta e provare ad ascoltare. Trovare il ritmo, la melodia e la connessione con ciò che realmente mi circonda.
28 Ottobre 2019 | Vorrei, quindi scrivo
Poche sono le persone che ancora non la conoscono, nel giro di pochi mesi Imen Boulahrajane ha fatto crescere il numero dei propri follower sui social in maniera esponenziale e ogni giorno in moltissimi iniziano a seguirla. La ragazza di origini marocchine, nata a Varese nel 1995, si presenta sul suo profilo Instagram in maniera schietta e simpatica come “economista che non sa risparmiare”.
Si è laureata alla Bicocca di Milano, città in cui vive, in Economia ed amministrazione d’impresa. In una sua intervista ammette di essersi resa conto di quanto l’università sia una specie di “bolla”. Dice: “una volta finiti gli studi è probabile che tu non sappia neanche cosa sia il 730! […] Usavo già Instagram creando racconti per la cerchia dei miei amici, in una dimensione familiare. In quel momento ho pensato che avrei potuto farne qualcosa di diverso”.
È così che ha iniziato a raccontare di economia, politica e attualità, tramite post che si alternano a scatti in cui vede degli amici e altri in cui fa shopping. Il feedback che ha ricevuto è stato del tutto inaspettato. La gente ha iniziato a farle domande, scriverle per approfondire alcuni argomenti, cercare un confronto. Per mantenere alta la curiosità Imen ha sempre risposto, arricchendo i suoi contenuti del background storico, il contesto geografico e allegando link di articoli, video di interviste e telegiornali. Adesso il suo obiettivo è quello di raccontare e rendere argomenti, spesso aridi e complicati, pane quotidiano.
È triste ammettere che oggigiorno la gente spende ore su social come Instagram e Facebook a scorrere casualmente la home, senza un vero interesse. Ormai è un’ossessione, un gesto automatico. Imen, con i suoi post da 15 secondi e le didascalie precise e sintetiche, riesce a mantenere l’attenzione dei suoi follower e a farne crescere la curiosità.
Il suo target principale sono i giovani, i millennials, di cui una buona percentuale sono assetati di informazione, ma di cui il restante è svogliato, o semplicemente non abituato, a tenersi al corrente di cosa sta succedendo nel mondo. Lei dà le informazioni tramite canali “non tradizionali”.
Personalmente credo che Imen abbia avuto un’idea geniale. Tramite un social la “fatica” del tenersi aggiornato, sembra minore. In più è piacevole, estroversa e carismatica. Parla degli avvenimenti in maniera spontanea, con parole semplici e frasi brevi, facendo spesso dell’ironia. Ad esempio quotidianamente aggiorna i suoi ascoltatori sul caso Brexit, rappresentandolo come se fosse una telenovela di cui tutti siamo desiderosi e ansiosi di sapere quale sarà il finale.
Tratta argomenti anche molto caldi e delicati in modo chiaro e lineare, come il conflitto curdo-turco, spiega brevemente come funzionano le leggi italiane, cos’è lo spread, i dazi di Trump. Quando ha pubblicato riguardo le proteste a Hong Kong, Instagram le ha bloccato dei post perché “espliciti” e “vietati” dal governo di Pechino. Incredibile, non è vero?
Eppure lei ha continuato a pubblicare imperterrita, decisa a far sapere cosa realmente sta accadendo e perché. Chi vive nei luoghi di interesse le manda foto, video, testimonianze, articoli. Le persone le chiedono di divulgare le informazioni grazie alla sua disponibilità e visibilità.
Ammette, con sollievo, di non aver mai avuto haters. Riceve spesso critiche e correzioni riguardanti il contenuto degli argomenti, ma da questo nascono arricchimenti, scambi di idee, confronti. Molti professori le hanno scritto dicendole che le sue stories danno spunto per le lezioni. Gli studenti la ringraziano perché “finalmente hanno capito”, i genitori la ascoltano mentre fanno colazione o mentre portano i figli a scuola.
Venerdì 8 novembre parteciperà ad un talk alla facoltà di Economia e Management a Torino, in corso Unione Sovietica. L’evento è organizzato dal Marketers Club, un’associazione di studenti che si occupa di marketing e comunicazione. L’evento si terrà dalle 16 alle 18 e il titolo è “L’economia politica spiegata su Instagram”. Imen spiegherà della sua esperienza sui social, del come è arrivata a tanta visibilità e parlerà dei temi caldi del momento. Per maggiori informazioni consiglio di seguire la pagina del MARKETERs Club su Instagram o Facebook.
Imen Jane è l’esempio di come i social possono essere utilizzati per divulgare notizie importanti, che non sempre vengono raccontate alla televisione e sui giornali. Di come si può parlare di temi che spesso vengono evitati dalla gente, soprattutto dai giovani, perché considerati noiosi e complicati. Con il suo profilo vuole dimostrare che l’influencer non solo sa parlare di selfie e smalti, ma sa anche spiegare una crisi di governo.
14 Giugno 2019 | Vorrei, quindi scrivo
A volte capita che tutto per un istante si fermi. Si rimane incantati e per un millesimo di secondo il mondo intorno a noi ha smesso di girare. Come se tutto per un attimo si fosse congelato e il tuo sguardo, in quel breve lasso di tempo, è rimasto fermo a fissare un punto, senza pensieri.
Un movimento, un suono, una voce, ci riporta alla realtà e il mondo ricomincia a girare. Eppure non distogliamo lo sguardo da quel punto, continuiamo a concentrarci su di esso e nel mentre percepiamo ciò che ci circonda. Come quando si osservano le onde del mare al tramonto, l’erba scossa dal vento, le stelle che luccicano in cielo, o i fuochi d’artificio in lontananza la sera di Capodanno.
Li ho osservati molto quei botti, riuscivo a distinguerne perfettamente il movimento, il suono, i colori e le forme. Li fissavo estasiata, quasi invidiosa di non poter esprimere con tanta potenza e libertà ciò che provavo in quel momento. I propositi, le speranze, i progetti. Sentivo dentro di me emozioni contrastanti. Felicità e gioia per l’anno nuovo e tristezza e malinconia per quello passato. Ero come bloccata in quell’atmosfera di urla e risate, ma tutto rimbombava in lontananza, quasi come se stessi sognando.
Una voce mi ha richiamato alla realtà gridando il mio nome, mi sono risvegliata da quell’attimo infinito e ciò che ho visto mi ha fatta sorridere. Vedevo le persone abbracciarsi e baciarsi, amici, parenti e anche sconosciuti, sentivo grida, risate, pianti di gioia, persone che ballavano e cantavano con un bicchiere in mano. Riuscivo a percepire l’energia del momento, come se tutto lo stress e le ansie accumulate durante l’anno si stessero finalmente sprigionando, liberando quei cuori, ora molto più leggeri.
Ho pensato che quello era il momento giusto per iniziare da capo, come ogni anno, o almeno provarci. Le opportunità, le esperienze, le scelte del futuro non sembravano poi più così lontane e irraggiungibili. Sentivo di far parte di qualcosa, un legame tra di me e ciò che mi stava circondando. Non c’era posto più giusto in cui trovarmi in quel momento. Era come essere a casa.