24 Novembre 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Kamala Harris è la nuova vicepresidente degli Stati Uniti, nonché la prima donna a ricoprire tale carica. Quando Joe Biden l’ha scelta come candidata alla vicepresidenza i servizi segreti le hanno assegnato il nome in codice “Pioneer” che, finora, ha rispecchiato perfettamente la sua identità e il suo modo di agire.
Nel corso della sua vita Kamala Harris si è sempre distinta dalla massa, infrangendo barriere e rompendo convenzioni sociali, lo dimostra il fatto che sia stata la prima procuratrice distrettuale a San Francisco, la prima procuratrice generale della California, la prima donna di origini indiane a essere eletta in senato e ora la prima donna vicepresidente degli Stati Uniti. In un’intervista al Washington Post ha dichiarato che uno dei problemi più grossi che ha affrontato quando si è candidata la prima volta è stato proprio quello del venir “etichettata”: “Ti chiedono di definire te stessa in modo da rientrare in una categoria che altre persone hanno creato, ma io sono quello che sono. Forse gli altri hanno bisogno di inquadrarmi, ma a me va bene così”.
La determinazione a emergere e il rifiuto di farsi limitare dalle aspettative della società sono dei valori che Kamala ha ereditato dalla madre, Shymala Gopalan, di origini indiane. Durante le interviste e nel corso della campagna elettorale la vicepresidente ha richiamato più volte la figura della madre, una fonte d’ispirazione che negli anni ha anche condizionato il suo atteggiamento politico.
Prima ancora che Kamala nascesse, Gopalan stava già abbattendo numerose frontiere. Dopo essersi laureata in scienze domestiche In India decise di far domanda per un dottorato a Berkeley in nutrizione ed endocrinologia e, dopo l’approvazione dei genitori, partì. Gopalan arrivò negli Stati Uniti in anni in cui le leggi sull’immigrazione erano molto severe e a solamente cento indiani all’anno veniva concesso l’ingresso nella nazione. All’epoca la comunità indiana conviveva con un notevole razzismo, Gopalan era una dei dodicimila indiani arrivati in America, di cui la maggior parte erano uomini. Partire oltreoceano, iniziare un dottorato in un paese sconosciuto ed entrare in contatto con una cultura completamente diversa da quella indiana fu prova di forte coraggio e gran determinazione, soprattutto in quegli anni fu una scelta molto progressista.
Non appena mise piede negli Stati Uniti Gopalan scese in piazza e partecipò a numerose proteste. Era sempre in prima fila per combattere le ingiustizie sociali, il razzismo, la guerra in Vietnam e l’imperialismo. Fu proprio grazie all’attivismo politico che conobbe Donald Harris, un dottorando di Berkeley di origini giamaicane. I due si sposarono pochi anni dopo e chiamarono la loro prima figlia Kamala, che significa “fior di loto” in sanscrito.
Il rapporto tra Gopalan e Harris fu rivoluzionario, all’epoca era raro che una donna indiana si sottraesse alla tradizione del matrimonio combinato e, oltretutto, decidesse di sposare un nero. In india la discriminazione per il colore della pelle è ancora molto diffusa. Il matrimonio fu per Gopalan un atto di amore, ma anche una atto di ribellione verso le convenzioni sociali.
Pochi anni dopo Harris e Gopalan divorziarono e questo, come accadde per il matrimonio, fu fonte di polemiche e scandalo. Kamala racconta che per la madre il divorzio fu una sconfitta: “Credo che per mia madre il divorzio abbia rappresentato un tipo di fallimento che non aveva preso in considerazione. Spiegare il matrimonio ai genitori era già stato difficile, spiegare il divorzio, immagino, fu ancora più difficile. Dubito che le abbiano detto ‘te l’avevo detto’, ma queste parole le saranno comunque riecheggiate nella testa”.
Dopo il divorzio Gopalan si trasferì a Montréal con le figlie, accettando un posto di lavoro all’Università McGill. Anche in Canada continuò a crescere Kamala e la sorella Maya coltivando entrambe le identità, quella indiana e quella nera. All’epoca per un’indiana era una scelta insolita, ma Gopalan voleva che crescessero orgogliose delle loro origini, senza pensare a cosa avrebbero pensato la famiglia o gli altri. Ripeteva spesso di “Non lasciare che siano gli altri a dirti chi sei perché sei tu che devi dirglielo”. Con questa filosofia di vita si fece strada e riuscì a emergere in quella società che la trascurava, trattandola come una “outsider”.
Sin da piccola Kamala venne condizionata dalla figura materna, da adolescente organizzò una protesta a Montréal, reclamando il diritto di poter giocare a calcio nel cortile del condominio. Ancora oggi il suo atteggiamento politico rispecchia molto le ideologie, i valori e i modi di agire di Gopalan. Kamala è una delle poche dirigenti le cui politiche non si allineano chiaramente con un polo ideologico del Partito Democratico, diviso tra progressisti e moderati. Durante la propria carriera ha vacillato tra i due fronti, prendendo anche posizioni che non rappresentavano nessuno dei due campi. Questo ha messo in dubbio l’autenticità delle sue convenzioni. Eppure il fatto di non appartenere strettamente a nessuno dei due schieramenti l’ha probabilmente resa la scelta giusta come vicepresidente di Biden.
Quando lanciò la campagna per diventare procuratrice distrettuale di San Francisco, la madre la aiutò e la sostenne: faceva da autista, coordinava i volontari e le attività e raccoglieva i consensi per la candidatura della figlia. Non esisteva incarico che Kamala non potesse ricoprire. Per tutta la vita Shymala Gopalan si differenziò dalla massa, continuando a coltivare la sua idea di cosa fosse possibile. Forse il fatto che un giorno sua figlia avrebbe raggiunto il vertice della piramide politica statunitense è una delle cose che avrebbe potuto immaginare.
2 Ottobre 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Ho conosciuto Portland nel 2015 quando ho deciso di frequentare il quarto anno di superiori in una high school americana.
La città è diventata immediatamente la mia seconda casa, il mio mondo lontano, la mia isola segreta. E sottolineo il “mia” per enfatizzare la sensazione di appartenenza, quasi gelosa, alla città.
C’è poco da discutere, chiunque sia stato nella metropoli può affermare quanto sia bella e come sia facile innamorarsene.
Mentre Los Angeles è sole e oceano, i newyorchesi sono ossessionati dalla carriera e a Chicago c’è sempre vento, Portland è famosa per essere la casa degli eccentrici. Merito dello slogan pubblicitario Keep Portland weird e del successo della serie tv Portlandia che dipinge la metropoli come luogo ideale per gli anticonformisti e mecca per gli hipster. Molti giovani si sono trasferiti in Oregon per seguire le proprie passioni e sentirsi liberi di scegliere, vivendo una vita tranquilla.
La quiete e la serenità vengono alimentate dalle bellezze naturalistiche che caratterizzano l’Oregon: Portland è circondata dalla foresta, viene attraversata dal Willamette River e presenta numerosi giardini pubblici e parchi. Viene definita la città delle rose e ricalca perfettamente l’immagine della green city coniugando ecologia e urbanizzazione. Gli abitanti sono tutti amanti della natura, dello sport e dell’aria pulita.
Oltre a essere considerata attiva dal punto di vista ecologico, la città è anche famosa per il suo attivismo politico. A differenza di moltissimi stati americani, l’Oregon si può affermare democratico: da sempre si lotta per la parità, l’uguaglianza e i diritti dell’uomo. Si svolgono innumerevoli scioperi e manifestazioni a cui partecipano migliaia di persone, di tutte le etnie.
È un luogo eterogeneo, cosmopolita e progressista.
Spesso le mostre del Portland Art Museum denunciano ingiustizie e disparità del mondo, stimolando i visitatori a essere più solidali verso gli altri e creare un clima equo e paritario. Si crede nella lealtà, nell’unione e nella condivisione.
Basta vedere cosa è successo negli ultimi mesi: la città ha reagito al movimento Black Lives Matter e la gente è scesa in downtown a protestare 24/7. Conosco dei ragazzi a cui hanno spruzzato lo spray al peperoncino in faccia, altri a cui le forze federali inviate da Trump hanno portato via un familiare mentre era in strada a protestare.
Eppure, è una metropoli che resiste e non si arrende, che continua a lottare per supportare i propri ideali.
Il 2020 la sta mettendo duramente alla prova: prima l’epidemia, poi gli scontri violenti e misteriosi tra manifestanti e federali, ora gli incendi che si stanno propagando in tutta la zona.
Moltissime persone hanno dovuto lasciare la propria casa ed evacuare dalle città oregoniane. Se prima non si usciva dalla propria abitazione per paura del virus o di venir rapiti da veicoli senza targa, ora non si esce per l’impossibilità di respirare a pieni polmoni: il cielo è rosso fuoco, il fumo e la nebbia si possono tagliare con la lama di un coltello.
Le fiamme si alimentano ogni giorno, aiutate da incendi dolosi e dal fatto che ci sia tantissimo verde. Piano piano distruggono alcuni dei luoghi naturalistici più antichi e famosi d’America.
La città sta soffrendo, sia per le conseguenze del cambiamento climatico, sia per le decisioni prese dal presidente americano. Ancora più spaventoso è pensare cosa potrebbe succedere se Trump vincesse di nuovo le elezioni, ipotesi da non sottovalutare.
Fa male pensare che la propria città del cuore sia in difficoltà, che gli affetti che ci vivono siano in pericolo e che bisognerà aspettare la stabilità prima di rivedersi.
Spero che l’anima della città non venga modellata dall’odio e dai disagi che sta vivendo. Spero che rimanga pura e che esca vincitrice dalle complicazioni di questo anno crudele, più forte e, se possibile, ancora più vera.
Keep strong.
6 Giugno 2020 | Vorrei, quindi scrivo
1936, Olimpiadi di Berlino. Jesse Owens conquista 4 medaglie d’oro, la Germania nazista si inchina a un “inferiore uomo nero dai tratti primitivi”.
Nel 1976 il presidente degli Stati Uniti Gerald Ford lo premia con la Medaglia presidenziale della libertà, il massimo titolo per un civile americano.
“Owens ha superato le barriere del razzismo, della segregazione e del bigottismo mostrando al mondo che un afro-americano appartiene al mondo dell’atletica”.
1939, a Marian Anderson viene negato il permesso di cantare in pubblico a Washington D.C. per via del colore della propria pelle. Grazie all’aiuto del Presidente e della First Lady Roosevelt, la cantante si esibisce in un concerto al Lincoln Memorial, scontrandosi con quelle che erano le ideologie e la mentalità dell’epoca.
1940, Charlie Chaplin conclude il capolavoro cinematografico Il Grande Dittatore con un monologo che ha segnato la storia. Nello stesso anno in cui Hitler era salito al potere, dando il via alla Seconda Guerra Mondiale e all’orrore dell’Olocausto, l’attore ha pronunciato il Discorso all’Umanità. Un inno in difesa della libertà, un appello alla collaborazione e all’amore, un tentativo di risveglio della sensibilità individuale.
“We all want to help one another, human beings are like that.
We want to live by each other’s happiness.
Not by each other’s misery.
We don’t want to hate and despise one another.
And this world has room for everyone, and the good Earth is rich, can provide for everyone”.
1955, Montgomery. Rosa Parks si rifiuta di lasciare il posto a un passeggero bianco su un bus. Diventa eroina dei diritti dei neri, coinvolti nella lotta contro la segregazione razziale che colpiva l’Alabama e altri Stati del Sud: dà il via a una protesta tanto rabbiosa quanto non violenta.
1963, Martin Luther King pronuncia il celebre discorso I Have a Dream, alla fine della marcia su Washington per protestare in favore dei diritti umani, del lavoro e della libertà.
“I have a dream that my four little children will one day live in a nation where they will not be judged by the color of their skin, but by the content of their character. I have a dream today!”.
1964, Sudafrica. Nelson Mandela viene condannato all’ergastolo perché ritenuto colpevole di sabotaggio e alto tradimento. Combatteva pacificamente contro l’apartheid e il razzismo. Dopo esser stato scarcerato diventa presidente. La squadra sudafricana degli Springboks partecipa alla Coppa del Mondo di Rugby nel 1995. Mandela confida che un’eventuale vittoria possa rafforzare l’orgoglio nazionale e lo spirito di unità del paese. La nazionale vince contro gli All Blacks e il successo aiuta il riavvicinamento della popolazione nera alla popolazione bianca e stimola l’integrazione del paese.
1966, New Jersey. Il pugile Rubin Carter viene accusato di un triplice omicidio e incarcerato per 20 anni. L’accusa viene poi sollevata perchè l’incriminazione è probabilmente stata alimentata da un pregiudizio razziale.
Bob Dylan dedica la celebre canzone Hurricane alla sua storia.
“Here comes the story of the Hurricane,
the man the authorities came to blame
for somethin’ that he never done.
Put in a prison cell, but one time he could-a been
the champion of the world”.
Sempre Bob Dylan nel 1964 scrive, sull’onda emotiva provocata dall’assassinio di Kennedy e dal discorso di Martin Luther King, The Times They Are A-Changin’ che viene definita un “Inno di battaglia per un’intera generazione”.
1967, Muhammad Ali si rifiuta di combattere in Vietnam.
“No Vietcong ever called me nigger”.
L’opposizione gli costa il titolo di campione dei pesi massimi e la licenza di boxer. Viene condannato a 5 anni di carcere e solo nel 1971 gli viene riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza.
1971, John Lennon scrive Imagine, in un periodo storico segnato dal conflitto in Vietnam e dalla guerra fredda. La canzone invita a pensare a un mondo senza barriere, né religioni, libero dai conflitti e in cui regnano pace e comunione tra i popoli, dove non c’è niente per cui uccidere o morire.
“Imagine there’s no countries
It isn’t hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people living life in peace”.
L’elenco è ancora lungo. Personaggi che hanno segnato la storia, che hanno fatto valere le loro idee, fatto sentire la propria voce e che hanno lottato per un mondo migliore, più corretto e tollerante. Negli Stati Uniti la lotta per i diritti dei neri si è fatta sentire particolarmente. Negli anni la mentalità statunitense si è evoluta e sono state raggiunte grandi conquiste: la schiavitù, la segregazione e le leggi razziali non esistono più. Eppure alcuni avvenimenti continuano a succedere.
2012, Florida. Il diciassettenne Trayvon Martin viene ucciso dal poliziotto George Zimmerman perché sospetto di furto in un negozio. Il ragazzo aveva con sé una bibita e un pacchetto di caramelle. Zimmerman viene dichiarato dalla Corte non colpevole perché ha sparato per legittima difesa.
2014, Missouri. Mike Brown, diciottenne afroamericano, viene ucciso da Darren Wilson. Cosa sia successo non è chiaro ancora oggi, sembra però che la ricostruzione dei fatti relativi all’uccisione sia stata ridimensionata. L’agente non viene incriminato.
2014, Ohio. Il dodicenne Tamir Rice non obbedisce all’ordine di alzare le mani, aveva in mano una pistola giocattolo.
2014, New York. Mentre cerca di vendere illegalmente delle sigarette, Eric Garner viene fermato dalla polizia. L’agente Daniel Pantaleo lo blocca per terra, facendo pressione sul collo, Garner soffoca poco dopo e Pantaleo non viene incriminato. I Can’t Breathe, le ultime parole pronunciate dall’uomo diventano un simbolo di protesta.
Tutte persone che si trovavano al momento sbagliato nel posto sbagliato. E così tanti altri. Omicidi non giustificati, vittime innocenti che muoiono per futili motivi, oppresse dall’odio di un paese che avrebbe dovuto già da tempo evolversi completamente.
2020, George Floyd viene ucciso dall’agente Derek Chauvin a Minneapolis. Ancora una volta violenza e intolleranza hanno vinto e le conquiste fatte fino ad oggi sembrano dimenticate.
L’episodio fa traboccare il vaso e gli Stati Uniti d’America vanno in fiamme. Il Presidente Donald Trump minaccia di mobilitare l’esercito contro i manifestanti, la popolazione è esausta e arrabbiata. Le proteste contro l’abuso di potere della polizia e il razzismo ricordano quelle del 1968, quando M. L. King è stato assassinato. C’è anche chi approfitta del momento e della rabbia e crea disordine ingiustificatamente, saccheggiando negozi e usando la violenza senza limiti. Siamo tornati indietro, ancora una volta.
Nel 2016 Colin Kaepernick, quarterback americano di colore, non si alzò durante l’inno nazionale statunitense all’inizio di una partita. Il gesto, in segno di protesta contro le ingiustizie e le oppressioni subite dalla minoranza nera, venne imitato da molti sportivi scatenando discussioni e polemiche.
La foto è tornata virale, accompagnata dallo scatto dell’omicidio di Floyd.
“Questo è il motivo per il quale protestiamo. Svegliati, hai capito ora o non è ancora chiaro?” ha scritto Lebron James, unendosi all’indignazione collettiva che ha coinvolto tutto il Paese.
In questo periodo storico bisogna stare uniti, amarsi e capire che essere “antirazzisti” non basta più. É necessario alzare la voce e farsi sentire per curare le ferite ed evitare di aprirne di nuove. Bisogna imparare ad ascoltare, raccontare, educare ed educarsi. Fa male pensare alle ingiustizie commesse e a quelle che avverranno se non ci sarà un cambiamento. Questo discorso vale per tutti, in tutto il mondo, da un punto di vista politico, culturale e religioso.
Vorrei lasciare a ogni lettore le proprie conclusioni, riportando qui sotto un altro pezzo del discorso di Chaplin del 1940 sperando di addolcire l’odio e portare speranza.
“You, the people, have the power to make this life free and beautiful, to make this life a wonderful adventure.
Then – in the name of democracy – let us use that power – let us all unite.
Let us fight for a new world – a decent world that will give men a chance to work – that will give youth a future and old age a security.
Let us fight to free the world – to do away with national barriers – to do away with greed, with hate and intolerance.
Let us fight for a world of reason, a world where science and progress will lead to all men’s happiness.
Soldiers! In the name of democracy, let us all unite!”.
29 Maggio 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Cambiamenti climatici, disastri ambientali, discriminazioni e disuguaglianze sociali sono temi molto delicati da cui dipende il nostro futuro e che vanno gestiti con la massima cura e attenzione. Considerando gli impatti significativi e duraturi sulla società e sull’economia è necessario avviare una mobilitazione politica, economica e sociale per diminuire e combattere queste minacce.
A dicembre 2019 la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha presentato l’European Green Deal, un programma di policy per combattere il cambiamento climatico e promuovere un’economia circolare e a zero emissioni. Famose organizzazioni, tra le quali BlackRock Investment Institute e Intergovernmental Panel on Climate Change, si stanno mobilitando per modificare i loro obiettivi economici: è evidente il bisogno di un radicale cambiamento che combini l’ambizione al profitto con un genuino altruismo e un forte desiderio di collaborazione.
Tale obiettivo sarà raggiungibile nel momento in cui governi, aziende e azionisti fronteggeranno seriamente queste realtà ed eviteranno che, nel lungo periodo, l’ecosistema e la crescita economica vengano danneggiati. Secondo il CEO di BlackRock è fondamentale collocare la sostenibilità al centro dell’approccio di investimento e utilizzare strumenti finanziari alternativi: gli investimenti socialmente responsabili.
Il Socially Responsible Investment è una strategia di investimento che, nella valutazione di imprese e istituzioni, integra l’analisi finanziaria con quella ambientale, sociale e di buon governo, al fine di creare valore per l’investitore e per la società nel suo complesso. Di conseguenza i suoi obiettivi riguardano le prospettive future dell’economia e della società, l’analisi dell’impatto sociale e ambientale, la creazione di valore per tutti.
Da sempre l’approccio d’investimento è basato sull’etica: esclude dai portafogli aziende operanti in settori quali alcool, tabacco, pornografia, gioco d’azzardo e armi. Negli anni 2000 si sono diffusi fondi che prendono in considerazione anche aspetti ambientali e sociali: emissioni di CO2, cambiamento climatico, biodiversità, incremento demografico, diritti umani, condizioni e standard di lavoro, diritti degli azionisti, ecc. Da qui è nata la definizione Environmental, Social and Governance (ESG). I fondi ESG tengono conto di tutti questi elementi che vengono coniugati all’aspetto economico, così da interconnettere dimensioni sociale, ambientale e morale.
A confronto con i fondi tradizionali, gli investimenti ESG esibiscono tendenzialmente un profilo di rischio/rendimento migliore e allo stesso tempo esercitano un impatto positivo, per questo motivo sono preferiti dagli investitori. Sempre il CEO di BlackRock ha commentato che “…integrare la sostenibilità – in particolare il clima – nei portafogli possa fornire agli investitori dei migliori rendimenti corretti per il rischio. E, in virtù dell’aumento dell’impatto della sostenibilità sui rendimenti degli investimenti, crediamo che l’investimento sostenibile sia il più solido fondamento per permettere al portafoglio dei clienti di crescere.”
Questi strumenti si sono rapidamente diffusi in tutto il mondo e si prevede che, con il passare del tempo, sostituiranno quelli tradizionali. Questa teoria è rafforzata anche dal fatto che i fondi ESG stanno rispondendo alla crisi del COVID-19 in maniera nettamente migliore ai fondi tradizionali e che le aziende non responsabili subiranno gravi perdite quando la pandemia rallenterà.
Infatti si è ipotizzato che il virus si stia diffondendo anche via aerea, tramite il particolato atmosferico. Ricercatori dell’Università di Harvard hanno notato che i luoghi associati a tassi di mortalità più elevati a causa dell’infezione da Covid-19 sono anche quelli che hanno i livelli più elevati di particelle pm 2.5, quindi quelli più inquinati.
L’ipotesi di una relazione tra la diffusione del virus e l’inquinamento deve ancora venire dimostrata, ma appare interessante l’integrazione della questione sanitaria con la sostenibilità, tanto che si è discusso di aggiungere agli SRI la dimensione dell’H (Health).
In questo periodo storico il supporto delle industrie socialmente responsabili risulta fondamentale per garantire la salute pubblica e rafforzare le performances economiche nel lungo termine. In generale sarebbe auspicabile che gli investitori rispondessero alla crisi economica generata dalla pandemia evitando le aziende che non rispettano l’ambiente, che non proteggono i propri lavoratori e la loro sicurezza finanziaria e che hanno come priorità quella di avere un ritorno economico immediato per i propri azionisti. Al contrario supportare le aziende che presentano una buona etica di governance e ambiente e che hanno come prospettiva la creazione di valore per tutti gli stakeholders, eviterebbe di creare ulteriori danni e contribuirebbe a raggiungere più velocemente la ripresa economica.
Si è autorizzati a pensare ciò nell’ipotesi che durante e dopo una crisi umanitaria ed economica si sviluppi solidarietà e responsabilità tra cittadini, imprese, enti e organi dello Stato, condizione indispensabile per rafforzare nuovamente il Paese e favorire la sua ripresa.
Citando BlackRock: “Investire in modo sostenibile significa investire nel progresso, nella consapevolezza che le società che contribuiscono a risolvere i principali problemi del pianeta potrebbero essere quelle meglio posizionate per crescere. Significa individuare nuove modalità di fare business e imprimere slancio per incoraggiare sempre più persone a scegliere il futuro che stiamo lavorando per creare.”
27 Aprile 2020 | Vorrei, quindi scrivo
Se qualche mese fa ci avessero detto che un virus avrebbe costretto l’Italia alla quarantena, avremmo fatto fatica a crederci. Eppure è la realtà. Sono ormai quasi due mesi che questa situazione va avanti e il contagio sembra non rallentare.
Il nostro Paese è stato uno dei primi ad essere violentemente colpito dalla pandemia e ha dovuto reagire per combatterla.
Riuscire a mandare avanti una vita “normale” è difficile, se non impossibile. Tutti noi abbiamo modificato la nostra routine quotidiana e ci siamo abituati a convivere con questa realtà. Non potendo uscire la maggior parte delle persone sta lavorando da casa, altri sono costretti a rimanere fermi, altri ancora si sono reinventati, cercando di trarre dei vantaggi da questa situazione.
Alcuni ristoranti offrono i loro servizi portando le pietanze al domicilio, i negozi pubblicizzano i loro prodotti sui social, i centri sportivi girano video e dirette per far continuare gli allenamenti. Si canta sui balconi, si cucina, si passa il tempo nei modi più vari, l’importante è tenere il morale alto e avere fiducia.
Alcune associazioni universitarie si sono messe all’opera per affrontare meglio questa emergenza sanitaria. Piccole realtà formate da studenti che lavorano con dedizione e non si vogliono fermare, volendo portare avanti idee e progetti.
Un esempio è il MARKETERs Club, un’associazione riconosciuta a livello nazionale di giovani appassionati di Marketing, Management e Comunicazione.
Nata a Venezia nel 2012, l’associazione conta più di 700 iscritti ed è composta da giovani ambiziosi, che hanno una costante necessità di migliorare e confrontarsi con nuove realtà.
Nel 2015 nacque This MARKETERs Life, un magazine che parla di marketing, lifestyle, trend e brand. Questo ambizioso progetto coinvolge una redazione di oltre trenta persone che lavorano insieme ogni giorno sulla produzione di articoli, attività di digital PR e strategie di social media marketing.
Sempre nel 2015 si formò la MARKETERs Academy, il punto di riferimento per la formazione continua di neo-laureati e profili junior che vogliono valorizzare il proprio CV in web marketing, comunicazione e soft skill, grazie ad un percorso altamente qualificante con i migliori docenti del panorama marketing internazionale. Personal branding, competenze emotive, time management e public speaking sono solo alcuni tra i corsi professionali offerti e promossi.
Durante il corso dell’anno il Club ha sempre offerto ai propri iscritti tantissime iniziative e attività per avvicinarli al mondo del lavoro e aumentare le loro competenze.
Questo organizzando eventi e MTalk in cui importanti manager aziendali raccontano le loro storie e danno consigli in base alle proprie esperienze lavorative. In più la possibilità di iscriversi a corsi di formazione come Excel, Photoshop o Public Speaking, tenuti da professionisti, permette agli studenti di imparare ad usare questi programmi e mettere in pratica ciò che apprendono. I soci hanno anche l’occasione di partecipare come Media Partner ad eventi stimolanti in giro per l’Italia e vengono organizzate visite in prestigiose aziende per scoprire cosa succede una volta usciti dalle mura universitarie.
In questo momento il MARKETERs Club si sta reinventando, cercando i modi ottimali per poter continuare le attività formative non mettendo a rischio nessuno.
Per vivere questo momento storico come una sfida, più che uno stop, il comitato di Venezia e quello di Torino si sono uniti e hanno lanciato il MARKETERs At Home, un pacchetto di corsi di formazione e talk fruibili da casa.
In questo modo i soci del Club sanno come passare il tempo.
Attività telematiche come queste permettono di continuare a imparare e tenere la mente allenata. Sono un mezzo efficiente per rimanere collegati con gli altri e con il mondo esterno.
Vedere queste piccole realtà che si rimboccano le maniche e si mettono al lavoro fa capire quanto una passione possa coinvolgere e stimolare anche nei momenti più difficili. Un forte spirito di unione e collaborazione è fondamentale, soprattutto in situazioni come quella attuale in cui la solitudine e lo sconforto sono all’ordine del giorno.