2 Settembre 2014 | Vorrei, quindi scrivo
E’ impossibile negare che stiamo vivendo un’epoca di grande sviluppo tecnologico. Esso ormai ha caratterizzato le nostre vite, permettendoci di comunicare velocemente con persone che vivono in ogni luogo del mondo, spostarci agevolmente, curarci in modo sempre più efficace. La cosa più strabiliante è che la tecnologia continua a stupirci compiendo passi da gigante tuttora, anche con la costruzione e il perfezionamento di nuove macchine, capaci, sotto il controllo umano, di compiere l’incredibile. E’ il caso degli APR, aeromobili a pilotaggio remoto, meglio conosciuti come droni. Essi sono aerei pilotati tramite controllo remoto anche ad un continente di distanza, e monitorati da stazioni di controllo a terra. Possono volare autonomamente se il loro tragitto è impostato da terra grazie a sensori GPS, in dotazione insieme a sensori per gli infrarossi, ad un radar ad apertura sintetica, che consente di effettuare scansioni degli obbiettivi da raggiungere, da controllare o di offendere militarmente.
Durante le due Guerre Mondiali si sviluppò e migliorò l’idea di un attacco effettuato con mezzi comandati a distanza, che avrebbe garantito una buona dose di imprevedibilità e soprattutto nessuna perdita umana, anche se i primi modelli non erano armati ma solo in grado di perlustrare territori nemici. Alcuni esempi furono l”Aerial Target” del 1916, pilotato con tecniche di radio controllo e l’aeroplano automatico “Hewitt Sperry”. La prima produzione su larga scala avvenne durante la Seconda Guerra Mondiale grazie a Reginald Denny, che creò macchine in grado di localizzare e distruggere l’artiglieria antiaerea. Da quel momento in poi lo sviluppo tecnologico ha portato i droni, impiegati in svariate operazioni militari durante i conflitti contemporanei, ad un miglioramento significativo in termini di lunghezza, autonomia, raggio d’azione, potenza distruttiva, metodo di utilizzo. Oltre al ruolo in campo militare essi iniziano ad essere impiegati in modo efficace in operazioni civili, ad esempio nella prevenzione e nell’intervento in caso d’incendi e in generalenel controllo del territorio.
Questi gioielli tecnologici sembrerebbero sulla carta perfetti, ma i droni hanno un limite importante, che coincide peraltro con il loro miglior pregio: sono comandati a distanza. Questo significa che c’è sempre il rischio di scambiare, durante l’utilizzo militare dei velivoli, gli attentatori con i civili, causando danni irrimediabili, che non possono essere giustificati con la lotta al terrorismo. Errori causati da personale certamente specializzato, ma che si trova a decidere la morte di persone e la distruzione del territorio attaccato come se fosse al comando di una console di videogame, e che sicuramente non ha la certezza assoluta di quello che sta accadendo al di fuori delle postazioni di comando.
Gabriele Arciuolo
29 Agosto 2014 | Vorrei, quindi scrivo
Cominciò tutto con quell’attacco di cuore. In quel momento gli sembrò di essere arrivato al capolinea della sua vita. Successe tutto troppo in fretta: stava camminando quando gli mancò il respiro, perse le forze e cadde a terra, con quel forte dolore al petto a cui ormai era quasi abituato. Non c’era nessuno che potesse sostenerlo e per questo credette che sarebbe morto lì per terra. Mentre chiudeva gli occhi un forte tremito si impossessò di lui, rendendolo incosciente.
La stanza d’ospedale in cui si ritrovò era identitica a quella di sei mesi prima: il letto vicino alle grandi finestre, un vaso di fiori rossi finti sul davanzale e quell’odore di chiuso che riempiva le narici. Insomma, sembrava non essere cambiato nulla.
Era il terzo attacco nel giro di pochi mesi, ed era certo che non sarebbe sopravvissuto ad un altro. Sembrava che il suo corpo gli stesse mandando dei segnali precisi e la sua mente, rassegnata da tempo, presto avrebbe ceduto a quegli invitanti richiami. Dopo la morte di sua moglie tutto aveva perso senso, non sentiva più la forza di vivere. Era rimasto solo, prima incompreso e poi allontanato da quelli che aveva creduto essere suoi amici. Ogni mattina l’unica cosa che voleva era camminare ed osservare. Si accorgeva sempre troppo tardi però che era inutile cercare un pò di felicità nella vita degli altri, se la propria non regalava più alcun brivido.
Si accorse di non essere solo nella stanza solo quando la sentì respirare. Un respiro lieve e regolare che lo catturò all’istante. Quando si voltò e la vide, gli sembrò di rinascere: una bambina riposava sul letto. La sua bambina. Quella bambina che aveva sempre desiderato avere ma che la sorte gli aveva negato. Rimase incantato dai lineamenti del suo volto e dai capelli castani. Era ranicchiata su quel letto, sola ed indifesa, senza nessuno che le stesse accanto. Perché? Poco dopo un infermiere entrò nella stanza, e si accorse che lui la stava fissando.
“Buongiorno signor Malakoff, come si sente?”
“É bellissima, vero?” furono le uniche parole che riuscì a dire.
“Chi?”
“Quella bambina! Come si chiama? Perché non c’è nessuno con lei?”
“Signor Malakoff, le devo parlare di una cosa importante. Riguarda la sua salute..”
“Mi dica qualcosa di quella bambina, la prego!”
“In realtà non sappiamo nulla, l’hanno trovata ieri sera in un cassonetto, con una forte tracheite. Si rimetterà presto.”
I suoi occhi brillarono per un istante che sembrò infinito.
“Signor Malakoff, ha capito? Signore? Non potrà più uscire tutti i giorni, non le rimane molto da vivere. Un anno o due.”
“Cosa si può fare per quella bambina dottore? Intendo dopo la guarigione.”
“Immagino che chiameremo i servizi sociali e..”
“Vorrei adottarla.”
Una settimana dopo il suo incidente, stavano uscendo insieme, mano nella mano. Gli sembrava incredibile. Le avrebbe detto tutta la verità riguardo la sua malattia. Avrebbe cercato di darle tutto l’amore che aveva e di sfruttare ogni attimo che gli rimaneva per farla crescere. Doveva riuscirci. Ormai era lei l’unica cosa che lo teneva aggrapato alla vita. In quel preciso istante lei salì sulla macchina dei servizi sociali e lo salutò dolcemente.
Sarebbero stati due anni indimenticabili.
Gabriele Arciuolo
29 Agosto 2014 | Vorrei, quindi scrivo
– Ciao Franco. Benvenuto a Cuneo! Perché proprio qui?
– Ciao ragazzi. Innanzitutto sono stato invitato a Cuneo dagli organizzatori di “Scrittori in città” e quando ho saputo che il mio intervento sulla vita di mio papà Giorgio sarebbe stato rivolto a giovani delle scuole superiori non ho potuto dire di no.
– Qual è stata la più grande virtù di tuo padre?
– Mio papà Giorgio è stato un uomo sempre volenteroso e determinato. Un uomo che ha deciso, consapevole dei pericoli a cui sarebbe andato incontro, di non tirarsi indietro, che con la sua forza ha salvato molte vite oppresse ingiustamente e che non ha pensato solamente a se stesso, ricorrendo ad ogni mezzo possibile per compiere il bene verso l’altro. Un uomo che dopo aver fatto tutto ciò, è tornato alla quotidianità, senza voler ottenere alcun riconoscimento, ma conservando intatto dentro di sé il ricordo di quegli anni. Quindi direi l’umiltà. Infatti, la scelta di rimanere in silenzio rende mio papà Giorgio un “Giusto tra le Nazioni”, titolo conferitogli dallo Stato di Israele nel 1989.
– Giorgio è italiano, ma anche un po’ spagnolo?
– Durante la Seconda Guerra Mondiale si trova lontano dall’Italia, in Ungheria, con il compito di importare carne per l’Esercito Italiano, con un permesso diplomatico. Nel 1943 inizia ad essere ricercato dai tedeschi ed è costretto a rifugiarsi nell’ambasciata spagnola di Budapest. Qui ottiene documenti spagnoli grazie alla sua partecipazione, in età giovanile, alla guerra civile in Spagna al fianco del generale Francisco Franco. Comincia a rilasciare salvacondotti che garantiscono copertura diplomatica agli ebrei ungheresi perseguitati, ospitati in “case protette”.
– Così tanto spagnolo da diventare “ambasciatore” in Ungheria?
– L’aver conosciuto la grave realtà della persecuzione influenza a tal punto Giorgio che decide di rimanere a Budapest anche dopo la partenza, alla fine del 1944, di Sanz Briz che non riconosce il nuovo governo filofascista istituito dagli invasori tedeschi. Mio padre si finge quindi sostituto di Briz, continuando e intensificando la sua missione: mette infatti in salvo gli ebrei ungheresi che stanno per essere deportati in treno nei campi di sterminio, a volte anche inventando sul momento le persone che avevano diritto ai salvacondotti. Impedisce inoltre l’incendio del ghetto di Budapest e lo sterminio degli oltre sessantamila ebrei presenti in esso, ricorrendo anche a minacce inventate.
– Come decide di muoversi alla fine della guerra?
– Egli avverte i Governi italiano e spagnolo del suo rientro e del suo operato. Torna alla normalità della sua Padova senza raccontare la sua storia né alla stampa né alla sua famiglia fino al giorno in cui due delle donne che aveva salvato lo trovano, nel 1987.
– Un messaggio da suo padre alla generazioni future?
– Giorgio ha permesso a molte persone di avere una famiglia, dei figli e dei nipoti, moltiplicando il numero dei salvati anno dopo anno, in modo silenzioso. Il suo motore era l’amore incondizionato. Ecco, auguro a tutti voi di lottare per i diritti e per la dignità di ognuno, affinché chiunque possa sentirsi amato e di conseguenza dare il proprio aiuto al proprio vicino.
L’intervista qui riportata è frutto dell’immaginazione di me giornalista dopo aver partecipato all’incontro con Franco Perlasca a Scrittori in Città nel novembre 2013 a Cuneo.
Gabriele Arciuolo
24 Agosto 2014 | Vorrei, quindi scrivo
E’ difficile riuscire a comprendere se ciò che scriviamo è frutto della nostra volontà o se la rappresentazione perfetta dei pensieri sulla carta è provocata da una forza interna al nostro corpo, inarrestabile e incontrollabile, che guidandoci e comandandoci, genera la creazione della bellezza.
A volte il richiamo delle parole è così forte da non lasciar pensare, e l’unico modo che hai per smettere di sentire quel ronzio assordante ed incessante nella testa, quel peso sullo stomaco, quella sensazione di malessere che non ti permette di star fermo, è di darla vinta a loro. Fin dalle prime righe però, ciò che credevi fosse una stupidità inizia a prendere una forma, una linearità che non ti aspettavi: da questo momento in poi le parole si sono impossessate di te, ti restituiranno al mondo solo quando avranno portato a termine il loro vero compito. Mostrare la tua vera essenza. Dare un senso alla tua giornata. Riuscire a strappare un sorriso alle tue labbra, ancora incredule di ciò che hai creato. Senza accorgertene quella piccola voglia di imprimere la tua fantasia su un foglio ti ha contagiato a tal punto da farti perdere la cognizione di tutto quello che ti circonda.
Per un tempo indefinito rimani sospeso in una dimensione che ti appartiene fin troppo, che conosci come le tua stanza, anche se è la prima volta che la esplori. Ti scopri più sensibile, più fragile. E’ come se per la prima volta dopo tanto tempo ti stessi presentando a te stesso, mostrandoti per quello che sei veramente. Sei sbalordito. In pochi minuti ti compaiono davanti centinaia di termini, che presi singolarmente non avrebbero nulla da comunicare, ma che nel loro insieme mostrano un desiderio che non può più starsene nascosto. Sei sfinito e svuotato completamente di ogni forza, eppure ti senti finalmente libero, come appena nato, purificato. Hai lasciato una piccola parte di te stesso su quella pagina e farla leggere a qualcuno sarebbe come svelargli i tuoi segreti più intimi. Spegni il computer e ritorni alla normalità.
Qualche giorno dopo però, di nuovo quel richiamo, solamente un po’ più forte, ti costringe a sederti alla scrivania e continuare quello che avevi iniziato. Allora ricominci, e quella pagina si trasforma in una storia, la storia in una trama. Una trama per qualcosa che non hai mai fatto in tutta la tua vita, e che credi sia una follia, appena ti accorgi di volerlo seriamente. Non può esserti venuta in mente una cosa del genere, sei pazzo. Non ci riuscirai mai! Quanti come te ci hanno provato, magari ci stanno provando in questo momento? No, non lo farai di certo. Ma non hai capito che non puoi più decidere, loro ormai ti hanno in pugno. D’ora in avanti appartieni a loro. E non c’è schiavitù più dolce.
Gabriele Arciuolo