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Corso di fotografia
Dove
Calendario
Presentazione del programma del corso di fotografia 2015/2016
Ecco il programma per gli iscritti al corso di fotografia.
Prima lezione: sabato 21 novembre 2015 dalle 14:30 alle 16:00
- Presentazione del corso;
- introduzione alla fotografia;
- storia della fotografia;
- strumenti fotografici.
Seconda lezione: venerdì 27 novembre 2015 dalle 20:00 alle 22:00
- Incontro con Ober Bondi “La fotografia come emozione”.
Terza lezione: sabato 5 dicembre 2015 dalle 14:30 alle 16:00
- Tecnica fotografica, portare la macchina fotografica.
Quarta lezione: sabato 12 dicembre 2015 dalle 14:30 alle 16:30
- Uscita diurna in Cuneo con partenza davanti al Seminario, portare la macchina fotografica.
- Svolgimento dei seguenti temi:
- Ritratto (1 foto);
- paesaggio (1 foto);
- negativo (1 foto);
- la bellezza in uno scatto (1 foto).
Inviare le quattro foto fatte durante l’uscita ad Alessia Mezzavilla entro la quinta lezione.
Quinta lezione: sabato 19 dicembre 2015 dalle 14:30 alle 16:00
- Visione delle foto scattate durante l’uscita precedente;
- “I giganti della fotografia”.
Svolgere, entro la sesta lezione, i seguenti temi del concorso:
- crisi sociale (1 foto);
- le emozioni (1 foto).
Inviare le due foto ad Alessia Mezzavilla entro la sesta lezione.
Sesta lezione: sabato 16 gennaio 2016 dalle 14:30 alle 16:00
- Lavoro a gruppi: “Fotografare un oggetto che ci rappresenta”, portare la macchina fotografica e un oggetto che ti rappresenta.
Inviare le foto scattate ad Alessia Mezzavilla entro la settima lezione.
Settima lezione: sabato 23 gennaio 2016 dalle 14:30 alle 16:00
- Visione delle foto a tema per il concorso.
Ottava lezione: sabato 30 gennaio 2015 dalle 14:30 alle 16:00
- Visione delle foto più belle del corso;
- premiazione del primo e del secondo posto del concorso.
Seminario Diocesano
Ancora una Vuelta
Sabato 12 settembre si correva la penultima tappa del Giro di Spagna. Nei grandi giri, quelli infiniti, che si trascinano per settimane e si vincono con le gambe, con la testa e con i nervi, la penultima tappa è quella che conta. L’ultima, se il distacco è abbastanza evidente, la chiamano passerella, perché si entra a Milano o a Parigi, in questo caso a Madrid, quasi tutti insieme, attorniati dalla folla, che applaude l’impegno e la grinta di ciclisti che danno il massimo di sé per kilometri e kilometri, e spesso neanche questo basta.
Sabato 12 settembre, Fabio Aru, sardo di Villacidro, stava a 6 miseri secondi dal leader della corsa, l’olandese Dumoulin e sapeva che ce l’avrebbe potuta fare: lo avrebbe potuto scalzare, per poter nuovamente indossare la maglia rossa, quella che conta avere addosso l’ultimo giorno, sotto il sole di Madrid.
Sabato 12 settembre, davanti alla televisione ho di nuovo imparato tante piccole cose che il ciclismo ti può insegnare, rimanendo pur sempre umile e timido, com’è nel suo carattere.
Ancora una Vuelta, ho imparato che 6 secondi sono tanti, quando li devi recuperare e che sono dettagli, che fanno una grande differenza. Al tuo avversario basta rimanere lì con te, senza troppe preoccupazioni, e tu hai perso. Per soli 6 secondi. Ma hai perso.
Ancora una Vuelta, ho imparato che ci devi credere sempre. Anche se il giorno prima eri distanziato di soli 3 secondi, credevi di poterli recuperare, eri sicuro di farlo, e poi, invece, te ne becchi altri tre. E dopo la tappa sei nervoso, dai l’idea di esserti bruciato l’ultima occasione. In realtà, l’occasione non è mai l’ultima. Se ci credi, ce n’è sempre almeno ancora una.
Ancora una Vuelta, ho visto il gusto amaro e affascinante del mondo della bicicletta, per una volta non sporcato da storie di doping, e fatto di allenamenti, sacrifici, sudore, storie che ti pesano sulla schiena, quando affronti quella salita che sembra non finire più e stingi i denti, perché il segreto non è pedalare più forte degli altri, ma non smettere mai di farlo. Sono la resistenza e la tenacia che entusiasmano il pubblico.
Ancora una Vuelta, ho riscoperto il valore della squadra e quanto sono preziosi quelli che nel ciclismo chiamano “gregari” e che nella vita sono quelli che faticano in silenzio, che sono disposti a fare sacrifici e conoscono il loro ruolo e le loro potenzialità, così bene che fanno il massimo in ciò che sono bravi, senza invidie. Questa Vuelta l’ha vinta il capitano Fabio Aru e nella storia entrerà il suo nome, ma lui per primo sa che è stata la vittoria della squadra, l’Astana, e di gente come Tiralongo, che è stato coinvolto in una caduta e ha lasciato la corsa con 36 punti di sutura in faccia, di Cataldo e Vanotti, ma soprattutto della generosità di Rosa, Sanchez Gil, Landa e Zeits, che sono stati i veri artefici dell’impresa del 12 settembre, perché hanno pedalato insieme al loro capitano e, se possibile, anche per lui, aiutandolo a mettersi le ali ai piedi e a staccare il leader Dumoulin di oltre 3 minuti. Dumoulin era solo. Aru aveva sempre almeno 3 compagni al fianco, o meglio davanti per tagliare l’aria e guidare il gruppo. Un grande gruppo fa molta più differenza di 6 secondi.
Ancora una Vuelta, ho applaudito l’incredibile voglia e costanza di uno come Ruben Plaza, un ciclista trentacinquenne spagnolo, senza l’ambizione di poter vincere la corsa, ma con il sogno di vincere la penultima tappa, che parte da solo, a 114 km dal traguardo, portandosi dietro solo l’incoscienza di chi vuole tentare una fatica immane, davanti al pubblico di casa sua, con il rischio concreto di farsi riprendere dagli altri e magari farsi superare a una manciata di kilometri dall’arrivo, dopo aver combattuto da solo contro il vento per un paio d’ore. Invece, lui scappa e nessuno ha più la forza di riprenderlo, se ne va da solo in quella che, non a caso, chiamano fuga e ti viene da applaudire. Perché ci vuole coraggio e devi continuare a ripeterti “Non mollare!” sotto il casco. La vittoria di tappa è il giusto e onorevole tributo per una scelta, che scoprirai essere giusta solo alla fine.
Ancora una Vuelta, tanti complimenti a Fabio Aru e al mondo umile e timido del ciclismo, che anche quando è popolato da farabutti e corrotti, di affamati di soldi e di vittorie, disposti a tutto pur di ottenerne, è capace di spazzarli via e di ricominciare. E il ciclismo ricomincia con lunghi allenamenti in montagna e poi tappe faticose, nel fango o sotto la neve, e un lavoro esorbitante, buttato via da una caduta, che magari non è neanche colpa tua e ti spacca le coste, e le vittorie leggendarie a braccia alzata tra due ali di folla, in volata o in fuga e le sconfitte, quando in barba alle leggi della logica senti che c’è tutta salita e mai discesa.
Giorni come il 12 settembre, ti fanno venire la strana voglia di inforcare la bicicletta per fare il classico giro della domenica e mentre ci sei, ti fanno pensare a prendere la vita per il manubrio, a fidarti di quelli che ti aiutano ogni volta che possono, a aiutare ogni volta che puoi chi ne ha bisogno, senza chiedere o aspettare una ricompensa, a non farti scoraggiare da nulla, a stringere i denti, quando serve, perché solo così si arriva al traguardo con le mani alzate, in mezzo alla gente festante, con la maglia rossa addosso. Come Fabio Aru.
E mi viene da pensare: dai, ti prego, ancora una Vuelta!
Marco Brero
Mani tese e mani in alto
Non sono i piccoli gesti né poche parole a cambiare il corso delle cose, eppure sarebbe sbagliato pensare che la storia va così perché è così che deve andare. Siamo di fronte a una crisi umanitaria che potevamo e dovevamo aspettarci, perché a monte dell’ondata migratoria di cui ogni giorno i mezzi di informazione parlano c’è la guerra. Ed è una guerra che nel silenzio degli ultimi anni ha continuato a divampare, anche se sembriamo dimenticarcene. Proprio per questo, ora i governi e i cittadini europei si trovano nella difficile situazione di dover pensare all’accoglienza dignitosa di migliaia di profughi, che fuggono da una terra inabitabile e da un caos che la cecità dei potenti ha contribuito a creare. Non dico che l’intricato gomitolo della situazione politica del Medio Oriente (ma anche quella del Nord Africa è tutt’altro che chiara) sia semplicemente risolvibile con accordi diplomatici, ma la sensazione è che neanche siano cominciate serie trattative per la pace. Quello che è evidente è che nel mondo che si professa ormai addirittura oltre la modernità, civile e consapevole, ciò che vale di più è ancora la logica della violenza e delle armi. Perciò, risulta incomprensibile la posizione di tutti i governi nazionali e, soprattutto, il fallimento dell’ONU che purtroppo dovrebbe poter controllare il panorama internazionale, garantendo la sicurezza di tutti i cittadini del mondo, mentre appare, invece, un complesso miscuglio di burocrati in giacca e cravatta che ha tempi di reazione lentissimi. Quello che serve, al di là di ogni retorica, è la pace immediata, l’unica condizione attraverso la quale è possibile cercare di garantire a tutti, senza discriminazioni, il benessere, la salute e l’educazione. Potrebbe sembrare troppo semplicistico e ottimista, ma la soluzione pacifica esiste: occorre isolare i facinorosi e favorire una discussione democratica che porti a un esito condiviso dai popoli e dalla comunità internazionale. In mancanza di questo si continueranno a nutrire i regnanti del mondo al contrario: i produttori di armi, i politici di ogni lato del parlamento, dalla maggioranza all’opposizione, che cavalcano le frustrazioni di elettori che vivono un periodo di grave crisi economica, spostando l’obiettivo del dissenso e della protesta su argomenti razzisti o di presunta sicurezza nazionale, i giornali e i mezzi di informazione, che non sempre testimoniano il grave stato dell’arte, ma disegnano ingannevolmente realtà inesistenti, con il preciso intento di vendere qualche copia in più o essere più visti o ascoltati rispetto ad altri. Più di ogni altra cosa, si è scoperto che oltre al gigantesco guadagno che una guerra può creare, c’è un indotto economicamente molto interessante che è quello del trasporto dei migranti. Sono sempre di più le storie di scafisti e approfittatori di ogni genere che promettono la fuga a chi ne ha bisogno vitale: non c’è vergogna più grande di chi si approfitta dei disperati. Insomma, in questo momento storico, l’Europa e il mondo intero hanno una grande opportunità, la si chiami “riscatto” o semplicemente “dovere”, perché è in gioco il significato stesso della parola “civiltà” che spesso ci vantiamo di rappresentare. L’Europa ha l’enorme occasione di intervenire con il suo peso politico (non militare) per avviare le trattative di pace, di inviare aiuti umanitari di qualità, di accogliere chi fugge offrendogli educazione, salute e sostegno in attesa che sia il suo Paese di origine a farlo. E non sarebbero gesti eroici, perché se in questo mondo chi fa il giusto diventa un eroe o un’eccezione, allora la speranza è sempre più fioca. In gioco ci sono grandi responsabilità e parecchi ostacoli, ma difficilmente la via più facile è quella giusta. In questo caso la via più facile sarebbe voltarsi dall’altra parte, aspettando che i rumori del dramma, ancora abbastanza lontani da noi, si affievoliscano da soli. La via da seguire, invece, a mio parere, è quella, prima di tutto, di prendere decisioni a cui molti cittadini si opporrebbero (perché, come direbbe Faber, chi non terrorizza si ammala di terrore), di imporre la pace a chi puntando le armi al cuore di interi popoli urla “Mani in alto!”, non con altra violenza, ma con l’irresistibile forza di una miriade instancabile di mani tese. Perché si tende la mano per aiutare chi è caduto a rialzarsi, per sancire un accordo, per dimostrare vicinanza e partecipazione, per un semplice gesto di pace. Così semplice che sembra impossibile, in questo mondo al contrario che da solo non si raddrizzerà.
Marco Brero