12 Febbraio 2018 | Stappapensieri
La parola è un gran dominatore che, con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere. Così Gorgia, famoso sofista della Magna Grecia, scrive nel geniale Encomio di Elena che è anche un encomio della capacità comunicativa dell’uomo.
Tuttavia, come parecchie altre realtà con cui l’uomo contemporaneo viene a contatto, il linguaggio ha perso molto della sua sacralità. Questa dissacrazione è correlata alla quantità di notizie irrilevanti che vengono diffuse e all’impossibilità di fidarsi degli altri sulla base di accordi; si vomitano parole e si annega in una comunicazione che in comune non mette nulla: i media urlano, nelle città camminano automobili incaricate di fare pubblicità soffocando i passanti con informazioni pronunciate al megafono e anche nel letto, desiderosi di riposo, le orecchie odono ancora sconosciute televisioni parlanti. Parole, parole, parole cantava qualcuno. Allo stesso tempo è ormai rischioso affidarsi alla parola data: la vacuità di frasi dette a voce è grave, ma lo è ancora di più quella di un accordo scritto e firmato. Emerge dunque nitida la conseguenza di questa duplice declinazione della crisi comunicativa: se si svuota la comunicazione, si svuota anche la stessa società umana, perché ogni relazione si fa di promesse.
Questo momento di difficoltà della parola richiede una reazione urgente per due ragioni: la prima è di carattere pratico, dato che l’equivocità del linguaggio può essere dannosa in senso concreto, la seconda è legata a un piano più alto, perché la parola rivendica per sé un rispetto che è fine a se stesso. Siccome la nostra cultura sta riducendo tutto a mera tecnica, a immediatezza e a calcoli matematici, non sembrerebbe essere preoccupante usare un termine al posto di uno simile, anche se con significato parzialmente diverso.
Tuttavia in quel parzialmente c’è un universo di senso: non è solo il contenuto generale delle cose ad avere valore, ma anche la forma in cui le cose si manifestano. È allora doveroso riconoscere un livello più profondo sotto la diretta utilità della comunicazione, prestando attenzione al modo in cui ci si offre al mondo. Solo imparando a esprimere in modo preciso le proprie idee si può capire come difendersi da chi approfitta di folle incapaci su questo versante: la massa abbocca ai sermoni degli oratori laddove concepisca il linguaggio come un normale strumento comunicativo, guardando semplicemente al senso globale di un discorso; infatti nell’ascoltare gli uomini che ricoprono cariche istituzionali spesso ci si concentra esclusivamente sul nocciolo delle questioni, tralasciando i modi in cui queste vengono espresse. Eppure è importante analizzare le sfumature di significato, il motivo per cui è stato scelto un certo termine invece di un altro: si tratta di domande che ci si deve porre per capire davvero le intenzioni di chi sta parlando.
La parola è un gran dominatore che, con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere: il suo corpo è minuto perché è fragile, perché è sufficiente che qualcuno ne abusi affinché la parola muoia. Possiede però capacità creativa e trasformativa se è l’uomo ad accordarle un grande potere: solo rispettandola è possibile intessere rapporti stretti con le persone; solo ridefinendo i confini oggi sbiaditi di quella sacralità si può rifondare una società che comunichi bellezza e verità attraverso legami fatti di patti, di accordi, di promesse: fatti di parole.
17 Gennaio 2018 | Stappapensieri
Siamo tutti ballerini che dovrebbero cercare di rappresentare la loro parte nel migliore dei modi, uno di fianco all’altro, e insieme diamo vita a un solo spettacolo: ogni scena è un periodo storico e tutta la Storia è l’intero balletto, di cui si conosce poco dell’inizio e nulla della fine. Nonostante non ci siano certezze sull’identità del vero spettatore, ciascun danzatore è in parte attore e in parte giudice degli altri, per questo bisogna imparare a leggere la Storia nel modo giusto. Immanuel Kant, con la sua immancabile eleganza, battezza e descrive tre atteggiamenti generali con cui si è soliti guardare il mondo e scrive nel 1798 nel Conflitto delle facoltà: «Il genere umano, riguardo alla sua destinazione morale, o è in continuo regresso verso il peggio o in costante progresso verso il meglio o perpetuamente immobile». Geniali sono i nomi di queste interpretazioni: «terrorismo», «eudemonismo» e «abderitismo».
Il primo è forse il più curioso e diffuso di tutti: il pessimismo (storico e cosmico) è la voce di due tipi di persone, di quelle che si cibano di televisione e degli anziani, che possono permettersi di affermare che il mondo si autodistruggerà perché in ogni caso loro non dovranno più viverci per molto. I giovani invece devono restarci. Il terrorismo storico porta a lavarsi le mani come Ponzio Pilato, ovvero all’astensionismo elettorale, allo scuotere la testa davanti alle convinzioni dei ventenni e al lasciarsi cullare dalla propria rassegnazione. Credere che si andrà sempre verso il peggio e che “era meglio una volta” è un modo di pensare distruttivo e inutile, siccome l’uomo non ha il potere di riportare in vita ciò che è morto. Parallelamente, però, è anche uno sguardo che si nutre di idealizzazione degli anni conclusi: i nonni che rimpiangono la loro infanzia accantonano inconsciamente i ricordi delle due guerre mondiali, il che potrebbe anche essere fisiologico; è vero, attualmente il mondo sta attraversando un periodo complesso sotto vari aspetti, ma il Novecento non è stato un periodo tanto più felice. Cristallizzare il passato, rapportarsi a lui come se fosse una reliquia porta a una malinconia paralizzante che sicuramente non invoglia a sentirsi parte del balletto. Tuttavia la critica kantiana al terrorismo storico e morale non significa che la Storia precedente è un tempo da cui non si impara nulla e che va dimenticata: per non essere ancorati al passato bisogna infatti conoscere prima le proprie radici, studiando la Storia, che è ciò che ha generato il tempo presente nel bene e nel male. Bisogna poi guardare avanti e fare il possibile per le generazioni future, impegnandosi in una entusiasmante sfida quotidiana.
«Dai diamanti non nasce niente / dal letame nascono i fior» cantava Fabrizio de André: il presente difficile può diventare una possibilità invece di una costrizione. Il terrorismo storico prende il sopravvento soprattutto quando si crede di essere il salvatore di un mondo che non ci lascia spazio perché troppo ottuso; invece di abbeverarsi a questa presunzione – più o meno consapevole – ci si potrebbe rendere conto di essere tassello di una totalità di cui ci si può e ci si deve fidare, dato che per ora il mondo continua ad andare avanti: per quanto tempo, questo non ci è dato saperlo, ma sicuramente è più intelligente trovare come rendere migliore il mondo, e non speculare su fino a quando sarà migliorabile.
17 Dicembre 2017 | Stappapensieri
Dopo ore di danza il fiato e le energie vengono meno e, vinti dalla fatica e dalla sete, si avverte di aver bisogno di una pausa. Disturba questa parola, pausa, tanto che chi consiglia di interrompere la routine è comunemente visto come un ingenuo che non conosce le regole del mondo. Questo accade perché le pretese della contemporaneità sono così ingombranti da corrompere addirittura la vita privata e interiore delle persone. C’è la tendenza diffusa ad accantonare sempre più i problemi legati all’anima e alla spiritualità, il che porta alla situazione assurda in cui si considera come oro colato la parola del medico che consiglia riposo e si mettono a tacere i segnali dell’anima. È evidente che la presa di consapevolezza di questa drammatica realtà non deve portare a un nichilismo fine a se stesso, ma, al contrario, ad assumere una prospettiva di parziale e sano distacco da tutto questo. Bisogna essere molto attenti a non cadere vittime della trappola e a non diventare come l’uomo d’affari che il Piccolo Principe si sforzava invano di capire; occorre vegliare e tenere ben saldi i propri valori per non essere inghiottiti da un mondo sempre più invadente, impudico e maleducato. Ecco che il tempo del riposo diventa allora essenziale per mettersi al riparo da questo distruttivo e pervasivo modus vivendi.
Cercando le ragioni che spingono le persone a procedere sull’orlo del precipizio come un gregge, si intuisce che la ricorrente bizzarra giustificazione è che non si ha tempo per occuparsi della propria anima. È così buffa da essere folle, perché rinunciare alle proprie convinzioni e alla propria felicità è niente meno che assassinare se stessi dimenticando quello che ci rende vivi nel senso più profondo. Facendo un lavoro di introspezione e guardando allo scorrere delle nostre giornate, chiediamoci se conosciamo ancora il tempo per coltivare i rapporti, per un buon libro, per giocare con i nostri figli e per fare l’amore con chi ci vive accanto. In mezzo a tanto rumore, lavoro, macchine deambulanti sulle strade, l’anima sussurra con forza: Quo vadis? Qual è la tua meta?. A questo proposito cade a pennello il pensiero di Zygmunt Bauman, il quale scrive in Modernità liquida: «Cent’anni fa “essere moderni” significava inseguire “lo stato di perfezione definitivo”, mentre ora allude a un miglioramento all’infinito, privo di qualsiasi prospettiva o aspirazione a diventare definitivo». Queste parole sono una luce che apre i nostri occhi come sulla via di Damasco: se si continua a ridere con amarezza davanti alla parola fermarsi, se imperterriti si corre e non si arresta il flusso di pensieri, in nessun modo si riuscirà a focalizzare l’obiettivo. Laddove non c’è riposo non si può scorgere lo scopo e di conseguenza tutto perde di senso. Se è vero che si vive per qualcosa, è urgente interrogarsi, riscoprire la ragione di tutto questo e agire con coerenza. Se si è sordi al punto di arrivare a metà della vita senza saper dare una risposta, seppur incerta, alla salvifica domanda dell’anima, urge agire con prontezza e determinazione.
Nella realtà del Natale il riposo non può che diventare una condizione più che mai necessaria ed emblematica: è il tempo del silenzio interiore, di una pausa rigenerante e costruttiva per ritrovare gradualmente il modo a cui rispondere almeno parzialmente e timidamente a quella domanda che risuona in ognuno di noi: tu, amico mio, dove stai andando?
17 Novembre 2017 | Stappapensieri
La vita è come una danza su note sempre nuove e, se è una danza, occorre andare a tempo. Occorre capire quando fare quale passo, quando cambiarsi d’abito, quando respirare. Occorre ascoltare la musica, stare al ritmo.
Innanzitutto bisogna conoscere i movimenti, per farli al momento giusto. Se è ridicolo il ballerino che fluttua sul palco senza tendere l’orecchio alla melodia, dal punto di vista esistenziale è sciocca la presunzione di essere autonomi, cioè di potersi dare delle leggi indipendentemente da quello che accade intorno, perché la vita detta le sue regole.
Come canta Fossati nella canzone C’è tempo, esiste un tempo adatto a tutto. Questo va riconosciuto e interiorizzato: non è vero che un gesto vale l’altro né, tanto meno, che non esiste la circostanza adeguata.
L’essenzialità dello stare al ritmo, del sentire l’armonia e del muovere i piedi nel modo corretto è ben esplicata da un recente episodio di cronaca: la gravità del filmare la morte di un uomo per condividerla in diretta su Internet non è forse il chiaro segnale dell’incapacità di agire in base a quello che la danza sta esigendo? In quell’istante la vita sta richiedendo la conformazione a una legge, che è ovvia anche al senso comune perché, altrimenti, i fruitori del social network non si sarebbero scandalizzati davanti a un simile atto: è la regola del fare le cose al momento opportuno.
Sono state mosse numerose critiche incendiarie alla disumanità di chi compie un gesto del genere, e sono state accuse coerenti. Pensare che chi non sta al ritmo a questi livelli sia “fuori dal mondo” è istintivo, ma più che essere “fuori dal mondo” si dimostra di essere “fuori dalla vita”: è estraneo alla musica chi balla un Valzer sul ritmo di una Mazurka.
Questo insegnamento è il fulcro dello straordinario episodio evangelico avente come protagoniste Marta e Maria: Gesù, ospite da queste due sorelle, rimprovera la prima non perché questa si preoccupa e si affanna per l’accoglienza in casa sua, ma perché, molto semplicemente, non sa stare al tempo. Non è quella la situazione adatta ad agitarsi, perché la danza della vita, in quel preciso attimo, sta chiedendo altro. Questo è evidente alla mente di Maria che, mettendosi in ascolto di chi le fa visita, si rivela così la donna “sul pezzo” : sveglia e, soprattutto, precisa in quello che fa.
Perché sì, serve precisione nella vita. Serve ascolto della musica. Non si può pretendere superbamente di essere legislatori di se stessi, dato che è il tempo a imporre i suoi ritmi. Come nel ballo la difficoltà non è meramente quella di sapere il “come”, ma di sapere il “quando”, allo stesso modo nella realtà quotidiana non sono sufficienti la consapevolezza e l’abilità di cogliere l’attimo, ma è fondamentale sapere quando coglierlo e che cosa fare in quel dato momento.
Ci sarà il tempo per tutto, per tutte le danze che si vorranno ballare, per tutti i passi che si vorranno sperimentare; ci saranno quel tempo, e quell’altro tempo, ma non sarà il ballerino a scegliere quando.
17 Ottobre 2017 | Stappapensieri
La sfera delle relazioni umane è stupefacente, perché esige una notevole dose di fede e fedeltà e porta con sé un autentico desiderio di complicità. Ci si fida quotidianamente delle persone, dall’amico al pilota dell’aereo; alcuni dicono che è semplicemente noncuranza dell’eventuale rischio, ma forse c’è qualcosa di più grande in tutto questo.
Ognuno è una piccola scheggia di umanità e, di conseguenza, ognuno è in parte responsabile della rappresentazione che dà di essa. Quando, però, questa immagine viene scalfita, trionfa la sfiducia nei confronti di tutti gli uomini: se un pilota fa precipitare l’aereo ponendo fine alla vita dei passeggeri si avverte una disillusione profonda e sembra che tutte le speranze nel miglioramento del mondo vengano frustrate in un attimo. Nonostante non siano rari questi episodi deludenti, è essenziale non credere che si stia andando verso la disgregazione dei rapporti umani. Non è vero che le persone di questa epoca sono sole a causa della tecnologia e della globalizzazione, perché l’uomo, in quanto tale, non ha mai cessato e mai cesserà di intessere relazioni interpersonali. Già in passato Giambattista Vico, secoli fa, formulò un pensiero di sapore aristotelico capendo che la civiltà e la Storia non potrebbero esistere senza quello che lui definisce socievolezza umana.
Bisogna allora tenere sempre a mente che, al di là di ogni possibile fallimento, l’umano non può fare a meno della fede nell’umano. Ed è bello pensare che persino il profeta nietzschiano Zarathustra, dopo anni di isolamento su un monte, sentì il bisogno di immergersi nuovamente tra gli uomini; è bello pensare che persino lui scelse di tornare nell’umanità, in quell’insieme eterogeneo che è il luogo più entusiasmante ed elettrizzante di tutti.