Settembre è cominciare

Questo settembre così generoso, che sapeva ancora di estate e di buono, ci ha accompagnati alle porte del nuovo anno. Si associa spesso l’autunno ai colori stinti della routine, e quando ad ottobre ci si ritrova ormai immersi nella quotidianità, si ha l’impressione che in fondo tutto si ripeta, che tutto sia uguale a se stesso, e che poco cambi rispetto all’anno passato. Bisognerebbe invece guardare all’autunno con occhi nuovi, con gli occhi dei bambini che colgono motivo di allegria in ogni dettaglio, in ogni nuovo gioco.

Allora desidero rivolgere sinceramente a ciascuno di noi due auguri: il primo, quello di amare ciò che ci attende, di qualsiasi natura sia. Marco Aurelio scriveva: «Ama solo ciò che ti accade e che forma la trama della tua vita. Che cosa potresti mai trovare di più appropriato?». Amare quello che ci accade, questa è una grande perla di saggezza, perché solo così è possibile raggiungere quell’equilibrio e quella serenità a cui tanto aneliamo. In questo nuovo anno lavorativo e di studio incontreremo momenti di dolore, di sconforto, delusioni, ma saranno tutte cose buone, che potranno dare frutto; e persino quando non riusciremo a fare nostro questo atteggiamento dovremo amarci e amare il nostro limite. D’altronde, perché si possa gustare pienamente l’esistenza, è necessario zuccherare le sue amarezze, amalgamandole al resto e accogliendole così nell’intreccio della vita.

Per il secondo augurio faccio profondamente mio il pensiero che Italo Calvino ci regala in chiusura di Le città invisibili: l’inferno è una realtà terrena, ma a cui si può sopravvivere scorgendo, in mezzo all’inferno, ciò che non è inferno, per farlo durare e dargli spazio. Allora, tra i muri stinti della scuola, tra le fredde scrivanie dell’ufficio, alla noiosa cassa dei supermercati, negli umidi caselli delle autostrade, nelle città gremite di gente che cammina svelta di fronte ai tanti barboni spenti e infreddoliti, trovate la chiazza di colore che può migliorare la giornata degli altri e, di riflesso, anche la vostra; andate alla sua ricerca come se fosse la cosa più preziosa al mondo, cercatela in ogni angolo, trovatela ogni giorno e abbiate modo di ringraziare alla sera, prima di chiudere gli occhi, per essere riusciti ad acchiappare quella macchia di colore che vi siete spalmati sul vostro viso ridente e su quello del vostro prossimo.

Non tentiamo di progettare un anno memorabile, che finisce poi per scivolarci dalle mani lasciandoci a bocca asciutta. Impegniamoci invece per costruire un anno semplice, sereno: un anno buono.

Elogio del conflitto

Frequentemente lo studio, soprattutto manualistico, è un’attività noiosa, tanto noiosa che i suoi contenuti spesso di strabiliante bellezza diventano banali. Eppure, grazie al Cielo, talvolta accade di soffermare lo sguardo – che sta scorrendo le pagine, distratto – su una frase del libro che a prima vista era apparsa come assolutamente ovvia, ma che in un istante si veste di tutta la sua ricchezza: « Pòlemos pànton men patèr estì », che significa « Pòlemos (la guerra) è padre di tutte le cose ». Si tratta di un frammento di Eraclito, il famoso filosofo greco del “divenire” vissuto intorno al V secolo a.C. Queste poche parole rappresentano un’intuizione che, oltre a segnare un importante cambiamento di rotta all’interno del panorama filosofico antico, coglie un aspetto strutturale della realtà attraverso un elogio del conflitto.

Tutto nasce dal conflitto. È innegabile: c’è una lotta al momento del concepimento, quando tra milioni di spermatozoi soltanto uno riesce a essere parte attiva nella nuova creazione; c’è una potente tensione durante il parto, quando, con incredibile dolore, la vita stessa sboccia per una vita più piena. Addirittura nell’istante in cui la morte sopraggiunge, ogni essere vivente lotta strenuamente per la sopravvivenza: cifra saliente della realtà è infatti questo profondo conflitto in cui il alla vita s’impegna per prevalere sul no alla vita – è un meccanismo così naturale che il masochismo e il suicidio sono situazioni “innaturali” dal punto di vista biologico e per questo difficilmente compresi dalla mente umana –. L’esistenza anela a quel , continuamente e anche senza accorgersene: sceglie sempre ciò che è bene per lei, ciò che, in un modo o nell’altro, presto o tardi, può condurla alla pienezza.

Questa eterna contrapposizione tra due poli è tratto caratterizzante anche di una sfera tipicamente umana, vale a dire lo scambio di idee: si pensi alla fatica che ogni persona impiega per emergere in tutta la propria bellezza in mezzo agli altri, al sudore nell’esprimere le proprie convinzioni. Si combatte e, alla fine, si vince oppure si resta sconfitti: a questo punto sembrerebbe allora che si stia parlando di un aut-aut, di un percorso che non è affatto entusiasmante, perché conduce soltanto a un punto morto. Eraclito tuttavia soccorre queste nostre riflessioni confuse nel momento in cui afferma che il conflitto è padre. Ma padre è solo chi ha generato: dunque una tensione è buona solo laddove sappia essere terra fertile.

La vita potenzialmente racchiusa in questa lotta di opinioni può declinarsi in due modi diversi. La prima è quella che nella società attuale appare in qualche modo come la più importante: si tratta di una sintesi delle idee che si contrappongono. È un atto di generazione che prende le mosse dalla fusione degli aspetti migliori di due pensieri, e che richiede sangue freddo e umiltà. Il secondo tipo di vita è forse ancora più difficile da creare: è la vita che sboccia quando la discussione è fatta per il puro desiderio del confronto, quando ci si lascia reciprocamente la libertà di pensiero. È la vita che sorge quando si ammette: « Bene, la pensiamo in modo diverso, ed è bello così ». A questo si giunge con parecchia fatica, perché spesso si fa strada in noi la tentazione di plasmare l’altro a nostro piacimento e perché non di rado, in fondo, siamo tutti convinti di avere la verità in tasca. Questo secondo atteggiamento è proprio di chi indietreggia per tornare al proprio posto dopo essersi proteso verso il pensiero differente, e per questo rappresenta una zona ricca: chi accetta la diversità dà vita, perché si ritira; chi accetta la diversità realizza che è illegittima la pretesa di cambiare l’altro e fa un passo indietro per non soffocarlo.

La guerra, a livello esistenziale, è cosa naturale ed è elemento costitutivo del tessuto che caratterizza l’umano, ragione per cui non dev’essere evitata se ha il potere di portare bellezza. Occorre quindi ricordare che la fecondità di un conflitto emerge non solo “trovandosi a metà strada”, ma anche mostrandosi capaci di abbracciare la differenza e di comprenderla – dal latino cum e prehendere, prendere insieme –: perché questo è il primo passo per saper accogliere, per saper amare.

Voglio essere invisibile: vivere con discrezione

In Francia nel 2013 viene pubblicato un breve saggio molto interessante e dal titolo significativo, soprattutto per l’uomo contemporaneo: L’arte di scomparire. Vivere con discrezione. L’autore è Pierre Zaoui, professore di filosofia all’Università di Parigi. Questo centinaio di pagine riporta un’acuta analisi del rapporto che in generale si è soliti intessere con la tecnologia, intesa nel senso più comune del termine, ovvero come lo strumento che gran parte delle persone possiede per comunicare e dare manifestazione di sé. Le situazioni esaminate vengono presentate da Zaoui come esperienze del tutto ordinarie ma avvolte da una tale aura di misteri e paradossi controintuitivi da lasciarci in un primo tempo senza voce: come negarlo?

Tre sono forse i casi più fecondi per questo tipo di riflessione. Il primo riguarda l’utilizzo di un mezzo che è ormai in mano a quasi tutte le persone più o meno adulte: il cellulare. Osservando la gente seduta sui treni, prestando attenzione alle folli (perché sì, sono folli) chiamate dei call center che quasi quotidianamente si intromettono con forza nella vita privata e notando che il cellulare è fedele compagno anche in bagno, sembra proprio che si sia colpiti da una malata presunzione di onnipotenza: con quell’oggetto sembra infatti di poter raggiungere chiunque in ogni momento, ma il mondo ha sete di discrezione, facendo eco a Zaoui. Un grave problema è che si tende a non stupirsi più del telefono che squilla la domenica pomeriggio o dopo l’ora di cena: è diventato qualcosa di assolutamente normale, quando in realtà è un’eccezionale invadenza; spesso non si avverte l’esigenza di essere lasciati in pace mentre si è sul divano alla sera e, se la si percepisce, comunque si tende a scusare un’insistenza che è semplicemente inscusabile. Parallelamente a questa ricerca di perenne contatto con gli altri, succede spesso di non rispondere quando si riceve un messaggio: certo, non essere contattabili è un diritto di cui avvalersi, ma, dopo una certa soglia, si sfora nella maleducazione. Anche in questo caso si tocca con mano la terribile supposizione di essere onnipotenti, di poter nascondere se stessi e non essere reperibili quando gli altri reclamano aiuto o informazioni.

La seconda occasione di riflessione viene dal continuo immortalare una consistente fetta di quello che si vive: il giuramento nuziale tra due sposi (scena a cui ho assistito e che è decisamente non commentabile), un’immagine inconsueta mentre si passeggia per la città, un paesaggio ripreso da droni che ondeggiano sulle teste dei passanti. Il punto è proprio questo: di tutto ciò si avverte l’esigenza, che però è fasulla, perché trae la propria origine dall’idea che esse est percipi; per dirlo con Pierre Zaoui: come riuscire a farsi discreti in società dove praticamente tutto, dal mondo dell’impresa al mondo dell’arte, passando per la televisione e i social network, è lì a ricordarci che essere è unicamente essere percepito? Forse rifiutando la convinzione che qualcosa è vissuto solo se ritratto e condiviso: infatti vivo ed esisto indipendentemente dagli altri intorno, ho valore anche senza l’approvazione del mondo.

Il terzo aspetto riguarda forse un minor numero di persone, ma si presenta con più enigmi: è quello legato all’utilizzo dei social network – denominazione per altro ingannevole, perché sorge il dubbio se condividere i propri pensieri in un mondo virtuale sia realmente social. La sensazione che mi colpisce ogni volta che apro la pagina di Facebook è identica a quella che si potrebbe provare davanti a un’orda di gente che vomita: spiacevole immagine, ma non esagerata. Si vomita davvero qualsiasi tipo di emozione, senza sconti: dal Ti amo, urlato alla persona in questione e al mondo intero, alle foto scattate ai bambini non ancora usciti dalla sala parto. – Mentre sto ragionando su tutto questo, soffro per questa totale penuria di silenzio, di discrezione, di pudore. È pressoché cancellato il confine tra me e il mondo, tra quello che sento dentro di me e quello che gli altri sono per me, ovvero sconosciuti rispetto al mio io più profondo –. Si vomita ogni genere di cosa, senza che ci si ricordi che ogni lettera scritta, ogni virgola, ogni fotografia resteranno per sempre archiviati in quei luoghi che nessuno sa, compresa l’immagine di mio figlio che ho appena dato alla luce e che crede ancora che il mondo sia il mio odore mentre lo sto allattando.

Le nostre società, che se ne accorgano o meno, hanno urgente bisogno di rispetto, sussurri e delicatezza. Le strade sono sempre più rumorose, la campagna sembra trasformarsi gradualmente in città, le persone sui treni urlano: almeno nel cuore facciamo silenzio una volta per tutte. Accarezziamo con dolcezza le nostre emozioni e i nostri pensieri, e ragioniamo prima di agire, perché il viso di un lattante buttato sulla pagina Facebook è una lesione del suo più profondo diritto umano, un diritto che è di ognuno: il diritto all’invisibilità.

A volte giganti… a volte nani

«Perfetto, eccellente, tale da poter servire come modello di un genere, di un gusto, di una maniera artistica, che forma quindi una tradizione o è legato a quella che generalmente viene considerata la tradizione migliore». Questa è la bellissima definizione che il dizionario Treccani dà di una parola oggi messa sostanzialmente al bando dai nostri vocabolari mentali: «classico». Classico oggi è sinonimo di ciò che è vecchio, superato, noioso, a volte anche inutile: musica classica, liceo classico, classici letterari, filosofia classica… Che cosa stanno vivendo le nostre società?

La moda della modernizzazione è una gravissima malattia del nostro tempo e sta causando disastri epocali su diversi fronti. È impossibile non osservare l’attuale tendenza a liberarsi del passato e la continua ricerca di novità, come se la novità andasse ricercata con particolari strategie. Il deprezzamento del passato si manifesta chiaramente in alcune situazioni che si possono sperimentare abbastanza frequentemente: la negazione dell’utilità del greco che si spinge fino a volerlo eliminare dal curriculum di studio dei licei classici, il disimpegno non solo italiano verso la conservazione delle opere d’arte, la fatale svalutazione del sapere umanistico… L’elenco potrebbe continuare fino a toccare l’incredibile diffusione a macchia d’olio dell’ostilità nei confronti della vaccinazione: in effetti le idee dei No Vax, al di là delle strumentalizzazioni politiche e propagandistiche che ne vengono fatte, possono essere lette come sintomo di una spaventosa sfiducia nei confronti dei progressi (in questo caso scientifici) dei secoli passati. Eppure ci sono stati studi, rivoluzioni scientifiche, ci sono state tante persone sapienti che hanno fatto dono dei loro risultati al mondo intero. Con il tempo le conoscenze vanno certamente corrette, integrate, temperate, ma, se si butta a mare il passato, insieme si buttano a mare il presente e il futuro. Quello a cui si sta assistendo è una subdola epidemia che infetta pericolosamente le menti di ognuno, manifestandosi nelle forme esasperate del complottismo o nell’incredulità nell’ascoltare chi dovrebbe saperne di più. C’è il rischio di ritenere il passato come un enorme mucchio di errori che sì, forse a qualcosa hanno portato, ma non a molto oppure come un enorme mucchio di scoperte che alla fine non sono state poi tanto salvifiche.

Eppure urge capire che la storia è un insieme unitario e che non si può mai ritenere nulla come totalmente arretrato o avanzato, perché «l’umanità, per quanto diversa, non era per questo più incompiuta di quanto lo sia oggi», come suggerisce Jonas. Si evolve in qualche ambito e si regredisce in qualche altro; le cose però vanno inserite nel loro contesto di appartenenza, come dimostra il fatto che nella cultura cattolica vengano letti sia il Vecchio sia il Nuovo Testamento, anche se il primo è stato rivisto e ampliato dal secondo, perché il nuovo è in debito con il vecchio e perché tutto è prezioso. La storia è caratterizzata da una continua alternanza tra vincitori e vinti, ragione per cui oggi non siamo più sapienti o più ignoranti di un tempo in modo assoluto: semplicemente l’umanità cambia, e le conoscenze con lei.

La famosa immagine di Bernardo di Chartres, filosofo medievale del XII secolo, deve suonare come un imperativo al giorno d’oggi: «Siamo come dei nani seduti sulle spalle dei giganti». Dobbiamo esserlo, debellando la nostra terribile presunzione, abbattendo la nostra sfiducia, raggiungendo l’altezza dell’umiltà. Forse ci si domanda per quale ragione noi dovremmo essere nani e gli altri dei giganti: siamo nani perché si nasce piccoli. E perché la vita richiede di cambiare di tanto in tanto le proprie dimensioni, di farci a volte piccoli e a volte grandi. Ma siccome un gigante non potrebbe salire su un altro suo simile senza sopprimerlo, occorre essere leggeri, rendersi minuti e sperimentare la metamorfosi che conduce dalla superbia all’umiltà. Non ultimo, occorre un devoto rispetto per il passato, che si traduce nello studio e nell’ascolto dei pensatori antichi, lungi da un disinteresse per il tempo presente. Fiducia, rispetto e umiltà: questi dovrebbero essere i tre ingredienti per una sana sapienza e per una comprensione ricca e piena, solida il più possibile.

Una vita da rammendatori

Il principio responsabilità è un testo di Hans Jonas del 1979 che ha lasciato un segno nel campo della filosofia e dell’ecologia. All’interno del quarto capitolo l’autore inserisce un prezioso pensiero molto intimistico, in cui si lascia andare a riflessioni su una dimensione umana circoscritta, e scrive: Quel che conta sono anzitutto gli obiettivi e non gli stati della mia volontà: impegnando la mia volontà diventano scopi per me. Acqua limpida e pura che non vuole essere contaminata dal fango del divorzio breve.

Impegnando la mia volontà è un’espressione quasi ossimorica, perché qui volontà e impegno sembrerebbero essere collegate da un filo sottile e diretto. Il concetto è chiaro: nella vita non si può aspettare che arrivi la voglia di impegnarsi né si può pretendere che la volontà sia sempre così salda da non accasciarsi davanti ad alcun ostacolo; il volere si abbatte facilmente, ma la consapevolezza di aver impiegato delle energie in qualcosa traina il carro. La prospettiva è analoga a quella che Antoine de Saint-Exupéry assume in un altro contesto: È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante. In de Saint-Exupéry come in Jonas la riflessione sfiora l’idea che senza il senso del dovere non si possa concludere nulla. Questo discorso oltrepassa l’ambito lavorativo o di studio, perché il senso del dovere chiama innanzitutto nelle situazioni che coinvolgono le profondità della vita. Questo è assolutamente confortante, perché se si aspettasse l’ardore per fare qualcosa saremmo perduti; in quest’ottica invece già l’agire genera pienezza, dunque più faccio, più cresce in me la voglia di fare. Volenti o nolenti, occorre arrangiarsi con quello di cui si dispone, e benedirlo: si tratta di un sereno e appagante accontentarsi, perché il trucco nella vita è amare ciò che si ha. Ci saranno diversi momenti in cui le alternative tra cui scegliere saranno varie e tutte ugualmente imperfette: a quel punto che cosa si farà? Si dovrà prendere una strada e non tornare indietro, adattare quell’occasione e farla diventare il proprio scopo.

La vita si presenta senza troppi fronzoli, e, soprattutto, senza curarsi delle particolarità di ognuno: sono rare le volte in cui le possibilità si offrono come vestiti perfetti che richiedono soltanto di essere indossati. Le decisioni da prendere sono situazioni grezze e, siccome in qualche misura potrebbero essere prese da chiunque, occorre adattare loro a noi e noi a loro: siamo rammendatori di occasioni in una vita che è un gioco di sartoria. Nulla mi si presenta mai come una scelta che deve solo essere approvata, ma come una nuda situazione che diventa la mia scelta e che si trasforma, appunto, in uno scopo per me. Intraprendere un percorso senza giungere alla sua conclusione lascia una certa amarezza in bocca, un sapore di sconfitta che spesso si potrebbe evitare avendo chiaro in testa che quello è il mio obiettivo. La bellezza e l’essenziale delle cose non sono mai sulla loro superficie: i coralli sono sui fondali dei mari, il cuore è nascosto dalla pelle. E la vita stessa si trova alla fine della strada: non vivo fino a quando non scelgo di spendermi e di conoscere l’ultimo sassolino di quel percorso in cui tanto ho investito e che tanto ho amato.

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