Laurea versus bottega

Alla fine dello scorso mese, il Fatto Quotidiano ha pubblicato un report dal titolo allarmante: in Italia solo il 29% dei giovani tra i venticinque e i trentaquattro anni è laureato. Probabilmente, però, questa affermazione così gravida di inquietudine dice poco o nulla. E per un motivo molto semplice, a cui si può arrivare richiamando alla mente lo status di istruzione di alcuni celebri personaggi.

Giusto per essere attuali, Raffaella Carrà non era laureata. Aveva studiato, e anche molto duramente e precocemente: già a otto anni era andata a Roma per iniziare a studiare danza e poi recitazione. Fabrizio de André aveva una pessima pagella scolastica, ma con le sue canzoni seppe comunicare un mondo. Questi personaggi di spessore non erano semplicemente talentuosi o geniali: avevano capacità potenziali che furono portate all’atto dallo studio e da buoni maestri. È chiaro, quindi, che una laurea di per sé non vuole dire nulla. I nostri nonni avevano studiato, quando avevano le possibilità, giusto tre o cinque anni, ma del buon senso, nella maggior parte dei casi, non sono mai stati privi. Occorre ritornare a nobilitare le arti meccaniche, come venivano chiamate nel Medioevo, perché il sapere artigiano è un sapere che non ha assolutamente nulla da invidiare alla conoscenza scientifica, letteraria o medica. Tra il Quattrocento e il Cinquecento fu proprio la filosofia a rivalutare profondamente il sapere tecnico artigiano: l’idea era che l’essenza della natura e di Dio fosse comprensibile tramite una sinergia di teoria e manualità, di speculazione e osservazione empirica. In questa temperie culturale Niccolò Cusano, filosofo tedesco di primo piano, nel 1450 pubblicò il De idiota, opera dal titolo affatto denigrante, in quanto l’idiota è semplicemente una persona formata non su un sapere libresco, ma su quello artigiano. E l’idiota cusaniano sa intagliare cucchiai che, con uno specchio posto sulla superficie, riflettono la realtà, e quindi lasciano intravedere l’essenza delle cose.

Se si vuole cambiare il mondo in meglio, è essenziale insegnare ai bambini il valore dei mestieri artigiani, e sarebbe incredibilmente utile per la società che ritornasse la possibilità di studiare nella bottega fin dalla tenera età: Michelangelo, Leonardo, Botticelli diventarono grandi artisti (e non geni) perché fin dall’infanzia studiarono nelle botteghe del Verrocchio o di altri personaggi di simile caratura. Forse sarebbe urgente rivalutare la funzione della scuola; forse bisognerebbe decidere se si desidera formare tutti laureati oppure persone che, tramite l’attuazione delle proprie potenzialità, riescano a soddisfare anche le esigenze di una civiltà. Una civiltà che necessita tanto dell’avvocato quanto del cuoco, tanto del professore quanto del bidello, tanto del medico quanto dello spazzino. L’intagliatore di cucchiai non vale né più né meno del filosofo: fa qualcosa di diverso, maneggia la realtà con le dita anziché con i concetti logici. Ma la filosofia e l’artigianato, direbbe Cusano, non sono che «congetture»: prospettive diverse su una medesima realtà, tentativi di approssimazione asintotica a una verità divina che non può mai essere colta integralmente, ma avvicinata nel migliore dei modi se i punti di vista in dialogo sono molteplici e differenti. 

I settantun anni dell’Unione Europea

Il 9 maggio 1950 l’Europa intraprendeva il cammino che avrebbe portato, sette anni più tardi, alla nascita dell’Unione Europea. Esattamente settantun anni fa, l’allora ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, tenne a Parigi un discorso in cui proponeva con forza la riappacificazione tra Francia e Germania, che avrebbero dovuto mettere in comune le proprie risorse di carbone e acciaio: nel 1951 nascerà così la prima comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio (CECA). Nella prospettiva di Schuman, tale strategia avrebbe fatto sì che «una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile».

È superfluo sottolineare la gravissima crisi politica e sociale che l’Unione Europea (come l’intero mondo, del resto) non riesce a superare da anni: mancano decisioni forti e coraggiose rispetto al mar Mediterraneo che sempre più sta diventando un cimitero, rispetto all’emergenza ambientale che non si vuole affrontare per gli enormi interessi economici in gioco, rispetto a politiche lavorative che almeno tentino un’altra direzione rispetto a quella capitalista, che sta ormai dando prova del proprio fallimento. È difficile difendere ancora l’istituzione dell’Unione Europea: la si vorrebbe sociale mentre rivela continuamente la propria natura meramente economica. Qui non si vuole elogiare una realtà politica che andrebbe infatti conosciuta in modo specifico e approfondito; si vuole piuttosto ricordare la grandezza del sogno di quei politici che oltre settant’anni fa trovarono uno stratagemma per evitare una nuova guerra tra i paesi del continente. Diedero prova della propria creatività politica, proprio come ricorda l’apertura della dichiarazione di Schuman: «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». D’altronde quella politica è un’arte, che, in quanto tale, si nutre della capacità immaginativa dei suoi attori.
Ecco che allora la politica tutta e, nello specifico, quella dell’Unione Europea, dovrebbe sapersi anche reinventare per poter rispondere alle domande cogenti che ogni tempo pone con una propria specificità. Come ha brillantemente messo in luce Tomaso Montanari a Piazzapulita poche settimane fa, vi sono temi ed emergenze che restano costantemente fuori dal dibattito politico. Sono i problemi dei sommersi, non dei salvati: dei migranti, dei lavoratori sfruttati, delle donne vittime di violenza e di discriminazione sul lavoro, dei poveri. Sono i dolori di un’enorme porzione di popolo, che però restano ostinatamente esclusi dall’agenda politica nazionale e sovranazionale. Sono vite di cui però non dovrebbero occuparsi soltanto gli intellettuali, ma soprattutto chi esercita l’arte del buon governo.

È tardissimo per recuperare il troppo tempo perduto, che non tornerà mai, ma almeno si può evitare di perderne ancora. È sempre più tardi, ma con azioni coraggiose e concrete forse si può salvare ancora qualcosa: «l’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».

Discriminazioni

Negli ultimi anni si sono fatte sentire le battaglie contro il razzismo, molte persone si sono spese per ribadire una volta per tutte l’uguaglianza tra gli esseri umani e il dovere di rispettare chiunque, indipendentemente dal colore della pelle. Molti, si spera la maggioranza, concordano sul grande valore di queste lotte civili.

Nell’Ethica Spinoza scrisse parole che oggi suonano come la definizione di razzismo, anche se forse non era nell’intenzione del filosofo olandese:

«Se qualcuno è stato affetto da un altro, di una classe o di una nazione diversa dalla sua, da una letizia o da una tristezza accompagnata, come causa, dall’idea di quest’altro sotto il nome generale della classe o della nazione, egli amerà o avrà in odio non solo costui, ma anche tutti quelli della medesima classe o della medesima nazione».

Il concetto è semplice: conosco una manciata di persone che condividono tra loro una certa caratteristica, magari negativa, e allora assumo che quel tratto sia comune all’intero popolo di cui quelle persone sono parte. Detto questo, chi può dirsi fino in fondo non razzista?

Se, infatti, incrociando una persona nera, la mia mente si sofferma sul colore della sua pelle, sto discriminando. Spesso ci si lascia guidare da ragionamenti complessi sulla questione, dimenticandosi però che il razzismo è il prodotto di un meccanismo tanto banale quanto pericoloso: tutto sta nel diverso colore della pelle. Tutto sta in un tratto somatico, un elemento estetico, come potrebbe essere il colore degli occhi o quello dei capelli. Un colore viene associato a una nazionalità, come se poi questa connessione fosse matematica. Addirittura quel colore ci allontana, quando non ci spaventa. Spesso ci si illude di essere fuori da tutto questo: se però si riflette su questo meccanismo mentale, ci si accorge di non essere poi così puri e giusti. 

Il medesimo discorso può essere fatto a proposito dell’omofobia: se mi accorgo che una persona è omosessuale e penso, in modo più o meno esplicito e anche senza volerlo, che quella persona non ha nulla a che fare con me o che, insomma, siamo diversi, sto discriminando. Così sarebbe bene essere onesti e capire che ricorrere a nomignoli per indicare una persona omosessuale è discriminatorio, sebbene si presuma di farlo scherzosamente: dietro il linguaggio comico si cela il più delle volte un pensiero reale.

Qualsiasi razzismo, qualsiasi fobia sociale, in quanto generalizzazioni, non sono etici né realisti. Ogni persona è infatti unica e irripetibile; ogni persona è se stessa e la propria storia, e non quella del gruppo sociale di appartenenza. La lotta alla discriminazione è una lotta che deve essere onesta e profonda, che deve essere portata avanti nell’atteggiamento mentale individuale prima che nelle piazze; è un esercizio continuo, un allenamento costante a cambiare sguardo, a sbattere le palpebre per tornare alla realtà e capire che quello che vedo è solo un colore della pelle, è solo un orientamento sessuale.

Come i miei.

Impegno e concentrazione

A giudicare dai racconti degli insegnanti che lavorano nella scuola primaria e in quella secondaria, pare che i bambini e i ragazzi abbiano enormi difficoltà a concentrarsi e a impegnarsi: in molti casi vengono rilevati indifferenza nei confronti di quello che si deve fare, impazienza, totale o parziale mancanza di voglia. Soprattutto tra gli adolescenti c’è probabilmente il desiderio di fare altro, l’impressione che quello che viene richiesto durante l’ora di grammatica italiana o di matematica sia del tutto inutile. Certo, la scuola italiana avrebbe bisogno di essere riformata sotto molti aspetti, perché il tessuto sociale e giovanile è cambiato e, di conseguenza, anche la pedagogia dovrebbe intraprendere strade parzialmente diverse. Ma questo è un discorso estremamente complesso che richiede solide competenze e grande sensibilità.

Uno spunto di riflessione di ampio respiro può però essere afferrato. La concentrazione e il desiderio di impegnarsi rappresentano due valori davvero utili per la formazione individuale. Lo sono sia nelle situazioni quotidiane, in cui ci si deve ricordare di pagare le bollette e di impostare la sveglia per il mattino (e, perché no, anche di dare un bacio ai propri figli o al proprio marito o moglie che hanno avuto una giornata pesante), sia nelle circostanze lavorative: in qualsiasi mestiere, che si sia chirurghi, professori, attori o meccanici, la concentrazione e la precisione sono fondamentali. E lo sono non solo nelle attività del mestiere che si compiono più volentieri, ma anche in quelle che proprio non piacciono. Così scriveva Etty Hillesum nella pagina di diario datata Mercoledì 12 marzo [1941]: «non devi assolutamente chiederti se ami quella materia o meno, se per te ha un senso o no: fa parte dei tuoi studi, del lavoro che hai scelto, quindi non c’è proprio motivo di pensare se domani o “un giorno” lo svolgerai; devi iniziarlo oggi».

Ogni piccolo lavoro è uno scalino per avanzare nel proprio percorso; non importa quanto basso sia quel gradino, ciò che conta è che venga salito nel migliore dei modi ed esprimendo tutte le proprie possibilità. Come scriveva ancora Hillesum, «l’esercizio di traduzione che svolgerai è più importante dei meravigliosi pensieri su Tolstoj e Napoleone che di recente si sono presentati nella notte». L’azione compiuta con impegno e con fatica ripaga di tutto, perché, in fondo, «lavorare con concentrazione è la cosa più bella che ci sia».

 

Promessa

«Una promessa è sempre eccessiva. Senza questo eccesso essenziale non sarebbe altro che una descrizione o una conoscenza dell’avvenire. Il suo atto avrebbe allora la struttura di una constatazione e non di un atto performativo».

Così scrive Jacques Derrida in Memorie per Paul de Man nel 1988. Sono parole bellissime, vere, e che per questo vanno comprese. Negli anni ’40, nell’ambito della filosofia del linguaggio, John Austin aveva distinto tra enunciati dichiarativi ed enunciati performativi: i primi sono le frasi descrittive, con cui semplicemente si dice ciò che si osserva nella realtà; i secondi sono le frasi che creano un nuovo stato di cose. Ad esempio, dire «mi dispiace» è un atto con cui mi limito a descrivere il mio stato d’animo; invece nel momento stesso in cui proferisco «mi scuso» agisco sulla realtà, mettendo in pratica l’atto stesso dello scusarmi.

Tra gli atti performativi per eccellenza si trova, ovviamente, quello della promessa. Ed è su questo che Derrida si sofferma. Lo si capisce bene se si pensa al rito matrimoniale. Lì la promessa di fedeltà crea una nuova condizione esistenziale e insieme giuridica, e questo è davvero incredibile: una parola è in grado di decidere la realtà tangibile. La promessa richiede un salto di qualità, un salto nel vuoto, un salto di fiducia; implica uno scarto rispetto alla realtà oggettiva e visibile delle cose, già solo per il suo protendersi verso il futuro. In questo senso è eccessiva.
Con la promessa si rende reale ciò che è ancora soltanto possibile, il che va contro qualsiasi legge logica, perché a rigor di logica si può affermare che un possibile è reale solo quando lo è diventato davvero, e non certamente prima. Si pro-mette, si pone una condizione allo svolgersi del futuro, prima che quel futuro arrivi. Durante una promessa, non ci si limita a dire il proprio impegno con riserva: si dice ciò che sarà, a prescindere da ogni cosa. E questo pare divino, proprio per il suo andare contro la logica. Così la promessa è sempre un atto eccessivo. Lì ci si aggrappa a ben poco, non c’è il mancorrente della realtà a cui tenersi; non ci si limita a descrivere uno stato di cose esistente, lo si crea. È in questo senso che Derrida parla di uno scarto, di un eccesso che costituisce la natura stessa della promessa: essa è eccessiva perché chiede di andare oltre, perché contiene un di più che la caratterizza.

La promessa richiede un atto di fiducia, verso l’altro e verso se stessi. In questo suo essere eccessiva, in questa sua richiesta di fede, la promessa è un atto quasi incomprensibile, misterioso, che genera «l’incredibile, e il comico», per citare ancora Derrida. Questi non sono aggettivi dispregiativi, perché il comico e l’incredibile fanno parte della vita e anzi devono essere custoditi.
Le parole di Derrida battono in breccia tutta la mania di controllo di cui è facile preda il piccolo e vile uomo moderno, così attaccato alla realtà da non avere più il coraggio di rischiare, di pronunciare una parola eccessiva. Eppure è proprio qui che sta la bellezza dell’atto performativo, quell’atto che crea, quella parola che cambia la realtà, proprio come insegna il prologo giovanneo: in principio era la parola, ed essa si fece carne. E senza di lei nulla di ciò che esiste è stato fatto.

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