16 Novembre 2019 | Cuneo... Chi?
Tutti conoscono le famose borse con la stampa geografica, famose in tutto il mondo e dal successo strabiliante. Forse, però, non tutti conoscono la storia dell’ideatore, un viaggiatore insaziabile, uno stilista poliedrico, un uomo amante della vita e dell’armonia… e, soprattutto, un cuneese! Di chi sto parlando? Di Alviero Martini naturalmente! Nato e cresciuto a Cuneo, il famoso stilista ha avuto il coraggio di ampliare i propri orizzonti, viaggiare, sperimentare e innovarsi in giro per l’Italia e per il mondo. Così facendo, ha portato la sua creatività ad altissimi livelli e la sua fama è cresciuta: dalla fondazione del marchio 1a Classe alla linea ALV (Andare Lontano Viaggiando). Sicuramente, Alviero Marini non si fermerà qui e continuerà a stupirci con il suo stile inconfondibile.
Ringraziandolo per l’intervista, conosciamo un po’ meglio la sua storia.
1. Cosa rappresenta la moda per lei?
La Moda è un mezzo per arrivare al grande pubblico, in realtà io mi sento meglio ad appartenere allo stile, quello stile che ho creato e quello attuale che resteranno nel tempo. La moda passa, lo stile resta.
2. Quanto conta il talento e quanto il buongusto in quello che fa?
Entrambi hanno un grande valore, tuttavia il buon gusto da solo non è sufficiente a garantire una tenuta se non supportato dal talento, ovvero lo stile.
3. Quale sua creazione è per lei molto significativa? Perché?
Ogni creazione ha un suo significato, e nella mia carriera mi sono incontrato con molteplici proposte, anche lontano dal mio ambito, ma ho trovato stimolante cimentarmi anche con la ceramica, con il rivestimento di aerei privati, con l’illuminazione, etc. etc. Ovviamente la mia base è la pelletteria, in tutti i suoi risvolti, così come l’abbigliamento donna, uomo, bambino e l’arredo casa.
4. Qual è la sua idea di bellezza e armonia?
La mia parola d’ordine è «Armonia», senza la quale non si raggiunge la bellezza. L’armonia è una mia vera fissazione e va, per una donna, dal taglio di capelli alla fisicità: non bisogna portare necessariamente la taglia 40, si può essere armonici anche con altre taglie, con un abito di lunghezza giusta, con un accessorio proporzionato etc… Solo con l’armonia si è eleganti!
5. Entriamo nella sua vita.
- Da bambino sognava già di diventare stilista?
Non sapevo se sarei diventato stilista, ma sapevo che volevo fare qualcosa di unico che non avesse mai fatto nessuno. Fu una promessa che feci a me stesso a 8 anni e a 38 anni trovai l’idea: dunque costanza, perseveranza, coraggio, umiltà e obiettivo sempre in mente.
- Quale è stato il suo percorso formativo che le ha permesso di raggiungere il successo?
Proprio tutte quelle caratteristiche che ho appena descritto, lavorando sodo, anche se a volte non ero neppure pagato, altre volte ben apprezzato, porte sbattute in faccia, altri portoni che si aprivano, umilmente, mettendo da parte tutte le esperienze, e tutte mi sono tornate utili.
- Cosa pensavano i suoi genitori delle sue scelte?
Ovviamente non comprendevano e mi ostacolavano, in particolare mio papà che mi voleva contadino. Mi ci vollero anni a smontare il pensiero del figlio “pelandrone”, ma perseguii i miei sogni (mai abbandonarli) e finalmente compresero, anche se papà non ha mai visto il mio successo perché morì giovane, ma mamma godette a lungo di buona salute, e condivise con me successi e anche viaggi.
- Quale ricordo conserva della sua infanzia, magari a Cuneo?
Mille ricordi, tutti bellissimi, che ho raccolto in un’autobiografia, ormai alla terza edizione. Ricordi di tutto il territorio del mio paesino (Ronchi) che è stato ampiamente la palestra nella quale ho esercitato molte esperienze, e poi le fughe da Cuneo, molto salutari…
- È sposato, fidanzato, single?
Vivo di famiglie internazionali: oltre alla mia famiglia che vive a Cuneo, ho costruito famiglie in tutto il mondo, affetti veri in tutte le lingue.
- Quale frase può essere considerata il suo mantra?
Chi sogna ad occhi aperti conosce molte più cose di chi sogna soltanto ad occhi chiusi.
6. Ci può raccontare in breve i progetti da lei ideati, dal celebre marchio 1a Classe ad ALV?
- Com’è nata l’idea delle carte geografiche? E dei timbri dei passaporti?
La prima è talmente lunga che proprio per dare una spiegazione ho scritto l’autobiografia che si può comprare su tutti i siti e-book, da Amazon a Feltrinelli, etc… ed è talmente esaustiva che costituisce le due righe con le quali potrei essere superficiale nel raccontare una vita di 30 anni di esperimenti. La seconda nasce dalla voglia di esplorare nuovi percorsi creativi, ed essendo il mio codice genetico il viaggio, l’aver conservato i timbri dei miei viaggi per me corrisponde ad una conquista. L’aver dato vita ad un nuova linea ALV – Andare Lontano Viaggiando by Alviero Martini è stato quasi consequenziale.
- Perchè ha lasciato 1a Classe?
Perché non mi piaceva più la strategia che i miei soci avevano in mente di voler far diventare il progetto un prodotto di largo consumo, e dunque ho invertito la rotta, creando un nuovo brand, che sta piacendo molto, seppure i tempi siano cambiati notevolmente.
- Ha altri progetti per il futuro?
Sì, molti… Senza progetti significa non avere sogni, dunque, da buon sognatore, ho cassetti pieni zeppi di idee…
- A proposito del viaggio: cosa significa per lei?
Conquista di nuovi territori, culture, lingue, modi di esprimersi, di confrontarsi con il mondo, non da turista ma da viaggiatore.
- Quali mete ha già raggiunto e quali sogna di raggiungere?
Ho visitato più di 90 paesi, ma mi restano molti luoghi da conquistare… Qualcuno farò in tempo a vederlo; altri, a causa della natura dell’uomo distruttore, ahimé non lo troverò più! Ho perso la Syria, ormai invedibile, l’Amazzonia l’ho mancata tre volte così pure l’Isola di Pasqua, ma sono spesso in sud America, avendo scelto Rio de Janeiro come “buen ritiro”…
- In quale città del mondo si sente davvero “a casa”?
Mi sento a casa ovunque ci sia umanità, non ho timore ad interagire con nessun essere umano del mondo, ad ogni parallelo, latitudine o longitudine. Dall’India, alle Hawaii, dalla Lapponia svedese al Medio Oriente, dall’Estremo Oriente, in Europa come in Africa, a Milano come in Sicilia, e in molti altri bellissimi posti della nostra meravigliosa Italia.
- Lei è un uomo di grandi passioni: moda, arte, grafica, design, viaggi, teatro… Quale metterebbe al primo posto?
Non esiste una graduatoria, tutte le passioni pulsano e ogni giorno la vita ti offre il confronto con una di queste. Poi ci sono quelle di routine, ovvero il lavoro sulla pelletteria, sulla moda, ma senza viaggi mi sentirei prigioniero. Dunque sì, i VIAGGI!
- Sappiamo che il teatro ha significato molto per lei. Recita ancora?
Non recito professionalmente, pur restando fedele ai miei principi, spesso di recita a soggetto, a seconda delle situazioni… Se mi trovo a Buckingham Palace, inevitabilmente dovrò recitare un ruolo, senza snaturare la mia vera identità… Diciamo che si usa la diplomazia.
10. Infine spostiamo l’attenzione su Cuneo.
- Come giudica la città ora che è lontano da anni?
Statica, è sempre stato il suo problema… Chiusa e perbenista. A molti sta bene, a me stava stretta!
- Cuneo offre opportunità ai giovani? E agli artisti?
Essere visionari significa sprovincializzarsi e dunque tutto quello che è “locale” resta locale, a meno che ti chiami Carlo Petrini ed allora esporti il tuo pensiero vincente nel mondo.
- Se la città fosse una grande passerella o un set, come la allestirebbe?
La città di per sé è stupenda, paragonabile per morfologia a Manhattan con le sue parallele e perpendicolari, i due fiumi, il set delle montagne in fondo a corso Nizza, una strepitosa Piazza Galimberti, la chiesa di san Francesco, i portici di via Roma, e molte altre bellezze… Con buona volontà, budget, visione, potrebbe essere un polo turistico di buona attrazione, considerando le montagne intorno, ma in tutta la mia vita ho visto un solo assessore, il compianto Nello Streri, a tentare di svegliare la città… Ormai manco da molti anni e dunque non ne conosco più le dinamiche, ma non vedo salti pindarici. Io faccio sfilate, invitato in tutto il mondo, in tutte città che promuovono il territorio; a Cuneo ho sfilato una volta per grazia ricevuta, così come non sono mai riusciti a realizzare sfilate a Torino. La bellissima Alba si è accaparrata la musica e con il suo festival ogni anno porta gente da tutto il mondo… Cuneo? No, i cuneesi non vogliono essere disturbati! E lasciamoli tranquilli!!!!
24 Giugno 2019 | Cuneo... Chi?
Come si fa a tornare bambini e provare l’emozione di stupirsi con poco? Facile, basta cercare uno dei tanti punti panoramici in giro nelle Langhe o nel cuneese, esplorarlo e imbattersi in una big bench. Queste panchine giganti stanno “invadendo” il Piemonte e non solo e sicuramente ne avrete sentito parlare. Non tutti sapranno però che il loro ideatore non è affatto piemontese, bensì è americano: si chiama Chris Bangle ed è uno dei tanti amanti dei nostri panorami, delle colline mozzafiato delle Langhe e, soprattutto, della fanciullezza. Da designer, ha saputo ricreare un oggetto semplice che si trova ovunque in maniera del tutto originale e in chiave giocosa. Ha voluto ingigantire le panchine, colorarle con toni sgargianti, posizionarle in zone da sogno e renderle capaci di stupire…chi l’avrebbe mai detto che un’idea così bizzarra avrebbe ottenuto un successo tale? Beh, forse perché tutti noi, in fondo, abbiamo un fanciullino dentro che rimane per tutta la vita!
Ecco l’intervista a Chris Bangle, per scoprire i segreti del Big Benches Project.
1. Come è entrato in contatto con il mondo del design?
Il mio primo incarico nel mondo del design è stato alla Opel, dove sono stato chiamato appena finito il mio corso di studi all’Art center College of Design di Pasadena.
2. Per quale motivo ha scelto di cambiare settore lasciando il design automobilistico?
Non ho lasciato il design automobilistico, ho lasciato il mio ruolo di executive di una grande azienda. Mi occupo tutt’ora di car design, solo come consulente e imprenditore indipendente.
3. Di cosa si occupa attualmente? Quando e com’è nata l’idea della Chris Bangle Associates Srl? Ci descriva brevemente di cosa si occupa e quali sono i suoi obiettivi.
Sono Managing Director di Chris Bangle Associates. Qui progettiamo di tutto, dalle bottiglie di Cognac alle automobili passando per installazioni d’arte giganti. Mia moglie Catherine e io abbiamo fondato la Chris Bangle Associates nel 2009, con l’idea di creare uno studio di consulenza, ma anche una residenza per il design e un luogo di continua ricerca e scambio, con il territorio locale e con le realtà internazionali. Non disegnamo solo oggetti per i nostri clienti, facciamo formazione sul loro staff, workshop, management del design, e in questo momento, in particolare ci occupiamo di car design declinandolo in altri ambiti, per esempio nei cartoni animati.
4. Perchè ha scelto di trasferirsi in Italia e perchè proprio nella piccola borgata di Clavesana?
Quando qualcuno mi chiede di dove siamo rispondo sempre che mia moglie è svizzera, io sono americano ma Noi siamo italiani. I primi sette anni del nostro matrimonio sono trascorsi a Torino, dove lavoravo come designer in Fiat, nostro figlio Derek è nato lì, ci siamo forgiati come coppia in Italia. E’ stato naturale, quando abbiamo iniziato a pensare alla mia uscita da BMW e al nostro futuro, cercare casa in Italia, e in Piemonte. Volevamo un posto che fosse in campagna, un luogo con una storia, ma da ristrutturare, in modo da poterlo modulare sulle nostre esigenze e desideri, con un panorama magnifico, un castello in vista, non troppo lontano da un’autostrada e da un aeroporto. Abbiamo cercato per molti anni con agenzie nella zona della Langa meno conosciuta, fra Carrù, Clavesana e dintorni, ma senza mai trovare quello che volevamo poi abbiamo capito: dovevamo metterci in contato con un geometra locale, perché loro sanno sempre tutto: chi vende, chi si trasferisce. Quasi per scherzo ci ha portato alla Borgata, dicendoci: dovete vederla in fretta prima che cada a pezzi. In effetti era in condizioni disperate, ma era esattamente quello che serviva a noi. L’abbiamo presa, facendola diventare la nostra casa e il nostro studio.
5.Concentriamo l’attenzione sul progetto delle panchine giganti e il Big Bench Community Project: da cosa è nata l’idea e come mai secondo lei hanno avuto un tale successo?
L’idea è iniziata da un progetto di una grande panchina per me e mia moglie, infatti sullo schienale è inciso un cuore con le nostre iniziali. Gli elementi di arredamento fuori scala non sono una novità; esistevano già anche arredi giganti a forma di panchina. Io desideravo progettare la mia versione, qualcosa che potesse ricordare la tipica panchina dei parchi pubblici, che abbiamo tutti ben chiara nella nostra mente. Questa idea è piaciuta alla gente. È piaciuto il concetto di sentirsi di nuovo bambini sedendovisi sopra, godersi la vista, avere un posto dove parlare o condividere un momento, e hanno iniziato a volerne costruire una propria. Così è nato il Big Bench Community Project. Volevamo creare un’organizzazione no profit che potesse regolare lo sviluppo del fenomeno, facendo sì che continuasse a rimanere un esempio felice, e allo stesso tempo assicurandoci che nessun fondo pubblico venisse utilizzato per costruire le panchine giganti. Il privato a favore del pubblico: non male come idea, abbiamo pensato.
6. Le panchine giganti nascevano come prerogativa cuneese/piemontese mentre ora se ne stanno costruendo in giro per l’Italia e persino all’estero, perchè questa scelta? Non pensa che noi cuneesi potremmo esserne un po’ gelosi?
Io ho realizzato la mia panchina gigante, insieme al mio vicino Francesco, con uno stile particolare. Quello che ci ha colto di sorpresa è stato come le persone abbiano scoperto tramite la costruzione di nuove panchine il piacere di offrire un’esperienza piacevole agli altri. C’è una vera felicità in questo gesto. I nostri vicini hanno scoperto questa sensazione per primi, ma la bellezza di una gioia così non ha confini.
5 Giugno 2019 | Cuneo... Chi?
“Tutti cercano di essere felici ma si dimenticano di essere contenti”
Abbiamo intervistato Marco Collino, il Prezzemolo cuneese che da anni va alla ricerca delle demure ed ‘na vira, i giocattoli di una volta, cercando di farci riscoprire la gioia e la semplicità di giocare.
- Perchè è importante giocare?
Secondo me senza giocare manca qualcosa nella vita. Tanti puntano ad arrivare primi e a gareggiare…però se non vinci? Perdi, anche per poco, arrivi ultimo ma arrivi…Credo sia sbagliato voler sempre primeggiare e mi chiedo perché l’uomo debba sempre voler arrivare primo. Al contrario, giocando ti diverti e non sconfiggi nessuno! Giocare è la cosa più bella del mondo, non esiste nient’altro paragonabile al gioco che ti fa essere contento e oggi essere contenti è difficile.
- Cosa sono le “demure ed ‘na vira”?
Sono i giocattoli, non i giochi: uno può anche giocare senza niente in mano, come nascondino; i giocattoli invece si costruiscono e poi si adoperano. Una volta solo i ricchi avevano possibilità di comprare dei giocattoli, e perciò tutti gli altri fabbricavano le demure in casa.
- Ci descriva alcune demure.
Ad esempio il topo con il fazzoletto, un giocattolo semplicissimo che si faceva arrotolando il fazzoletto e facendolo uscire fuori come un topo per poi metterlo sulla mano e accarezzarlo con l’altra mano. Le persone rimanevano stupite, pensavano facessi magie…Altre demure sono il salto con la corda, il saltimbanco costruito con le due bacchette e il pupazzo in centro da muovere; il gioco dei noccioli delle pesche tirati in aria; la trottola; le biglie di terra cotta…Poi ci sono giocattoli ancora più semplici, come lo spaccalegna: due pupazzetti sistemati su due asticelle di legno di diversa lunghezza che si facevano muovere, cambiavano inclinazione e battevano la loro ascia sopra un altro pezzo di legno posto al centro. Certo, costruire i giocattoli non è da tutti, anche perché un tempo c’era molta vergogna e gli anziani non volevano dire come giocavano poiché il gioco era considerato una perdita di tempo! Una mentalità sbagliata che piano piano, chiacchierando con gli anziani e entrando in sintonia con loro, si riesce a superare e si viene a conoscenza dei giochi che loro facevano un tempo. Bisogna far in modo che gli anziani si fidino, non si vergognino e capiscano che giocare non vuol dire perdere tempo inutilmente. Secondo me le case di riposo sono delle miniere di idee e bisognerebbe chiamarle case della sapienza, perché è lì che io trovo le idee per i miei giocattoli.
- Quando e come ha iniziato ad interessarsi ai giochi di un tempo?
La storia sarebbe lunghissima ma cerco di farla breve. E’ il 1983 e nella sala della Provincia di Cuneo avevano organizzato una mostra sul giocattolo “povero” e questo titolo non mi era piaciuto: il giocattolo non può essere povero, per semplice che sia, è povero chi non ha il giocattolo! Comunque, in questa mostra avevo notato molta ignoranza riguardo all’origine e all’uso di quei giochi sistemati in vetrina che sembravano “morti”: il giocattolo fermo muore! Da qui mi è venuta l’idea di mettere da parte alcuni oggetti che avevo costruito e di fabbricarne altri per i miei figli con quello che avevo sotto mano. Poi un giorno, in occasione della festa della Madonnina di Madonna delle Grazie, mi hanno chiamato per dare delle idee per cambiare un po’ la festa e io ho proposto di coinvolgere gli anziani e far raccontare a loro come si divertivano da piccoli. L’idea non era piaciuta e la mia proposta rifiutata…Allora, senza dire niente a nessuno, io e altri amici, avevamo escogitato di andare in giro per la festa in sella ad una vecchia bicicletta che aveva una scatola piena di giocattoli di una volta al posto del porta pacchi, per far vedere in giro queste demure. Nonostante le lamentele degli altri organizzatori e dei commercianti a cui toglievamo l’attenzione della gente, abbiamo avuto un gran successo. Cosa facevamo? Giocavamo in piazza e piaceva a tutti! Finita la festa, un’insegnate mi ha chiesto di andare nella sua scuola media per far vedere i giocattoli ai ragazzi e da lì altre insegnanti si sono interessate e mi hanno invogliato a continuare questa attività. Così ho iniziato ad andare nelle case di riposo a chiedere agli anziani di raccontarmi la loro infanzia e i loro passatempi e adesso giro un po’ dappertutto, circa ottanta volte all’anno, e faccio Prezzemolo.
- Perchè il suo nome d’arte Prezzemolo?
Non lo chiamo nome d’arte, è un semplice soprannome: io non mi sento un artista, sono un giocherellone! Quando ho iniziato ad andare in giro, sempre più frequentemente, mia suocera ha cominciato a dire che ero come il prezzemolo! All’inizio non conoscevo il significato, poi ho fatto una ricerca e ho scoperto che si dice “tu sei come il prezzemolo” a colui che si vede da tutte le parti. Prima mi chiamava Prezzemolino perché andavo nelle parrocchie come clown per far divertire ed ero vestito di verde e giallo. Quando ho iniziato a portare in giro i giocattoli come faccio tuttora, ho cambiato abiti e sono diventato il Prezzemolo che conoscete: sempre vestito di velluto e con i sandali tutto l’anno.
Spesso vengo confuso con il personaggio di Gardaland che si chiama così, ma io gli ho chiesto il motivo del suo nome e lui non lo sapeva, dicendo che lo chiamavano così ah, ah, ah! Tra l’altro il prezzemolo come pianta serve in tante occasioni, proprio come me!
- In quanti posti in giro per l’Italia e all’estero ha già portato la sua arte e quale episodio le è rimasto particolarmente nel cuore?
Sono stato in tantissimi posti, non vorrei esagerare ma tenendo il conto sono 2700 uscite in posti diversi in più di trent’anni. Sono stato in Italia: Piemonte, Lombardia, Toscana, Marche, Lazio, Campania…a volte in televisione ma non mi piace molto perchè devi rispettare dei tempi e non ti lasciano spazio per parlare, è assurdo. In tutti i luoghi in cui sono andato mi è rimasto qualcosa, in particolare quell’episodio in cui ho visto un bambino che stava giocando con un videogioco e poi si è fermato davanti a me, ha visto i miei giocattoli e subito ne è rimasto stupito, tanto che ha posato il videogioco e si è messo a guardarmi stupto. Oppure ancora quella volta che ho assistito ad una scena di vera tenerezza: una coppia di anziani mi guardava e dopo un po’ si sono abbracciati e lui ha dato un bacio sulla guancia a lei, continuando a guardarmi giocare.
- A suo parere, quali sono gli ingredienti per la felicità?
Io non la chiamerei felicità…La felicità non esiste: tutti cercano di essere felici ma si dimenticano di essere contenti per cui basta un niente. Quando si dice “essere contenti con niente” non vuol dire non avere niente ma essere contenti della propria situazione. Provate a chiedere a qualcuno se è felice della propria situazione, risponderà di no; se gli chiedi se è contento della sua situazione, allora ti chiederà cosa vuol dire essere contenti perché non si sa più. Secondo me, più che la felicità, che è irraggiungibile, conta essere contenti e accontentarsi.
- Ci parli di lei. Cosa non cambierebbe per nessuna ragione della sua vita?
Tutto. Io ho 71 anni e ripeterei le stesse cose che ho fatto da quando sono nato finora. Scherzosamente ho detto a mia moglie: “Ti cambierei con due da trenta”, poi ho cambiato idea perché “il legno verde non brucia bene”, ah, ah, ah! No, neanche mia moglie cambierei. Anche se ci sono stati dei momenti della mia vita che sono stati difficili, ne ho passate tante, sono contento di quello che sono e che ho.
- Come ha passato la sua infanzia?
Come dicevo ne ho passate tante: vengo da una famiglia con papà e mamma che non andavano d’accordo e perciò io e i miei fratelli abbiamo sempre sofferto. I miei fratelli e sorelle sono cresciuti in collegio senza incontrarsi (ho conosciuto mia sorella quando aveva 21 anni!) ed io sono stato “fortunato” perché mi hanno mandato alla Città dei ragazzi da un don che mi ha fatto da papà, infatti ancora oggi lo stimo molto e ne ho un bel ricordo. Tutto quello che ho passato mi ha aiutato ad imparare a vivere: mi sono trovato in situazioni davvero brutte, senza un soldo, con la famiglia…Ma sono andato avanti, senza navigare nell’oro ma non mi manca niente perché non conta navigare nell’oro ma andare d’accordo in famiglia!
- Se iniziasse di nuovo a studiare, cosa vorrebbe imparare?
Ecco, da piccolo ho fatto prima elementare a Borgo, l’ho continuata a Cuneo dove ci eravamo trasferiti, però mi hanno spostato di classe perché non ero capace di scrivere con penna e calamaio come gli altri, essendo abituato a scrivere ancora con il lapis (la matita). Allora mi hanno ripreso più volte e io mi sono ribellato, dato il mio carattere selvaggio, così mi hanno spostato di scuola mettendomi nelle differenziali (dove andavano i “foi” che non imparavano) e quella è stata la mia fortuna. Infatti ho incontrato un maestro che mi ha iscritto alle scuole professionali una volta finita la quinta elementare dove studiavo disegno tecnico e meccanica mentre lavoravo in fabbrica. Da lì sono andato alle scuole serali per prendermi il diploma di scuola media.
Certo, dovessi studiare ancora adesso, mi piacerebbe fare o il perito meccanico e poi ingegneria o architettura.
- Attraverso la sua attività alla scoperta degli antichi passatempi, tocca alcuni temi molto attuali come il tema del riciclaggio. Cosa ne pensa? Secondo lei è importante riciclare e limitare lo spreco?
Sicuramente! Però io faccio ancora una distinzione: riciclaggio vuol dire separare quello che butto via e poi rielaborarlo per altro uso; a me piace di più dire “riadoperaggio” che è una parola che non c’è sul vocabolario ma che significa imparare a riadoperare le cose al posto di gettarle via e fare meno immondizia. Tra l’altro collaboro con la compagnia Erica di Alba che si occupa di riciclaggio e sono stato già in varie scuole per parlarne. Io divento matto quando vedo che la gente non solo butta via delle cose che possono ancora servire, ma le getta nei campi o dall’auto e allora mi sono costruito dei cartelli con scritto “pulito è più bello”, ma purtroppo me li strappano…Comunque non mi vergogno nel dire che recupero degli oggetti trovati nelle immondizie, anzi, li adopero e riutilizzo come voglio: perché devo andare a comprare del materiale quando le cose più belle vengono fuori dagli avanzi e dal recupero?
- Un altro tema è la scuola. Crede che oggi la scuola insegni ai ragazzi sia la teoria che la pratica?
Discorso dolente…Vado sovente nelle scuole, dalla materna all’Università. Sono stato al Politecnico per delle lezioni di workshop in cui mostravo i miei giochi pur avendo solo la terza media serale in tasca! In queste lezioni ho capito che i ragazzi non avevano la minima idea di come si costruissero delle semplici cose e di dove recuperare il materiale. Forse le scuole insegnano troppa teoria ma poi i ragazzi non sanno più cavarsela perché bisogna usare anche le mani oltre che la testa.
- Infine il tema della tecnologia. Secondo lei semplifica la nostra vita?
Bisogna vedere cosa si intende con tecnologia. Essendo stato meccanico, considero come tecnologia i macchinari che adopero per costruire; però se con tecnologia intendi i computer o i cellulari allora credo che sia pericoloso. Come uomo sono debole e so che mi lascerei attirare, perciò preferisco starne alla larga (non ho il cellulare, ho solo il computer che uso solo per la posta e per Pinterest). Dipende tutto dall’obiettivo della tecnologia e dall’uso che se ne fa.
- A proposito di Cuneo. Come descriverebbe la città?
Anche se abito a Busca da ventidue anni, Cuneo è la mia città e mi piace come città soprattutto per come è disposta perché è facile da girare: ha solo una strada inclinata, via Slivio Pellico, mentre tutto il resto è dritto e rette. Quello che mi piaceva erano i sotterranei e i passaggi sotto la città che dovrebbero essere riscoperti per il valore storico e pratico. Comunque, Cuneo per me è la città più bella del mondo: facile da girare, abbastanza tranquilla, pulita e vivibile. Sono contento di come hanno sistemato via Roma che valorizza ancora di più Cuneo.
- Da buon piemontese, ci può dire un proverbio in dialetto a cui tiene particolarmente?
“Vive e lasa vive!”, cioè “Vivi e lascia vivere”. Come piemontesi siamo un po’ falsi e cortesi ma questo proverbio è bello per tutti e lo ricordo detto da mia madre. Invita a vivere, interessarsi alle cose proprie senza pregiudizi e lasciare agli altri la possibilità di fare esperienza di vita senza mettere il naso.
9 Aprile 2019 | Cuneo... Chi?
Riccardo Forte è un attore cuneese che ha voluto raccontarsi e farsi conoscere non soltanto come il suo famosissimo personaggio Vermio Malgozzo, il cattivo della Melevisione, ma anche come attore, conduttore radiofonico di cinema, teatro e televisione. Nel rispondere alle nostre brevi domande è stato chiaro ed esauriente e lo ringraziamo per questa interessante chiacchierata.
Che emozione incontrare uno dei personaggi che hanno abitato il mondo fiabesco della nostra infanzia! Ci è sembrato di tornare indietro nel tempo, all’epoca delle merende in compagnia della Melevisione, quando il mondo intero sembrava il Fantabosco e i nostri occhi di bambini erano puri e innocenti… Scopriamo insieme chi è Vermio, cioè chi è Riccardo Forte! Ah, ah, ah!
- Come le è venuto in mente di iniziare la sua carriera da attore?
Sono stato folgorato dal teatro mentre facevo le scuole superiori. Io sono un geometra mancato perché ho sbagliato scuola ma un giorno, mentre facevo “le vasche” sotto i portici con un amico, quest’ultimo mi dice di un corso di dizione che facevano al liceo Bruni (attuale conservatorio) e così mi sono iscritto. All’epoca ero anche folgorato dal rock: avevo un gruppo e suonavo la chitarra. Poi anche passando per il rock, soprattutto il glam rock che è molto teatrale, mi sono avvicinato al teatro e ho scoperto che la dizione mi interessava molto. Così ho detto: voglio fare questo lavoro. Intanto ho preso il diploma e mi sono iscritto al centro di formazione teatrale di Teatro Nuovo, l’attuale Liceo musicale e coreutico di Germana Erba (figlia di uno dei più grandi produttori teatrali italiani: Erba, quello che girava con Gassman montando delle strutture per portare il teatro come se fosse un circo, un teatro itinerante). Dopo quattro mesi di scuola abbiamo fatto un saggio sui futuristi russi e tra il pubblico c’era Gipo Farassino, uno chansonier molto bravo che ha favorito il mio debutto a Torino. Da quel momento ho iniziato a lavorare con la Rai, con i radio drammi che oggi sono pressoché estinti. In seguito, tramite una mia amica, sono venuto a sapere che Gassman cercava allievi per la sua bottega, così ho provato a scrivere senza pretese, anche perchè nel frattempo lavoravo di nuovo nella compagnia di Farassino. Un giorno mi è arrivato un telegramma che diceva che Gassman sarebbe passato a Brescia per fare dei provini per la sua bottega, allora ho preso il treno con altre amiche e ho fatto il provino che è andato molto bene, tanto da mandarmi a Firenze per altri provini assieme ai 44 finalisti. Intanto però avevo il contratto con la compagnia di Farassino ma non volevo perdermi questa opportunità e mi sono fatto sostituire. Ecco, tutto è iniziato così…
- Meglio il teatro, il cinema o la tv?
Una bella domanda! Sono tre codici diversi, tre modi di recitare diversi. Il teatro è più “espressionista” a livello tecnico: se io ho una platea davanti i miei gesti devono essere amplificati, è molto più fisico. Invece, la recitazione cinematografica è “impressionista”, cioè si lavora per sottrazione, è molto importante la concentrazione: se sei in primo piano ogni tuo gesto diventa enorme, mentre a teatro nemmeno si vede. Comunque, secondo me, il naturale luogo di un attore è il teatro, io mi diverto di più facendo teatro. Per quanto riguarda la tv ho recitato per la Melevisione e devo dire che mi sono divertito molto e ho riscontrato come la recitazione di questo programma fosse molto teatrale, anche perché andavamo in tour a stretto contatto con il pubblico. Con gli attori della Melevisione ho instaurato un buon rapporto e siamo ancora amici, infatti recentemente ho prodotto una puntata zero con alcuni di loro. Tornando alla domanda, diciamo che il cinema mi piace di più guardarlo che farlo; il teatro mi piace di più farlo che guardarlo.
3. Sappiamo del suo ruolo nella Melevisione come Vermio Malgozzo. Ci descriva il suo personaggio.
Quando io ho fatto il provino, mi avevano mandato la scheda del carattere del personaggio con scritto che Vermio sarebbe dovuto essere il primo vero cattivo della Melevisione. Infatti, il primo Vermio era molto inquietante con delle cicatrici stile signor degli anelli e spaventò molto i bambini tanto che lo tolsero. Poi il produttore mi contattò per il tour ed io provai a fare un cattivo più buffo ed è piaciuto. Così Vermio è diventato un cattivo più edulcorato, all’acqua di rose, buffo. È anche un poveraccio a cui non ne va bene una, sempre senza una lira e molto amato dai bambini. Oggi la Melevisione è ancora molto amata e l’affetto non è ancora passato da parte del pubblico e ne sono felice.
4. Quanto del vero Riccardo c’è nel personaggio di Vermio?
Credo che nell’approccio al personaggio non si possa prescindere dall’attore: io posso ingrassare, dimagrire, cambiare per fare un ruolo ma poi alla fine è la mia anima che entra nel personaggio. Quindi qualcosa c’è di Vermio in me, non nel senso che sono un filibustiere che boicotta il lavoro altrui, però qualcosa c’è… È tanto simpatico Vermio, mi fa tenerezza!
5. Com’è nata l’idea di collaborare con la Melevisione e per la Rai?
Mi hanno chiamato per interpretare questo ruolo che secondo loro era adatto a me, ho fatto il provino e alla fine il regista ha scelto me. Stiamo parlando del 2003 o 2004.
6. Quando la vedevano i bambini per strada, la riconoscevano?
Sì, spesso. Adesso è un po’ che non mi succede ma in passato mi è successo sovente.
7. E’ più facile recitare per un pubblico di bambini o per adulti? Perchè?
Penso sia più facile per un pubblico di bambini: il bambino ha meno spirito critico e ci crede di più, non fa confronti. Ad esempio, per i bambini io ero davvero Vermio e loro mi vedevano così anche dopo lo spettacolo (eravamo obbligati a tenerci i vestiti di scena anche dopo lo spettacolo)… Mi accorgevo che i bambini mi vedevano in carne ed ossa e alcuni erano smarriti o impauriti, altri ridevano: una cosa è il virtuale, dietro allo schermo, un’altra cosa è il contatto fisico che coinvolge molto di più emotivamente.
8. Nella sua carriera quali attori famosi ha conosciuto?
Parecchi! In primis Vittorio Gassman, Giulio Brogi, Pamela Villoresi, Albertazzi, Monica Vitti, Ugo Tognazzi… Non ho lavorato con tutti, ma durante l’Otello di Gassman spesso si andava a cena insieme. In teatro ho lavorato con forse il più grande attore vivente per me, Roberto Herlitzca, con cui ho recitato il Faustus di Marlowe.
9. E’ appassionato di fiction italiane?
No, non riesco a vedere i programmi a puntate anche se fatte bene perché mi piacciono le cose che hanno un capo e una coda e l’episodio mi annoia. Non riesco a vedere nemmeno le fiction che ho fatto: “Carabinieri”, “Cesaroni”, “Centovetrine”, “Don Matteo”… A me la fiction italiana non piace tanto e trovo che abbia una qualità un po’ inferiore rispetto al cinema. Pensate che non ho nemmeno visto le puntate in cui recitavo io!
10. Parliamo di lei. Da piccolo sognava già di fare l’attore?
No, non sognavo di fare l’attore ma ricordo che mi piaceva stare al centro dell’attenzione ed esibirmi, ad esempio mi esibivo in cortile facendo l’imitazione di Celentano per gli amici. Quale mestiere sognavo? Non me lo ricordo ma di sicuro non avevo il mito del calciatore!
- Quale scuola ha frequentato?
Dopo il diploma da Geometra, ho frequentato il Centro di formazione teatrale per quattro mesi al Teatro Nuovo di Torino e per un anno la bottega di Vittorio Gassman.
- Rifarebbe le scelte che ha fatto?
Sì, magari con meno romanticismo e più furbizia.
- Oltre alla recitazione, a cos’altro s’interessa?
Mi piace il cinema: a casa ho un impianto con video proiettore e audio stile cinema; poi faccio un po’ di ginnastica; mi piace leggere…
A Cuneo ma lavoro soprattutto a Torino e a Milano.
- A quale personaggio di teatro o cinema somiglia di più o in chi s’identifica meglio?
Sicuramente Macbeth. Come lui, vorrei ma non posso: non sono così cattivo da andare fino in fondo… Come dice Lady Macbeth: “Tu sai quello che vuoi ma non sei pronto a fare tutto ciò per ottenere ciò che vuoi”, quindi a calpestare gli altri etc.
11. Parliamo ancora di recitazione. Quali sono le caratteristiche per un buon attore?
Mmm… A me piacciono gli attori che riescono a far capire quello che pensano , vale a dire che un attore è bravo quando non si vede che sta recitando, quando sembra che dica quello che pensa veramente, non quello che ha studiato a memoria. In quel momento della recitazione deve esserci il pensiero: mi hanno insegnato che se non c’è il pensiero non viene fuori niente, perché non trasferisci qualcosa agli altri. Gassman mi ha insegnato che bisogna conoscere i metodi del teatro e le tecniche del mestiere; poi però, imparata l’arte, devi metterla da parte, dimenticarla e rendere personale ciò che fai. È come nella musica: un musicista può eseguire Chopin, però probabilmente Pollini lo farà meglio perché ci mette qualcosa di suo in più. Personalmente ho sempre cercato la via meno facile.
- Attori si nasce o si diventa?
Come dice Edmond King: “Con la volontà non si può che ottenere la luna”, ma in realtà si nasce attori come si nasce principi, quindi un po’ devi avere estro e talento di base, come in tutto.
- Cosa si prova ad interpretare un ruolo e come ci si immedesima?
Innanzitutto io leggo il copione, lo imparo, conosco il personaggio insieme al regista che ha le idee chiare su ciò che vuole e con lui percorro il cammino che porterà all’interpretazione finale. Per esempio in teatro si inizia con le prove a tavolino: si legge il copione con tutta la compagnia attorno ad un tavolo, ognuno legge la sua parte senza recitare e poi il regista inizia a delineare l’idea che ha in testa (il concept dello spettacolo). Successivamente si prova e riprova fino a realizzare lo spettacolo. Per quanto mi riguarda, il grosso del lavoro lo faccio da solo studiando e recitando per avere la mente pronta a capire ciò che sto recitando senza ripetere a memoria.
12. Riguardo alla tv per bambini e ragazzi cosa trova di diverso tra i programmi di una volta, come la Melevisione, e quelli di oggi?
Gli autori di Melevisione, con cui ho recentemente collaborato per un film Disney per ragazzi (un’adattazione della Mummia, spero mi prendano per un ruolo), hanno inventato un format unico. La caratteristica incredibile della Melevisione è che non esiste un format simile non solo in Europa, ma in tutto il mondo, tanto è vero che è conosciuta anche a Los Angeles! Pazzesco, no? Sinceramente non conosco i programmi di oggi per cui mi è difficile fare un confronto. So solo che il successo che ha avuto Melevisione non lo ha avuto nessuno.
13. La tv spesso viene considerata una baby-sitter , cosa ne pensa?
Che brutto e triste! Troppo comodo. La cosa che ci dicevano di più i genitori è che potevano stare tranquilli perché i loro figli stavano davanti ad un programma che poteva solo insegnare loro del bene senza risvolti negativi. Al contrario, esistono programmi che fanno ai bambini un lavaggio del cervello con la pubblicità ed è insopportabile.
14. Spostiamo l’attenzione su Cuneo. In tutta sincerità, cosa le piace e cosa no della città?
Cuneo è come tutte le cittadine di provincia. Diciamo che io ho debuttato a Torino e ho vissuto molto lì, tornando per venire a trovare i miei genitori ma non resistevo più di una settimana perché non c’era più niente di me: Torino era la mia città. Poi sono stato a Firenze per un anno circa. Insomma, mi sono allontanato da Cuneo. Poi, crescendo, ci sono tornato a vivere e oggi mi va bene stare a Cuneo e ne vedo i pro: è rassicurante, si è abbellita e mi piace di nuovo abitare qui. Inoltre da alcuni anni lavoro qui a Cuneo alla fondazione Casa Delfino presentando il corso di dizione e di recitazione. Infine i difetti di Cuneo…Come tutte le cittadine di provincia è un po’ ripiegata su sé stessa, un po’ morta a volte.
- Cuneo offre opportunità? Offre un futuro?
Nel mio campo di sicuro no: non puoi fare il mio mestiere a Cuneo perché non c’è un teatro stabile ma solo compagnie amatoriali che sono cristallizzate nei loro errori non avendo avuto un confronto ampio con il resto del mondo del teatro e dello spettacolo.
In Cuneo sì, ho recitato a volte al Toselli ma niente di più. Beh, siamo venuti con la Melevisione al palazzetto di Borgo S. Dalmazzo.
- Cuneo diventerà mai come il Fantabosco della Melevisione?
Ah, ah, ah! No, non credo che il mondo diventerà mai come il Fantabosco che è un “non-luogo” dove non esiste il bene o il male, dove tutto è perdonabile…
15 Marzo 2019 | Cuneo... Chi?
Abracadabra? Sim Sala Bim? Bibbidi Bobbidi Bu? Macché! A noi cuneesi non servono queste formule magiche: noi abbiamo il mago Trabük con la sua magia in via di estinzione! Ebbene sì, i maghi, quelli veri, sono sempre di meno ma esistono ancora e tra i meandri della città di Dronero, ci si imbatte nella scuola di magia di Trabük che ci fa catapultare in un’altra dimensione. Alberto Del Negro, in arte Trabük, è riuscito a farsi trasportare dall’arte della magia e dal divertimento che ne segue, tanto che ora ammette di “non riuscire a smettere”. Nessuna bacchetta magica in mano, nessun cappello a punta e nessuna tunica a stelle, bensì un basco, una t-shirt e un sorriso luminoso: questo è il mago Trabük. Allora, ecco a voi la sua intervista per conoscere più da vicino un mago di oggi! Nessuna paura, non vi farà scomparire con un incantesimo!
Aggiornamento: questa intervista è stata scritta nell’estate 2018. Recentemente, Alberto Del Negro, ha deciso di ritirarsi dalla scena nonostante la magia resti il suo hobby principale. Lo ha annunciato in un post del 6 gennaio. Noi proponiamo questa intervista anche per ringraziarlo e salutarlo calorosamente.
1. Come e quando hai conosciuto il mondo della magia?
Mi è venuto a trovare a casa! Mi sono trovato un libro nella buca delle lettere in una busta senza il mittente… È stata la cosa più magica della mia vita: magia vera! Probabilmente questo libro me lo aveva regalato qualche casa editrice o qualche negozio online ma non potrò mai saperlo perché si è dimenticata di mettere il mittente! Fatto sta che il titolo del libro “Il grande libro dei maghi” di Olaf Benzinger mi ha incuriosito e anche se non mi piacevano i maghi (e non mi piacciono tuttora), l’ho letto tutto. In pratica racconta la storia della magia, dagli Egizi in avanti e l’ho trovato curioso. Così, esattamente dieci anni fa nel 2008, ho iniziato a fare dei giochetti e poi ho continuato a “torturare” amici e parenti sempre per divertimento.
2. Cosa ti piace di quest’arte?
Mi piace il pubblico. Certo, mi piace la magia e lo stupore che ne deriva, però ho scoperto qualcosa che mi affascinava di più dell’arte magica, cioè la comunicazione con il pubblico. La magia è un ingrediente, uno strumento con cui metterti davanti alla gente e farli divertire.
3. Qual è la prima magia, il primo trucco che hai imparato?
Difficile ricordarselo! Il primo trucco che ho studiato veramente è il gioco di bussolotti che è il mio preferito: è il classico gioco dei tre bicchieri o delle tre campanelle in cui si fa scomparire una pallina. Io ne faccio una versione magica dove le palline scompaiono, appaiono, si mescolano, cambiano di colore e alla fine c’è una produzione di oggetti. Mi sono sbizzarrito in questo gioco: ne ho fatte ben tre o quattro versioni che ho portato in giro nei concorsi. Tuttora ne faccio una versione stupida che chiamo “pisellaboli” e che è molto simpatica e piace al pubblico.
4. Come si impara un trucco?
Ci sono mille strumenti e modi per imparare: puoi comprare un libro di magia (esistono dal 1400, data del primo libro di magia); dagli anni ’50-’60 si sono sviluppati i circoli magici che sono dei gruppi di appassionati che si incontrano e condividono. Adesso la magia si può imparare su Youtube.
E se fallisce?
Chissenefrega! Ah, ah, ah! Mica sono un mago vero, faccio solo finta! Anche se di solito non fallisce perché c’è un bell’esercizio dietro e non improvvisi. Comunque, non si tratta di fallire il gioco: l’obiettivo non è ingannare, ma è meravigliare; sono due cose diverse poiché l’inganno deve essere scontato e se qualcuno ti scopre è il meno! L’importante è che ci sia meraviglia nello spettatore e la devi creare, l’inganno è solo la base.
5. Cosa vuol dire essere mago al giorno d’oggi?
Beh, un mago o un prestigiatore nel passato aveva un’immagine molto più forte e aveva più credito, esattamente come i sacerdoti per esempio: ricordo con quali occhi vedevo il sacerdote del paese quando ero bambino! Oggi i giovani non hanno più quell’ammirazione mista a quel timore ma sono quasi amici. Credo che rispetto alla magia, molti prestigiatori abbiano perso il loro fascino mettendosi in mostra pur non essendo in grado di fare magia vera. Dunque, per divertire il pubblico svelavano trucchi oppure rendevano la magia “clownesca” nel senso peggiore del termine, a volte anche sciatta. Oggi il mago viene visto come un maghetto, un intrattenitore da bimbi, mentre in realtà ci sono tanti prestigiatori che non sono così e che rientrano in una delle tante branche dei maghi. Purtroppo, oggi, quando la gente pensa ad un mago, pensa subito ad un mago per bambini, invece un mago può essere per adulti e anche riuscire a far pensare ed emozionare.
6. Perchè affermi che il tuo è un genere di mago “in via d’estinzione”?
È così: il mio genere di magia è veramente in via d’estinzione. Questo perché il mio genere è quello presente nel Medioevo nelle piazze, ad esempio come si vede raffigurato nei tanti quadri di Bosch, uno dei più famosi nel mondo dell’illusionismo. Si trattava di un prestigiatore che girovagava nei paesi e con pochi oggetti intratteneva il pubblico attraverso una forma di spettacolo che oggi è in via d’estinzione perché si tende a dare un tocco di tecnologia e a creare una magia che sfrutta la rete ma che di per sé non fa spettacolo. Quindi io conosco quasi tutti i maghi del mondo come me dato che sono pochi, infatti in Europa ci sono solo tre festival di magia di strada e dunque siamo sempre i soliti alla fine! Perché? Beh, forse perché è difficile: il mio genere di magia è uno dei generi più difficili poiché con poco devi fare tanto!
7. Da dove arriva il nome Trabük?
In realtà io ho rubato il nome a un signore che non lo usava non essendoci più e che ho conosciuto da bambino. Era un personaggio fantastico all’epoca: girava con un cavallo e un carretto allestito per vendere generi alimentari e altro di borgo in borgo. Partiva da Caraglio (tutti gli anziani e i meno giovani di Caraglio se lo ricordano) e ogni giorno compiva il suo giro e il sabato mattina passava davanti casa mia. Io lo aspettavo per comprare la polvere di cioccolato, per vedere le gabbie dei conigli… Quando ho iniziato a fare il prestigiatore e partecipare alle gare in giro dovevo trovarmi un nome d’arte meno serioso, così ho rivangato nel mio passato e mi è venuto in mente questo nome. Poi ho scoperto diverse cose sul nome Trabük e la più simpatica è che la radice di Trabuk è “inganno”, infatti si usa nel termine “trabocchetto” oppure nei trabucchi che sono degli strumenti per pescare basati sull’inganno. In più l’ho trovato anche su un dizionario d’epoca con tutti i vari significati basati sulla radice inganno (perfetto per me!). Inoltre, trabuc in Piemonte era un’unità di misura e non a caso quel signore a cui ho preso il nome si chiamava così: i trabuc erano dei personaggi tipo Forrest Gump, un po’ con la testa fra le nuvole e difficili da inquadrare. Ma perché si usava dire trabuc? Perché il trabuc era un’unità di misura che, quando hanno iniziato a comunicare tra i vari paesi, hanno capito che era variabile, da una parte valeva un po’ di più e dall’altra un po’ meno. Dopo che è stata soppiantata dal metro hanno continuato ad usarla per indicare un qualcosa di approssimativo: “dare una trabucà” ancora oggi si dice per dare una misura alla buona, all’incirca. Simpatico, no? Non me lo sarei aspettato quando l’ho scelto come logo (se metti due puntini sulla “u” viene uno smile!).
8. La magia ha bisogno di regole?
Domanda impegnativa! Non saprei… La magia avrebbe bisogno di regole ma in realtà non ne ha perché essendo una forma d’arte, ognuno fa quello che gli pare, come gli pare. Se invece intendi dire regole come principi magici, allora non vale quello che ho detto: ora i principi magici non sono più esplorabili, sono già stati esplorati tutti e ogni effetto si basa su quei principi che sono undici.
9. Spostiamoci sul personale. Qual è il tuo vero nome? Alberto Delnegro.
– Età? 43, quasi 44
– Hai sempre fatto il mago o hai svolto altri lavori? Ho sempre fatto tutt’altro! Solo adesso faccio il mago per professione da quattro o cinque anni. Prima potavo alberi di grandi dimensioni.
– Come sognavi la tua vita da bambino? Non so, non mi ricordo! Non avevo un sogno, non ho mai detto cosa volessi fare da grande… In realtà ero molto affascinato da un personaggio di Paschera San Carlo che chiamavano “l’eremita” e che non ho mai visto. Questo tipo se ne stava in una casetta vicino ad una chiesa nei boschi, era molto misterioso e io ne ero affascinato, tanto che dentro di me c’era il desiderio di vivere così appartato.
– Sei sposato? Hai figli? Giacche! Sono sposato da 22 anni e ho due figli: uno di 16 anni e una di 18 ma nessuno dei due, fortunatamente, è interessato a diventare mago!
– Sei credente? Se sì, come concili la religione con la magia? No, non sono credente ma non perché snobbi la religione, tutt’altro: sono sempre stato affascinato, ho un’educazione cristiana cattolica, mi piace e rispetto la religione… Però ho riflettuto troppo sulla spiritualità e la mia conclusione è che noi non abbiamo le capacità di concludere una ricerca spirituale vera, non siamo fatti per conoscere queste cose, per cui vedo tutte le religioni un po’ come delle favolette. Si dice essere agnostici: di fronte al mistero mi arrendo, non lo so ed è impossibile sapere.
– Ci racconti qualche curiosità su di te? Mmm…aiutami… Beh, prima di fare il mago mi sono espresso in vari sport estremi tra cui il monociclo di montagna dove in pratica usi un monociclo come quello dei clown ma con le ruote delle mountain bike per pedalarci sopra in montagna. Bello sport, bizzarro, anche se ti rovina la salute e ho dovuto smettere di farlo seriamente.
– Che progetti hai per il futuro? In realtà sono dibattuto tra lo smettere e il continuare. Il motivo per cui sono diventato prestigiatore è per spirito di ricerca anche personale; adesso non ce l’ho più e mi sto divertendo e basta… Perciò mi dico: dovrò continuare o no? Forse dovrei cercare di smettere: questo è il mio obiettivo ma non so se riesco ah, ah, ah! Per quanto riguarda altri progetti, mi piacerebbe organizzare un festival di artisti di strada a Dronero, ma è solo un’idea e prima o poi magari lo farò! Inoltre, ho messo in piedi a Dronero una scuola di magia, Blink, e sta andando molto bene, diventando il riferimento della provincia Granda per la magia. Si trova nei sotterranei di una struttura di Dronero dove abbiamo creato un teatrino di cinquanta posti e lì ci troviamo per gli spettacoli. Facciamo i corsi ogni anno per ragazzi dai 14 anni in su e adulti e proponiamo spettacoli per tutti i tipi di pubblico, specificandolo prima.
10. Oggi, con Internet e la tecnologia, è ancora possibile stupire i giovani o predominano il disincanto e la sfiducia nei confronti del mondo della magia?
Ho avuto una grandissima soddisfazione pochi mesi fa quando ho partecipato come ospite ad un evento di youtuber appassionati a Varese, dove si sono esibiti tanti ragazzi ma…brutalmente li ho fatti divertire più io! Questo perché i giovani come loro non sono abituati a fare spettacolo vero, a trovarsi in scena con cinquecento persone davanti, cosa che per me è normale e per loro no. Quindi sì, è difficile ma è super possibile stupire i giovani.
11. Credi che esista un’età in cui bisogna smettere di volare con la fantasia per diventare responsabili e maturi? Perché?
Ognuno ha la sua strada. Per esempio, io ho avuto un percorso un po’ al contrario: di solito il bighellonaggio si fa nella fase giovane, invece io sto bighellonando adesso! Da giovane mi sono “fatto un mazzo tanto”, mi sono costruito una casa e messo da parte i risparmi. Sono arrivato a trent’anni e non sapevo più cosa fare e dunque ho iniziato a divertirmi (non nel senso che sto vivendo di rendita), avendo molto più tempo libero e più spazio per lo svago. È come la favola della formica e della cicala: se uno se ne frega da giovane senza concludere niente, poi si ritrova a doversi rimboccare le maniche dopo per ottenere qualcosa. Invece io preferisco giocare d’anticipo. Faccio un esempio che mi hanno insegnato alla scuola materna: quando c’era la portata doppia alla mensa, come la bistecca con gli spinaci, e a me non piaceva la verdura, la maestra o la bidella mi dicevano di mangiare prima la cosa che non mi piaceva così dopo mi gustavo l’altra. La mia vita è stata così: mi sono impegnato faticando da giovane e adesso è tutto più in discesa!
12. Cosa vuol dire per te crescere, maturare, insomma diventare grandi?
Che domande!!! È un casino rispondere… Fammi ragionare… Forse il fatto di non dipendere da qualcuno vuol dire crescere. Magari dipende molto dal carattere: ci sono persone che tendono ad essere più materne o paterne nei confronti degli altri, e persone che al contrario sono più egoiste… Comunque gli “eterni Peter Pan” non mi piacciono perché credo che uno prima debba prendersi le responsabilità e crearsi le basi e dopo giocare. Ad esempio, prima viene la famiglia e dopo il resto. Crescere vuol dire quello, vuol dire non dover rompere le scatole a nessuno!
– E invecchiare? Invecchiare è un bel casino… Io giro le case di riposo con la scuola di magia e posso dire che si inizia ad invecchiare dai vent’anni in avanti fisicamente. Il vero vecchio che trovo nelle case di riposo è un anziano che si prepara ad andarsene e non c’è nulla da fare. La mia domanda è: quando diventi di una certa età, hai la maturità per affrontare la morte? No, mai, nel momento in cui lasci questo mondo, ti disperi perché non sai cosa c’è oltre e vai in panico. Però non ho paura di invecchiare: ci sono dei vecchi belli! Piuttosto la mia paura è quella di invecchiare male, senza più nessun interesse e nessuna voglia. Viceversa, se invecchi con molti interessi e con curiosità, è un bel invecchiare nonostante il fisico se ne vada… Ma io mi tengo in forma, eh!!! Ah, ah, ah!
13. Adesso parliamo di Cuneo.
– Cuneo è una città magica? Allora, le città sono tutte magiche nella parte storica. Secondo me la città magica per eccellenza è Dronero: è meravigliosa ed è fiabesca, tra i suoi scorci, le sue piazzette, i suoi panorami che sono magia pura! Per questo che vorrei fare un festival lì. Cuneo anche ha qualcosa di magico e misterioso nella parte storica.
– Quali sono gli aspetti che ami e che odi della città? La parte vecchia la amo e la parte nuova la odio.
– Se avessi la bacchetta magica con te, cosa cambieresti? Cosa cambierei di Cuneo…beh, io non la conosco veramente bene ed è difficile dirlo. Forse metterei a posto il faro della stazione che è storto! Ah, ah, ah! Cuneo è una bella città, molto ricca e ha una piazza, Piazza Galimberti, che è veramente stupenda, galattica, che dà l’idea di spazio.
– I cuneesi credono nella magia o sono un po’ scettici? Premetto che non ho mai fatto spettacoli a Cuneo: ho girato diciotto Paesi ma mai qui…Mettiamola così: se ti devo dire se i piemontesi si divertono facilmente, allora no, faticano a divertirsi molto più di altri come i toscani, i meridionali o anche quelli dell’est. Trovo che i piemontesi non siano un gran bel pubblico, non perché non mi piacciano, semplicemente poverini loro, sono oppressi dalle preoccupazioni, dalla paura di lasciarsi andare e forse un pochino chiusi e diffidenti. Ad esempio, il cuneese è benestante, tende a mettersi in mostra, fare il “fighetto” e dunque questo tipo di persona ha paura a ridere sguaiatamente, fregarsene e lasciarsi andare.
– Quali differenze hai riscontrato tra il pubblico della zona e quello estero? Più facilità nel divertirsi e fregarsene. Il pubblico più bello è quello dell’est Italia ma anche quello di una regione tedesca, la Saarland, che è una regione felice, anche se uno pensa che la Germania sia un Paese chiuso e terribile, al contrario, i tedeschi sono molto felici, sciolti e con molte voglia di divertirsi. Comunque, al primo posto ci sono sicuramente gli spagnoli. In Spagna si divertono di più e io, girandola tutta, ho notato come si divertano facilmente perché ne hanno voglia!
14. Videomessaggio