24 Luglio 2021 | Cuneo... Chi?
Da generazioni l’azienda Balocco ci addolcisce il risveglio con i suoi prodotti da forno, frutto di passione e dedizione. Nata a Fossano e tutt’ora operante nel cuneese, la Balocco è famosa per la frase «fate i buoni» con cui si concludono gli spot televisivi, ma chi si nasconde dietro?
Scopriamolo insieme ad Alberto Balocco, oggi guida dell’azienda che si è reso disponibile per questa intervista all’insegna della golosità.
1.Chi è oggi il signor Balocco e perché avete scelto questo soggetto per la vostra campagna pubblicitaria?
Ci sono diversi “signor Balocco”: Aldo Balocco, oggi novantenne e presidente onorario della società, e i suoi figli Alessandra ed Alberto, attualmente alla guida dell’azienda. La campagna pubblicitaria ha l’obiettivo di raccontare la storia della famiglia Balocco che, da tre generazioni, lavora con immutata passione per rendere più dolce la vita a milioni di consumatori sparsi in tutto il mondo.
2.Su quali principi vi basate?
La relazione fra famiglia e azienda è molto intensa: la reputazione dell’una e dell’altra vanno a braccetto. Abbiamo un profondo senso del lavoro, una forte responsabilità sociale e mettiamo l’ambizione al primo posto in ogni nostra scelta.
3.Quali sono i vostri cavalli di battaglia?
Tecnologie avanzatissime, forte automazione, ricerca e sviluppo e costante attenzione alla sostenibilità.
4.Parliamo di lei più nel dettaglio:
- Ha sempre voluto diventare membro dell’azienda di famiglia?
Si, fin da bambini nostro padre ci portava a giocare in fabbrica, ci siamo cresciuti dentro e da sempre sognavamo di aiutarlo nel suo lavoro.
- Cosa ama del suo lavoro?
È un mestiere molto creativo e vario, che richiede però grande passione, attenzione e dedizione.
- Che percorso scolastico e lavorativo ha fatto?
Liceo Scientifico Ancina a Fossano, facoltà di Economia e commercio a Torino, master alla SDA Bocconi. E a 23 anni giù a capofitto in azienda.
- Di cosa si occupa lei nell’azienda tuttora?
Mi occupo della direzione generale.
- Personalmente quale prodotto Balocco preferisce e perché?
In questo momento sono pazzo per i Fagottini, dei frollini “crunchy” con cornflakes e cioccolato. Li adoro sia inzuppati nel latte che mangiati così. Sono irresistibili.
5.«Fate i buoni» è da anni il vostro slogan, pronunciato dal signor balocco nello spot televisivo: voi in che modo vi impegnate per “fare i buoni”?
Lavorando con serietà e con il massimo rispetto di tutti quelli che ci circondano: ambiente, consumatori, collaboratori, fornitori, clienti, sistema finanziario.
6.Essere un’azienda cuneese quali vantaggi e svantaggi ha?
Ha il vantaggio di poter contare sul forte senso del dovere tipico della gente di questa provincia. Ha lo svantaggio dell’isolamento infrastrutturale.
7.Parliamo adesso della salute del consumatore e dell’ambiente. Come si può ottenere un prodotto sano, buono e relativamente economico senza incorrere in materie prime di bassa qualità e/o nello sfruttamento delle risorse?
Grazie all’automazione: facendo scendere l’incidenza del costo del lavoro si può puntare tutto su ingredienti e qualità. È chiaro che occorre fare grandi investimenti in tecnologia, ma da quanto ne so io non c’è alternativa.
8.È vero che la vostra azienda utilizza pannelli solari?
Sì, a partire dal 2010 abbiamo fortemente investito in energia solare. Entro metà 2021 potremo contare su oltre 4 megawatt di potenza installata.
9.In questo periodo turbolento dettato dalla pandemia, come reagite? Avete subito perdite ingenti? Quali strategie avete adottato?
L’impatto sociale e le conseguenze che si sono ripercosse sulla gran parte dei settori dell’economia sono ben noti. Neppure l’industria dolciaria è rimasta esente da questi effetti e il settore dei prodotti da ricorrenza ha registrato una rilevante flessione nei consumi, principalmente a causa dell’impossibilità dello scambio degli auguri. Il lockdown ha invece favorito i consumi di molti prodotti di prima necessità, fra i quali i biscotti da prima colazione, comparto nel quale da tempo la nostra società ha investito proprio per diversificare il proprio business.
10.Infine, parliamo del cuneese, dove l’azienda nasce e continua a crescere:
- Cosa pensa della zona, in particolare di Fossano?
Sono molto legato a Fossano. È un bel posto sia per vivere che per lavorare.
- Le materie prime da voi utilizzate provengono dal cuneese?
Purtroppo provengono da più lontano…
- Quale vostro prodotto assocerebbe a Cuneo metaforicamente?
Penso il Bunet, un dolce con cioccolato fondente e amaretti che lanceremo nel Natale 2021. Ho assaggiato i primi campioni e l’ho trovato davvero buono, come la gran parte delle cose che nascono in provincia Cuneo.
11.Se dovesse dare un messaggio ai giovani e meno giovani cuneesi, cosa direbbe loro?
Di essere cittadini del mondo, di guardare oltre l’orizzonte, ma di tenere ben saldo il cuore nella nostra cultura e nelle nostre radici.
23 Maggio 2021 | A caccia di eventi
“Adoro poter esprimere con la musica ciò che non riuscirei a dire a parole!”
Riservato, talentuoso e giovanissimo, il cuneese Matteo Romano si racconta in questa intervista dove traspare il suo amore per la musica, il linguaggio universale per eccellenza che gli ha permesso di raggiungere traguardi importanti. La sua carriera è iniziata sui social, dove ha esordito come cantante con “Concedimi”, ormai virale in molti video su TikTok e Instagram. Con la nuova uscita del singolo “Casa di specchi”, il 30 marzo, ha raggiunto i cuori di moltissimi followers e non solo. Oggi Matteo è una giovane promessa della musica italiana, pronto a stupirci e a regalarci emozioni con la sua voce, le sue note e i suoi testi.
- Giovanissimo e già così famoso: qual è il tuo segreto?
Penso non ci sia nessun segreto in particolare, ormai sono tanti i giovani che hanno tanto da dire e da qualche anno ormai si cerca di dare loro sempre più spazio fortunatamente.
- Cosa ami della musica?
La sua leggerezza ma allo stesso tempo la sua potenza immensa; la sua fragilità e il suo potere evocativo enorme. Adoro poter esprimere con la musica ciò che non riuscirei a dire a parole!
- Ti saresti aspettato un successo del genere? Cosa rappresenta per te il successo?
Assolutamente no, ancora adesso non ci credo! Il successo per me rappresenta un mezzo per arrivare a più persone possibile facendo quello che più mi appassiona.
- Parliamo di te più nel dettaglio:
– Come ti descriveresti?
Sono una persona solare e ambiziosa. Sono determinato e cerco di essere il più autentico possibile.
– Hai un esempio di vita a cui ambisci? Chi?
Viagra sem receita médica Nessuno in particolare, il mio sogno sarebbe quello di vivere di musica rimanendo sempre me stesso e maturando sia come persona sia come artista.
– Cosa ti hanno tramandato i tuoi genitori?
Alcune delle cose che più mi hanno tramandato i miei genitori e per cui più sono grato sono il rispetto verso il prossimo e il senso del lavoro e del dovere.
– Che scuola frequenti? Cosa farai dopo?
Frequento l’ultimo anno di liceo Classico. Penso che il prossimo anno farò qualcosa nell’ambito della comunicazione, ma non sono ancora sicuro.
– Come ti sentivi prima a scuola e come ti senti ora, è cambiato qualcosa?
Non molto fortunatamente, cerco di comportarmi sempre nello stesso modo sia con i miei compagni sia con i professori e penso sia giusto così!
– Quale è il tuo più grande sogno?
Il più grande sogno è quello di poter vivere di musica, scrivendo i miei brani e cercando di trasmettere con le mie canzoni.
- Cosa o chi ti ha ispirato “Concedimi”?
Concedimi è stata ispirata da una persona che è stato molto importante nella mia vita e nei confronti della quale sentivo di dovermi sfogare.
- Cosa vorresti tramandare con le tue canzoni?
Dipende un po’ dalla canzone: ci sono volte in cui voglio trasmettere qualcosa di particolare, altre invece in cui lascio maggiore spazio all’interpretazione personale di ogni persona.
- Il 30 marzo è uscito il tuo nuovo brano “Casa di specchi”:
Ho scelto questo titolo perché penso rappresenti bene il significato della canzone. La casa di specchi allude a qualcosa che ci limita, che non ci fa vivere a pieno una situazione in cui dovremmo solamente lasciarci andare.
- Cosa vorresti tramandare con questo pezzo?
Con questo pezzo ho voluto raccontare una storia che non è personale, ma che è la storia immaginaria di due persone che si vogliono, senza però riuscire a dimostrarselo. Proprio per questo ho cercato di rendere evidente il disagio e l’impotenza che scaturisce da una situazione simile, in cui ho cercato di immedesimarmi ed impersonarmi.
Non mi rivolgo a un destinatario preciso. Una cosa che mi piace molto di questo pezzo è che può essere interpretato in modo diverso a seconda di chi lo ascolta!
- Parliamo dei social, grazie ai quali hai avuto la possibilità di farti conoscere e amare.
– Cosa rappresentano per te?
Rappresentano un mezzo per far conoscere me e la musica dal maggior numero di persone possibile!
– È possibile farne un uso consapevole? Come?
Assolutamente si, utilizzandolo come mezzo divulgativo di una propria passione oppure come veicolo per esprimere un’opinione sempre in modo rispettoso e attento.
– A quale social sei iscritto e quale preferisci? Perché?
Sono iscritto a Instagram, TikTok, Snapchat e Facebook. Forse i miei due preferiti sono Instagram e Tiktok. Il primo perché ce l’ho da quando sono più piccolo e ci sono affezionato, il secondo perché è quello che mi ha permesso di arrivare a così tante persone.
- Spostiamo l’attenzione su Cuneo.
– Ti piace la città? Perché?
Si! Perché nonostante non sia una grande città, è un luogo perfetto dove poter crescere in serenità, lasciando libero sfogo alla propria creatività.
– Credi che a Cuneo avrai possibilità di realizzare i tuoi progetti di vita?
Sinceramente non lo so. Per quanto Cuneo sia una città a cui sono molto affezionato, al momento voglio scoprire nuovi orizzonti ed avere nuovi stimoli, ma non so che cos’abbia il futuro in serbo per me!
-Cuneo è una città per giovani?
All’apparenza alcuni direbbero di no, ma in realtà penso che viviamo in una zona veramente bellissima che ha molto da offrire e, per chi ha voglia di fare cose, ci sono moltissimi posti in cui andare con gli amici!
- Se dovessi dare un messaggio ai giovani e meno giovani cuneesi, cosa diresti loro? videomessaggio Matteo romano
22 Marzo 2021 | Cuneo... Chi?
“Non bisogna mai tradire il consumatore che io considero il vero proprietario dell’acqua Sant’Anna…”
Da Vinadio, cuore delle Alpi Marittime alle nostre tavole il passo è breve. In questa intervista, Alberto Bertone, imprenditore e fondatore di Sant’Anna ci racconta le origini e i successi di uno dei marchi di acque minerali più celebri che sicuramente tutti voi avete bevuto almeno una volta. Affrontando diversi temi e addentrandoci nella vita del signor Bertone, scopriamo i diversi volti di un imprenditore che ha creduto in sé e nel potere delle valli che circondano il Cuneese.
- Com’è nata l’idea del marchio Sant’Anna? Ci racconti la storia della nascita in breve.
L’idea dell’acqua Sant’Anna è nata un po’ per caso: provengo da una famiglia di costruttori torinesi che voleva entrare nel business del food, in particolare delle acque minerali e casualmente siamo venuti a conoscenza di una sorgente di acqua ancora non sfruttata a Vinadio. Durante una passeggiata, abbiamo fatto visita a questa sorgente, abbiamo assaggiato l’acqua e da lì ci siamo innamorati e abbiamo deciso di portarla sulla tavola degli italiani. Inizialmente, non sapevamo molto delle acque minerali ma da veri imprenditori siamo entrati in questo mondo. Nonostante le difficoltà iniziali, siamo diventati leader non solo in Italia e siamo tra i principali produttori di acqua nel mondo.
- Si immaginava un tal successo?
No, assolutamente non potevo immaginarmi un tale successo. Da buoni imprenditori, l’idea del successo c’era, però non potevamo immaginare di arrivare così in alto.
- Perché un consumatore dovrebbe scegliere i prodotti Sant’Anna?
Sicuramente perché il nostro successo è dovuto ai consumatori: 13 milioni di famiglie credono alla bontà del prodotto ogni giorno da 25 anni. La qualità della nostra acqua è sicuramente il motivo principale. Inoltre, non mi sono mai accontentato di una sola sorgente, ma ho cercato fonti sempre più in alto così da avere 600 km di tubazione che collegano le sorgenti allo stabilimento e che ci assicurano quantità e qualità dell’acqua. Non bisogna mai tradire il consumatore che io considero il vero proprietario dell’acqua Sant’Anna: finché ci saranno i consumatori ci saranno i nostri prodotti.
L’acqua è essenziale per l’uomo e la sua qualità conta: la Sant’Anna prende un’acqua che sgorga dalla pancia della montagna così come nasce, batteriologicamente pura, senza cloro, a differenza dell’acqua dell’acquedotto che è addizionata, non pura. È inconfrontabile.
- Quali novità avete ideato? Quali avete in programma?
Abbiamo ideato per primo il tè, poi l’acqua con il collagene, con l’acido ialuronico per la pelle, l’acqua al limone che piacciono molto. Ci sono nuovi prodotti in fase di analisi e non so ancora quali entreranno sul mercato.
- Spostiamoci sul personale. Cosa significa per lei essere imprenditore? Come lo si diventa?
Penso che essere imprenditori voglia dire avere la consapevolezza di prendere le decisioni, credere nei prodotti, essere curiosi, non accontentarsi mai e accettare di essere soli. Quando bisogna prendere decisioni importanti, quando ci sono problemi, si è soli sempre e l’imprenditore non si demoralizza ma trova una strada. Posso dire che l’imprenditore si vede nel momento di difficoltà. Se posso dare un consiglio ai giovani, per essere imprenditori serve sapere ogni funzione della azienda e individuare persone capaci con cui lavorare.
- Quale è la sua giornata tipo in azienda e a casa?
Sia a casa che in azienda sono una persona con mille interessi. Sono molto legato alla mia famiglia che considero fondamentale, mentre in azienda per me sono fondamentali i dipendenti.
- È sposato? Ha figli? Se sì, cosa vorrebbe tramandare loro?
Purtroppo sono vedovo, mia moglie è morta quando mia figlia aveva sette mesi. Ho due figli: una di cinque anni e mezzo e uno di sedici anni. Vorrei tramandare loro la passione per il lavoro che credo sia molto importante: se si mette la passione nel lavoro e ci si diverte lavorando, tutto sarà più semplice.
- Vorrei ora affrontare con lei il tema dell’ambiente: come ben sappiamo oggi la plastica è un prodotto indispensabile ma ciò comporta una serie di problemi molto seri, tra cui l’inquinamento. Le acque in bottiglia, purtroppo, sono una delle fonti maggiori di plastica. Come si potrebbe rimediare? Esiste un modo per sostituire questo materiale? Qual è la sua opinione a riguardo?
Io penso che la plastica sia un bene fondamentale nella vita di tutti i giorni e quindi non bisogna demonizzarla. Se la plastica ha avuto un tale successo è grazie al fatto che è un bellissimo materiale, rinnovabile, leggero, trasparente, infrangibile, può stare a contatto con l’alimento, è economico… Sono tutte caratteristiche che rendono unica la plastica. Il vetro è frangibile, pesante, costoso così come l’alluminio; il tetrapak è formato da cartone e plastica ma è un danno per l’ambiente… Dal punto di vista della riciclabilità, penso che la plastica sia la migliore e la più ecosostenibile. Le bottiglie vengono riciclate e hanno un grande valore, per cui perché demonizzarla? Il problema non è il materiale, bensì l’uomo che inquina, per cui bisognerebbe educare al rispetto dell’ambiente e al riciclaggio. Infine, credo che sia una questione di prezzo: se non vogliamo più la plastica, bisognerebbe tassarla, renderla preziosa. Posso affermare tranquillamente “I love plastica!”.
- Sempre parlando di ambiente: la sua azienda s’impegna nel rispetto del pianeta? In che modo?
Innanzitutto, vent’anni fa abbiamo inventato la bottiglia bio fatta di sostanze vegetali ma presto ci siamo resi conto che non era quello il materiale perfetto, ma la plastica. Il problema principale è che questo materiale bio costa troppo ed è compostabile solo in siti di compostaggio industriale perciò inquina. L’importante è convincere le persone a non buttare per terra il rifiuto e valorizzare l’economia del riciclo.
- L’incremento vertiginoso del trasporto su gomma dei vostri prodotti, è ancora sostenibile rispetto ad una tendenza globale verso una riduzione delle emissioni?
Penso di sì. Il trasporto su gomma potrebbe essere sostituito se ci fossero alternative e sarebbe inconcepibile l’idea di trasporto con aerei o treni. Soprattutto, pensando al futuro, credo che ci saranno i camion elettrici e ibridi a idrogeno che però utilizzerebbero pur sempre un motore e ci dovrebbero essere strade apposite che non ci sono ancora. Personalmente, ho la macchina elettrica perché penso sia una cosa importante, nonostante sia complicato. Ognuno di noi, oltre a parlare, deve agire e fare scelte.
- Sempre in merito a questo problema: la mancanza di un’adeguata viabilità della Valle Stura, non rischia di compromettere la situazione già critica dei suoi piccoli centri?
Se non ci fossimo noi, non ci sarebbe il problema delle strade ma se ci siamo noi c’è. Ora, bisogna capire se vogliamo o meno il lavoro. In tutte queste vallate, abbiamo dato lavoro a tanta gente, rivitalizzandole. In pratica, se vogliamo un mondo verde, poi bisogna capire cosa mangiamo. C’è poi la questione delle infrastrutture mancanti che servirebbero per impedire di sfruttare il territorio: abbiamo i camion ma non abbiamo la viabilità stradale adeguata.
- A proposito della Valle e del Cuneese in generale, viene spesso nella zona? Cosa ne pensa?
Io sono cuneese di origine: mio padre è di Mondovì, mia madre di Carrù, per cui ho vissuto tutta la mia infanzia nella zona. Mi sento Cuneese, sono torinese a Cuneo e Cuneese a Torino.
- Se dovesse dare un consiglio ai giovani e meno giovani cuneesi, cosa direbbe loro?
Secondo me i Cuneesi sono delle persone laboriose e coraggiose, che non si perdono d’animo. Diamoci da fare e guardiamo al futuro. Potrei dire che non hanno bisogno del mio consiglio per essere grandi!
23 Gennaio 2021 | Cuneo... Chi?
«Scelgo sempre una connessione tra il reale e la finzione»
Produrre un film necessita di creatività, ingegno e autenticità ed Emanuele Caruso rispecchia bene questi tre aspetti. Regista nato ad Alba, formatosi a Bologna e creatore di Obiettivo cinema, Emanuele sceglie di raccontare storie di vita nei suoi capolavori, così da rispecchiare l’animo umano e la ricerca spirituale di ognuno. Essendo un regista e produttore non convenzionale, realizza i suoi film a basso budget attraverso l’azionariato popolare o crowdfunding.
Tra i suoi maggiori successi ricordiamo: E fu sera e fu mattina, La terra buona e A riveder le stelle, tutti lungometraggi o documentari d’autore, in cui si può percepire l’ingrediente segreto di Emanuele: l’autenticità.
Entriamo nel mondo del cinema del regista cuneese, ne rimarrete affascinati.
- Come sei entrato nel mondo del cinema?
In realtà non c’è una porta di ingresso o un test per entrare nel mondo del cinema e sinceramente non mi sento parte integrante. Nel mio caso volevo fare regia, dirigere film, ma nessuno mi dava la possibilità poiché costa molto e allora sono anche diventato produttore dei miei film aprendo una casa di produzione. Questo mi ha dato modo di far sì che ci fossero sale cinematografiche italiane e non solo che proiettassero i miei film, dandomi la possibilità di relazionarmi con un pubblico e una sostenibilità economica. Se non c’è pubblico, non c’è film: bisogna sempre trovare un pubblico che possa apprezzare o criticare anni di lavoro e tutti gli sforzi connessi alla produzione di un film. Quindi, non mi sento integrato nel mondo del cinema ma sono una persona che ha fatto e sta facendo un percorso. Non mi interessa granché entrarci, quanto il poter raccontare storie che vengano proiettate sullo schermo per qualcuno.
- Regista di film e documentari a basso costo: una scelta o un caso?
Una scelta degli altri. Fosse stato per me, avrei voluto fare film più grossi ed importanti ma in Italia non ho trovato nessuno che credesse ed investisse su di me. Quindi, diventando produttore di me stesso, ho dovuto far fronte alla difficoltà di reperire dei budget. Produrre un film costa tanto, motivo per cui tenere un budget basso mi ha portato a realizzare dei film dal costo di duecento mila euro anziché un milione o più (è il caso del film La terra buona che sono riuscito a produrre lo stesso grazie a delle rinunce).
La capacità di girare film a basso costo mi ha permesso di fare questo mestiere che altrimenti non sarei riuscito a fare.
- Cosa significa produzione dal basso?
Con i primi due film, E fu sera e fu mattina e La terra buona, abbiamo adottato una sorta di azionariato popolare che in Italia non si faceva e non si fa tuttora. Significa comprare un pezzo di film: in cambio di quote da cinquanta euro su una piattaforma online, si può acquistare una percentuale sui futuri incassi dei film. Più quote vengono acquistate, più ci si assicurano introiti. Con il primo film abbiamo raggiunto i quarantamila euro e con il secondo ottantamila. In Italia ci sono solo i miei film in azionariato popolare o crowdfunding.
- Parlaci di Obiettivo cinema e dei film realizzati.
Obiettivo cinema è la mia casa di produzione, una piccola realtà nata nel 2012 con cui porto avanti l’idea di produrre film a piccolo budget con la speranza di incassare al cinema. Obiettivo cinema si distingue sia per fare film a basso costo, sia perché non si occupa solo della produzione, ma anche della distribuzione (mentre le altre case di produzione si affidano ad altri distributori). Noi fondiamo insieme entrambe le capacità, grazie ad una rete di sale in tutta Italia che prendono e proiettano i nostri film. Oggi, Obiettivo cinema si sta ingrandendo: potremmo arrivare ad un budget di un milione.
- Quale tra i suoi film senti maggiormente tuo e perché?
Non c’è un film che sento più mio, li sento tutti miei e sono film che rappresentano momenti della mia vita. Tuttavia, non li rifarei se tornassi indietro o li farei in maniera differente.
Entriamo nel personale:
- Chi è Emanuele Caruso nella vita di tutti i giorni?
Domanda difficile. Sono un gran amante della terra, un po’ contadino, legato alla dimensione della montagna. Penso di essere una persona semplice, tranquilla che prova a raccontare le sue storie e cerca sempre qualcosa in più che credo sia nascosto fra le pieghe della terra.
- Quali passioni hai oltre alla regia e al cinema?
Sicuramente la terra, la montagna, l’orto. Sono tutte passioni legate alla natura e alla terra.
- Cosa ami di più della tua vita?
Il posto dove vivo e le persone che ho incontrato dove sono nato: le Langhe e il Roero, la mia famiglia e gli amici. Penso di essere stato molto fortunato.
Non sono sposato e non ho figli.
Parliamo del film E fu sera e fu mattina, la cui trama racconta di un apocalittico spegnimento del sole:
- Com’è nata l’idea? Quale messaggio hai voluto trasmettere?
L’idea è nata dal mio aiuto regia di allora: Beppe Masengo. Stavo cercando l’idea per un film, avevo bisogno di un’idea forte, così lui mi scrisse una mail proponendomi di raccontare la fine del mondo dal punto di vista di un piccolo paesino di Langa formato da gente comune e non più in stile americano o apocalittico. L’idea mi piacque molto perché andava ad indagare nell’animo e nel cuore delle persone. Inoltre, fu sempre Beppe a propormi il titolo. Da qui è nata la domanda principale del film: “Se sapessi di avere solo più sessanta giorni di vita, quindi un tempo limitato, continueresti a vivere come stai vivendo oppure cambieresti tutto?”. Dunque, l’idea era quella di non aspettare una fine certa per cambiare e fare quel che davvero conta della propria vita.
- Spostando la nostra attenzione sul presente: pensi che il periodo in cui stiamo vivendo abbia somiglianze con l’apocalisse messa in scena nel film? Perché?
L’ho rivisto recentemente a La Morra che fu la città set del film nel 2012. Riguardandolo con tanto di mascherine e distanziamento, ho notato parecchie analogie: nel film c’è qualcosa del periodo in cui stiamo vivendo, nonostante adesso non ci sia un’imminente fine del mondo alla quale prepararci. Credo che il film riprenda alcune tematiche di oggi.
Un altro mio film in cui vengono riprese è A riveder le stelle che doveva uscire a marzo 2019 ma che proprio l’emergenza Covid ha fermato e che, se tutto andrà bene, dovrebbe uscire a marzo 2021, anche se non si possono fare previsioni.
- Per realizzare il tuo film La terra buona a cosa e a chi ti sei ispirato? Cosa c’è di vero nella trama?
Racconta tre storie realmente accadute che però nella vita reale non si sono mai intrecciate, cosa che invece accade nel film. Tre storie di tre persone che ho conosciuto e con cui ho parlato, ognuna delle quali mi ha trasmesso qualcosa. Mi piaceva l’idea di fonderle insieme senza creare un film biografico, seguendo la linea spirituale che caratterizza i miei film. Dunque, il lavoro di sceneggiatura è stato quello di far incastrare queste storie, legandole alla ricerca spirituale a cui tenevo molto.
- Come scegli il luogo in cui girare i tuoi film?
La scenografia è molto importante. Solitamente non mi piacciono i set finti, bensì i luoghi veri che lo spettatore può ritrovare nella vita reale. Molti film hanno il vizio di aggiungere troppa grafica al computer che si vede e sa di finto; a me piace l’idea che il pubblico possa gustarsi l’atmosfera reale. Ciò non vuol dire che non userò mai arrangiamenti ma credo che i set autentici abbiano un valore aggiunto. Io scelgo i miei set in base all’atmosfera che voglio comunicare: ad esempio, la Val Grande era il set perfetto per La terra buona dato che l’ambientazione era un luogo isolato e montano. Posso dire che scelgo sempre una connessione tra il reale e la finzione.
- A proposito di luoghi, parliamo del cuneese. Ti piace la città di Cuneo? E Alba, dove sei nato? Cosa cambieresti della zona e perché?
Adoro il Cuneese e soprattutto le sue valli.
Mi capita qualche volta di andare a Cuneo e apprezzo il fatto che sia immersa tra le montagne e ben raggiungibile. Si respira aria buona.
Sono molto legato alle montagne, in particolare alla Val Maira che identifico come casa al pari delle Langhe e del Roero e dove ho sepolto il cuore.
Non so cosa cambierei… Mi piace molto di più la dimensione legata all’alta Langa, quella da scoprire, selvaggia, silenziosa, un po’ meno turistica. Forse mi piacerebbe di più un ritorno a quel tipo di Langa piuttosto che la dimensione legata al turismo enogastronomico.
- Quanti e quali film hai ambientato nel Cuneese? Dove?
E fu sera e fu mattina è ambientato a La Morra, vicino ad Alba e La terra buona che ha una scena centrale girata nella biblioteca a La Marmora.
- Com’è stata la tua vita al tempo del lockdown? E il tuo lavoro?
Il lockdown è stato pesante e inaspettato. Dal punto di vista lavorativo e culturale ha fermato tutte le attività e il campo culturale- artistico è stato e continua ad essere il più colpito, sicuramente il cinema rientra tra questi.
È stato un periodo per pensare e lavorare: non mi sono fermato un attimo e ho dovuto spostare i miei obiettivi lavorativi di un anno. Ultimamente vivo nella speranza di poter ripartire, anche se inizio a pensare che potrà volerci ancora del tempo.
- Se dovessi dare un messaggio ai giovani e meno giovani cuneesi, cosa diresti loro?
Tutti i miei messaggi, per giovani e non, sono nei miei film. Sono sempre loro a parlare per me.
21 Novembre 2020 | Cuneo... Chi?
«La tradizione è la base su cui costruire il nuovo»
Noi Cuneesi facciamo parte della regione dell’Occitania, ma forse non tutti sanno di cosa si tratta e che tradizioni conserva. L’Occitania è la civiltà della lingua d’Oc, nata intorno all’anno 1000 d.C. ed è la prima civiltà importante sorta dopo la caduta dell’Impero Romano, mai costituitasi come regno unitario. Comprende tutto il centro-sud della Francia, la Val d’Aran in Spagna e sedici valli in Italia nelle province di Cuneo e Torino. Nonostante non sia riconosciuta come nazione, la sua lingua, la sua cultura, le sue tradizioni, restano intatti da secoli e nell’ultimo periodo si sta assistendo ad una ripresa, soprattutto nell’ambito artistico-musicale. Questo perché è fondamentale conservare le tradizioni, renderle proprie e tramandarle alle generazioni future per poter vivere nel presente consapevolmente e progettare il futuro.
La musica e i balli occitani, che appartengono alla tradizione popolare, sono stati riscoperti da un gruppo celebre in provincia Granda: i Gai Saber che sanno mantenere viva la tradizione del territorio attraverso la loro incredibile musica e i loro spettacoli. Ascoltandoli, rimarrete affascinati dalla bellezza delle nostre origini e vi catapulterete in un mondo a sé, la cui atmosfera rimanda al passato. Scopriamo insieme, attraverso l’intervista a Alessandro Rapa, membro e caposaldo del gruppo, la cultura e la tradizione musicale del nostro territorio.
- Com’è nato il gruppo musicale? Quando?
Il gruppo nasce nel 1992, in un’epoca in cui la sensibilità per la cultura delle tradizioni fiorisce un po’ in tutto il Piemonte ed il nord Italia. È un momento in cui anche al di fuori dell’area occitana la sensibilità per la lingua madre e per le origini è molto forte, si pensi a gruppi musicali come i Mau Mau a Torino.
- Chi erano i membri iniziali?
Alessandro Rapa alle tastiere e chitarra e programmazioni digitali; Maurizio Giraudo ai flauti, cornamusa e ghironda; Paolo Brizio all’organetto; Chiara Bosonetto alla voce; Elena Giordanengo al galoubet, arpa e tambourin; Giulia Ferrero al timballo e galoubet; Teresa Ferrero al galoubet e Djembè; Maurizia Giordanengo all’organetto. Iniziammo senza batteria, poi ci furono un po’ di cambiamenti, e suonammo per anni con Josè Dutto alla batteria.
- Che genere musicale suonate? Come è nata l’idea?
L’idea è sempre stata quella di coniugare tradizione ed innovazione, attraverso il suono. I suoni sintetici elettronici, impiegati anche dal vivo insieme a quelli degli strumenti acustici, permisero di rendere attuale l’atmosfera della musica tradizionale.
- Perché vi chiamate Gai Saber?
Perché soprattutto all’inizio guardavamo alla cultura dei trovatori di lingua d’Oc del XI – XII secolo. Il concistoro del Gai Saber fu, nel 1300, un’associazione di letterati che guardava al ripristino della grandezza della lirica trovadorica, in un’epoca in cui questa era già in decadenza. L’affinità con la nostra filosofia culturale e musicale era evidente, da qui la scelta.
- Ci parli dei vostri principali concerti.
Strictly Mundial a Marsiglia nel 2003, Fiest’a Sete nel 2004, Ariano Irpino Folk festival nello stesso anno, Olimpiadi Invernali di Torino nel 2006, Estivada di Rodez in tre occasioni, e poi Folkest…ma ce ne sono tanti di un buon livello. Era un’epoca meno pilotata dalle produzioni musicali, in cui se avevi qualcosa da dire potevi essere chiamato a suonare. Una cosa tipica dell’ambito world music e folk, ma che si inseriva nel filone della musica indie degli anni ‘90, dove indie stava per indipendente, ovvero suonare senza essere inserito in un sistema di rooster, produzioni musicali, che oggi in Italia decidono chi suona e dove.
- Siete conosciuti anche all’estero? Dove?
I nostri principali concerti, ancor più che Italia, sono stati in Danimarca, Francia, Olanda, Spagna, Germania ed Estonia.
- La vostra musica è apprezzata anche dalle nuove generazioni?
Per le nuove generazioni ci sono i nostri successori, i Saber Système, stessa filosofia di indipendenza, ma musica che guarda alla commistione con i nuovi generi musicali. Ad ognuno il suo.
Entriamo nella sua vita:
Faccio il medico del lavoro. Mi piace. In pochi sanno cosa fa questa figura professionale, che si occupa di prevenzione. Con il Covid 19 ci siamo occupati della tutela dei dipendenti in prima linea, un’esperienza totalizzante, faticosa ma anche gratificante, che comunque spero di non dover ripetere. Il lavoro del medico è innanzitutto un dovere, tutto qui. Per cui non parlo quasi mai del mio lavoro sui social, non amo farne una celebrazione.
- Com’è nata la sua passione per la musica?
Ascoltando gli arrangiamenti della musica progressive della fine anni ‘60 – inizio anni ‘70. Penso di avere una predisposizione per l’arrangiamento, quello che oggi fa il producer. Penso che la mia passione per l’elettronica, già negli anni ‘90 e 2000, abbia condizionato il nostro guardare sempre al futuro. E oggi posso fare il producer per i Saber Système.
- Che strumenti musicali suona?
Come detto, produco le basi elettroniche e suono la chitarra e le tastiere. Credo che oggi questa attività (la produzione elettronica) andrebbe insegnata come si insegna uno strumento musicale. Una cosa che accade solo in conservatorio, ma che non esiste nell’immaginario collettivo popolare. Un ragazzo prende lezioni di batteria, non di produzione di loop ritmici. In questo abbiamo una mentalità vecchia.
Segur, parlar e escriure a nosto modo es estaa facil, perquè i avia dins l’aurelhas les paraule de mon paire e ma maire… Io non sono un madre lingua, ma imparare la lingua d’Oc è stato facile perché avevo nelle orecchie il peveragnese delle frazioni, quello vicino alla Besimauda, il dialetto di montagna che parlavano i miei. Il passo è stato breve.
Si, con la cantante dei Gai Saber, Chiara Bosonetto, nonché anima culturale del gruppo.
- Ha figli? Se sì, cosa vorrebbe tramandare loro?
Sì, sono 3: Eugenia Costanza e Antonio. Vivono, lavorano o studiano tutti in Francia. Credo che abbiamo tramandato loro i valori di tolleranza, convivenza, merito e pari opportunità che costituiscono il fondamento della lirica trobadorica occitana. Antonio è una delle voci nonché percussionista dei Saber Système, inoltre. Non dico missione compiuta, ma sono contento.
- Dove vive? Cosa ama della sua città?
Vivo a Peveragno. Mi piacciono la natura e la lingua, la gente anziana, il modo di esprimersi di noi vecchi, che quando gli chiedi come va rispondono “souma si”. E se ritengono che qualcuno sia uno scansafatiche, dicono che “tribula a doubiase”. Le metafore del piemontese ed occitano alpino sono insostituibili, e rispecchiano lo spirito di questa gente modesta ma arguta. Niente a che vedere con le sbruffonate televisive e dei social network di oggi, tipica degli uomini che occupano poltrone, figli della cultura dell’apparenza.
- Cos’è e di cosa tratta lo spettacolo “Angels Pastres Miracles”?
Tratta dai Novés Occitani, canti natalizi tradizionali che venivano eseguiti e rappresentati soprattutto in Provenza nel periodo natalizio, ma dei quali abbiamo importanti testimonianze anche nel territorio occitano d’Italia. Fanno rivivere il mistero della nascita e dell’infanzia di Gesù attraverso i racconti affascinanti e magici dei Vangeli apocrifi. In queste canzoni popolari, drammatizzate fin dal Medioevo nelle veglie di Natale, si ritrova la semplicità del mondo dei poveri, spesso i veri protagonisti dei racconti; una profonda fede nella Provvidenza divina, che protegge e consola i piccoli; un messaggio di fiducia, aiuto e simpatia per gli umili e gli oppressi, messaggio di cui la società attuale, travagliata da crisi e conflitti, sembra avere sempre più bisogno. L’interpretazione musicale dei Gai Saber dei Novés occitani fa riferimento alle molteplici influenze della musica del popolo di ieri e di oggi, da sempre in evoluzione in rapporto al mescolarsi delle genti e delle loro culture.
Parliamo del legame tra la vostra musica e la lingua occitana:
- Cosa significa “tradizione” per i Gai Saber?
Tradizione non può essere disgiunto da innovazione. La tradizione è la base su cui costruire il nuovo.
- Come mai la scelta di usare questa lingua nelle vostre canzoni?
Per la questione dell’identità della persona. La persona che sa quello che è non sarà mai troppo manipolabile, pensa con la sua testa, è orgogliosa delle proprie origini. Non ha paura di confrontarsi con altri perché ha stima di se stesso.
- A suo parere è importante preservare questa antica lingua? Perché?
Certo, perché contribuisce a costruire la nostra identità, ci dice da dove veniamo e cosa siamo, quali sono i valori che formano la nostra mentalità; identità è lingua, musica, arte pittorica ed architettonica del territorio, ambiente in cui si vive, cibo, tempo libero e sport locale. Un occitano, un piemontese è colui che si identifica in tutte od alcune di queste cose. Traduco: usa espressioni linguistiche locali, conosce almeno un po’ la musica e i balli occitani, ha visto ed è rimasto incantato dagli affreschi di Manta e San Fiorenzo di Bastia, passeggia per borgate montane e si ferma ad osservare le case spesso cadenti dei suoi avi, senza avversione, ma con un po’ di nostalgia. Fa escursioni, scia, arrampica. Ama il cibo italiano in generale, ma sotto sotto preferisce i tajarin o le raviole. L’identità è ciò che dopo anni di lavoro altrove, ti fa venir voglia di tornare dove sei cresciuto.
Spostiamo la nostra attenzione su Cuneo e il cuneese:
Sì, ci abbiamo fatto uno spettacolo multimediale importante nel 2019, “Cuneo storia e leggenda della città triangolare”. Cuneo fa parte della mia identità e di quella dei Gai saber.
- Cosa cambierebbe e perché?
Oggi Cuneo ha una vocazione turistica. Incrementerei le iniziative in quel senso. Bisogna vedere se però questo è ciò che vuole la maggioranza dei cuneesi. L’età media della città non aiuta, sono i giovani quelli che spingono per il procedere oltre, gli anziani frenano sempre.
- Pensa che sia una città aperta?
Da 20 anni a questa parte sì. Prima era una città dormiente. Poi i locali, le iniziative culturali, gli spettacoli, sono fioriti. Non è detto però che queste cose continuino il rischio di regressione è forte, nel clima politico e culturale attuale.
- Se i Gai Saber dovessero scegliere una colonna sonora per la città, quale canzone/musica sceglierebbero del loro repertorio?
Preferisco “La libertat” dei nostri successori Saber Système come inno. Una canzone sulla libertà adattissima per la città della resistenza e dell’indipendenza delle idee, testo misto in francese, occitano e spagnolo.
- Se dovesse dare un messaggio ai giovani e meno giovani cuneesi, cosa direbbe loro?
Il mio messaggio è resistere, sempre. All’omologazione. Mai come oggi 1984 di Orwell è attuale. Occitania è anche, e soprattutto, resistenza e differenza. Se vi va, guardate questo videomessaggio sulla nostra pagina Facebook, è tutto lì dentro: https://www.facebook.com/www.gaisaber.it/videos/268890107836912