4 Marzo 2018 | Fotogramma
Una piccola mano, sporca di polvere rossa e fango, si stringe intorno ad una sporgenza nella parete di roccia, le dita affondate nei solchi tra le pietre. Si tendono i muscoli dal polso alla spalla, si irrigidisce il collo, il bambino digrigna i denti e sale di qualche metro in più verso l’alto.
Quando si sente stabile, ancorato alla roccia, si ferma per riprendere fiato. Appoggia la testa contro la parete e cerca di calmare il respiro affannoso. Si guarda intorno: sotto di lui si snoda una terra di sabbia e rovine, l’aria trasporta il rumore di spari ed esplosioni.
Poi alza lo sguardo e riprende a salire. La roccia ruvida sfrega contro le sue gambe, ma alla cima dell’altura non manca molto.
Le mani si aggrappano a solchi sempre più in alto fino a che, sollevando il braccio per spostarlo all’appiglio successivo, il bambino trova la cima. Fa forza e si tira sù. Appoggia il ginocchio sulla terra rossiccia e si alza in piedi.
Sull’altura c’è un uomo, mitragliatrice sulle spalle e sguardo perso verso l’orizzonte.
Il bambino si mette a correre verso di lui, sulla cresta della montagna. Lo raggiunge con pochi passi e gli dice agitato: «Stanno bombardando la moschea devi venire subito!»
«Non dovevi salire fino a qui, è pericoloso», gli risponde l’uomo senza voltarsi.
Il bambino lo afferra per un braccio e lo scuote: «Hai capito? Stanno distruggendo la moschea, devi andare a combattere!»
«Non serve combattere quando vengono lanciate bombe dal cielo; calmati»
Il bambino gli lascia andare il braccio con rabbia: «Non puoi lasciare che bombardino la casa di Allah. Se distruggono la sua casa lui poi dove va a vivere?»
«Allah non ha bisogno di case»
Il bambino rimane per un po’ in silenzio, in piedi accanto all’uomo a guardare il fumo che sale verso il cielo fino a confondersi con le nuvole.
Poi gli chiede: «Perché non vai ad aiutare gli altri?»
Nessuna risposta.
Il bambino si china, raccoglie una sassolino e lo lancia nel vuoto di fronte a lui. Dopo un paio di secondi la pietra sparisce, senza fare rumore, sembra che non abbia mai toccato terra, che si sia semplicemente dissolta nella caduta.
«Anche della moschea rimarranno solo più pietre e sassi vero? Come quelli che si vedono da qua»
«Temo di sì Alì, ma tu devi preoccuparti delle case degli uomini, sono loro che ne hanno bisogno. Allah è qui per prendersi cura di noi, non siamo noi a dover proteggere lui»
3 Gennaio 2018 | Fotogramma
Una signora con un cappotto rosso camminava a passo svelto verso l’ingresso di un grande edificio di vetro e acciaio da cui si intravvedevano le stampatrici all’opera. Aveva degli stivali neri con il tacco che facevano un rumore secco, ritmato, ogni volta che appoggiava il piede per terra. Tac, tac, tac.
Sollevò lo sguardo verso la scritta sopra la porta, quasi per controllare se fosse proprio nel posto giusto. E sembrava che sì, quello fosse proprio il luogo verso cui era diretta, perché senza esitare avanzò verso l’entrata. Tac, tac, tac.
Rimase però sulla soglia: un uomo vestito di nero, in divisa, le bloccava la strada.
«Ha bisogno di qualcosa signora?»
«Evidentemente sì, altrimenti non sarei venuta. Le sarei grato se mi facesse passare, ho una certa urgenza.»
L’uomo rimase ancora qualche secondo fermo, interdetto, ma ormai era palese che la loro tacita sfida fosse stata vinta da quella signora con il cappotto rosso. Sconfitto, si fece da parte lasciando passare la donna che si diresse verso la segreteria, al fondo del corridoio.Tac, tac, tac.
Arrivata davanti alla lunga scrivania, che correva da un lato all’altro della stanza, si bloccò. Batté i piedi sul pavimento e si schiarì la voce cercando di attirare l’attenzione delle due segretarie che erano chinate sullo schermo di un computer, concentrate su qualcosa che da dietro la scrivania non si vedeva. Tac, tac, tac.
Alzarono lo sguardo contemporaneamente verso la signora che, sfilandosi i guanti dalle mani, disse: «Sono venuta a ritirare il mio pacco». Una delle due ragazze, capelli scuri un po’ crespi, occhi neri, fisico asciutto, rivolse uno sguardo smarrito all’altra: non capiva cosa ci facessero lì quella signora e la sua richiesta così inappropriata, non era un ufficio postale il loro.
L’altra, invece, riconobbe subito la donna con il cappotto rosso e intuì il motivo per cui era venuta. Lo capì con la chiarezza delle cose che non si vogliono vedere, ma che ad un certo punto, anche se abbiamo cercato di evitarle, di coprirci gli occhi, di guardare a terra, ci si piazzano davanti. Capì e impallidì. Parlò velocemente, in prenda all’ansia: «Non so di che pacco stia parlando. Tra poco arriveranno gli studenti, alle dieci iniziano le lezioni, la prego di andarsene, non posso esserle di aiuto».
La signora, invece, rimase immobile e rispose con tranquillità: «Può eccome. Non uscirò di qui senza il mio pacco. E non mi guardi così cara, di cosa ha paura? Non è stata colpa sua se per anni qualcuno ha cercato di tenere nascosto questo segreto, se hanno rubato le mie storie. Ora su, vada a prendermi quello che mi spetta».
Quando ebbe finito di parlare si sbottonò il cappotto e si sedette su uno dei divani. Tac, tac, tac.
Aspettava calma, abbandonata sui cuscini, certa che le prove sarebbero state inconfutabili.
3 Dicembre 2017 | Fotogramma
Cuneo, 24 novembre 2017
Il numero 49 era incollato sullo stipite della porta verniciata di grigio come tutte le altre lungo il corridoio. Le pareti intorno erano beige, scrostate in alcuni punti. La porta a sinistra, la 48, era socchiusa: si sentiva una musica ritmata e si intravvedeva un uomo sulla cinquantina, jeans sbiaditi e canotta, che cantava di fronte ad uno schermo. Al suono della canzone se ne aggiungevano altri, provenienti dagli appartamenti vicini. C’era rumore, ma si riuscivano lo stesso a distinguere i passi di qualcuno che si avvicinava e che, arrivato davanti al numero 49, posò a terra un vassoio avvolto in una carta rosa. Si affacciò alla porta accanto e disse: «Ho lasciato qualcosa da mangiare per Giovanni»
L’uomo all’interno dell’appartamento annuì senza smettere di cantare.
Passò quasi mezz’ora prima che si sentissero altri passi nel corridoio.
Era una donna giovane, vestita con abiti sportivi, che si avvicinò al 49, aprì ed entrò, lasciando il vassoio lì dov’era, sullo zerbino. Uscì poco dopo stringendo tra le mani un sacco nero della spazzatura e chiuse la porta dietro di sé allontanandosi verso l’uscita della palazzina.
Erano quasi le cinque quando arrivò Giovanni. Aveva le cuffie alle orecchie e faceva oscillare la testa a ritmo di musica. Frugò per qualche secondo nelle tasche, tirò fuori le chiavi e entrò al numero 49. Prima di chiudere la porta dietro di sé si chinò a raccogliere il vassoio. Tenendolo in mano con attenzione fece qualche passo verso il tavolo che si trovava sulla sinistra della disordinata cucina e, spostando alcuni CD abbandonati lì sopra, lo posò. Sollevò la carta rosa che ricopriva la confezione e intravvide focaccine, pizzette, qualche biscotto e un paio di pezzi di torta di mele. Ne prese una fetta canticchiando la canzone che aveva ancora nelle orecchie. Mentre andava verso il divano si inciampò in un filo dimenticato per terra, probabilmente il carica batterie di qualcosa, e cadde tra i cuscini. Sorrise. Si sistemò e, sollevando qualche rivista e un cumulo di capi di abbigliamento, prese in mano un joystick. Accese la televisione e iniziò la prima partita. Era in svantaggio: era appena incominciata e già avevano ucciso il suo compagno. Era rimasto solo e i suoi avversari lo inseguivano su tortuose stradine che mano a mano di materializzavano sullo schermo. Gli sparavano. Le dita si muovevano rapide da un tasto all’altro per evitare i colpi e per fuggire il più in fretta possibile. Prese una scala che saliva, poi svoltò a sinistra, si girò per sparare qualche colpo e cercare di liberarsi di qualcuno dei suoi nemici. Ne uccise alcuni e continuò a correre. Ancora qualche metro e poi si voltò di nuovo, non era più molti. Nascondendosi dietro ad un muretto colpì quelli rimasti. E vinse.
Giovanni, 29 anni, vive solo da tre e da uno non prende più farmaci. Dopo aver passato gran parte della sua vita in comunità di riabilitazione psichiatrica, grazie al progetto “Habitat”, ora ha una vita normale. Guadagna tra i 300 e i 400 euro al mese per una borsa lavoro. Alcuni operatori lo vanno a trovare un paio di volte a settimana, gli riempiono la dispensa e lo aiutano a riordinare l‘appartamento. Giovanni ha vinto la sua battaglia contro la psicosi, superando ogni aspettativa.
3 Novembre 2017 | Fotogramma
Torino, 21 settembre 2017
Due ragazzi, stretti tra il finestrino del tram e gli altri passeggeri, parlano tra di loro.
Hanno entrambi occhi scuri, dello stesso colore della loro barba che sale ispida dal collo al mento fino ad arrivare alle guance.
Luca è il più alto, ma non fosse per questo dettaglio si assomigliano molto.
«Ci arrivi a schiacciare?»
Uno dei due infila la mano tra le spalle di due anziane signore e si tende fino a raggiungere il pulsante rosso, preme.
Una manciata di secondi, una curva e poi il tram si ferma. Le mani si stringono intorno alle maniglie e alle sbarre, si tendono i muscoli per rimanere saldi al proprio posto, per resistere alla frenata.
«Mi scusi, permesso»
Si fanno largo tra i gomiti, tra le mani ancora serrate intorno ai corrimani, tra i corpi della gente e scendono.
«Ha detto che sta arrivando».
Luca si aggiusta la giacca, china la testa e tira sù la cerniera. Si incammina a passo svelto per la strada e si volta indietro per controllare che l’altro lo segua.
«Non è lontano da qui, se andiamo veloce dovremmo fare in tempo»
Abbassa la cerniera e riapre il giubbotto.
«Fa caldo. Tu stai bene così?»
Nessuna risposta. Rimangono in silenzio per un po’, si sente solo il ritmo veloce del loro respiro. Poi Luca si volta di nuovo: «Secondo te come sarà?»
Ora camminano uno di fianco all’altro, anche se ogni tanto devono dividersi per oltrepassare un gruppo di anziani o una scolaresca.
«Chissà cosa dirà, se è proprio come ci hanno raccontato».
Cala di nuovo il silenzio, fino a che Luca si gira all’improvviso e afferra per il braccio il compagno e quasi gli urla contro.
«Smettila di essere arrabbiato. Non poteva tenerci, lo capisci? È stato meglio così per noi».
Continua a parlare, ad agitare le braccia, a controllare l’orologio.
Poi ad un tratto si ferma in mezzo alla strada: «Io non lo so se abbiamo fatto bene a decidere di incontrarla, ok? Tu però se vuoi puoi non venire. Torna indietro. Ma io vado, ho passato questo anni a chiedermi chi fosse, come fosse fatta, se mi somigliasse o no, ora non torno indietro».
6 Ottobre 2017 | Fotogramma
Cuneo, 5 settembre 2017
Un calcio colpì con forza la schiena avvolta in un coperta gialla usurata.
«Arrivano»
L’uomo socchiuse gli occhi e si girò su un lato facendo scricchiolare il cartone sotto di lui. Il vetro che aveva davanti, illuminato dalla luce pallida del mattino, rifletteva l’immagine delle decine di biciclette legate alla rastrelliera, del marciapiede rossiccio e della ringhiera che lo delimitava, interrotta da una scalinata. Sul vetro si vedevano anche ombre scure muoversi frettolose alle spalle dell’uomo ancora coricato. Gli altri erano già tutti in piedi a raccogliere le loro cose.
«Arrivano», gli disse di nuovo con voce roca il vecchio che lo aveva svegliato, mentre gli passava accanto, stringendo tra le mani raggrinzite due sacchi neri della spazzatura, pieni fino all’orlo. Cinque o sei uomini si muovevano rapidi intorno a lui, correndo da una parte all’altra, chinandosi, afferrando, raccogliendo, in un silezio soffocato.
Scostò la coperta e si alzò.
Poco distante, tra le ruote delle bici, c’erano un paio di ciabatte nere con la suola rossa, se le infilò rapidamente nei piedi scalzi e corse verso la ringhiera. Afferrò i jeans scuri e la maglietta appesi al corrimano polveroso, erano ancora umidi. Mentre tornava dove aveva lasciato le sue coperte, un ragazzo, correndo verso le scale, gli tirò una spallata facendogli perdere l’equilibrio. Cadde su una delle tante bici, ma fu un attimo, e poi era di nuovo in piedi, chianato sulla sua borsa di plastica verde, per cercare di stipare più cose possibili. Buttò dentro i vestiti e le coperte e piegò i lunghi pezzi di cartone che erano rimasti a terra. Raccolse rapidamente alcune scatole di cibo scaduto che erano ancora sparsi sul marciapiede e li spinse negli angoli della borsa che erano rimasti liberi. La appoggiò, ormai piena, contro la parete di vetro, di fianco alle striscie di cartone.
In quell’istante, due ragazzi corsero giù dalle scale, lasciandolo solo sul marciapiede ormai vuoto. Si guardò intorno, gli occhi che guizzavano da una parte all’altra. Non c’era nesuno. Si chinò ancora una volta, frugò senza sosta tra i sacchi neri abbandonati, tra le scarpe incastrate nei raggi delle ruote delle bici, finchè trovò un paio di scarpe da ginnastica bianche sotto una pila di cartone. Le strinse al petto con una mano, con l’altra afferrò i manici della borsa verde e affrettando il passo scese anche lui le scale.
Arrivato al fondo, si infilò nel sottopassaggio e si diresse verso un angolo riparato dalla penombra. Sistemò le sue cose in un affranto del muro, vicino ad altri sacchi e ad altre coperte e si diresse verso la fine del tunnel. Salì le scale riemergendo in superficie e sparì tra le strade ancora silenziose.
Il cielo si schiariva ad ogni minuto, preparandosi all’arrivo del sole e facendo risplendere la costruzione di vetro che copriva le scale da cui era appena emerso l’uomo. Sopra la scalinata spiccavano quattro quadrati colorati con la scritta Movicentro.