I colori del Messico attraverso le architetture di Luis Barragan

L’articolo di oggi sarà dedicato ad un importantissimo ma spesso dimenticato architetto messicano, Luis Barragan, che contribuí a cambiare il volto del Messico dopo la rivoluzione messicana e la liberazione del paese dai tanto odiati Gringos americani.
Barragan nacque a Guadalajara, piccola cittadina del Messico, nel 1902 da una famiglia di origine modesta. Terminati gli studi nel 1925 con l’ottenimento di una laurea in ingegneria civile ed architettura, intraprese un viaggio che durò per due anni consecutivi attraversando tutta l’Europa. Nel corso di quest’esperienza visitò luoghi che, a partire dal Generalife di Granada e continuando con le ville italiane e la costa mediterranea, lo portarono a sviluppare un particolare interesse per i giardini.
A questa iniziale passione se ne aggiunse presto un altra: l’architettura di paesaggio, meglio conosciuta come landscape architecture. Sul sorgere degli anni ’30 tornò poi nella sua città natale dove iniziò a costruire alcune residenze abitative divenute molto celebri e pubblicate su giornali stranieri, sopratutto americani come Architectural Records. Il 1957 segnò per lui un anno molto importante, fu infatti inviato dalla compagnia che sviluppo Cludad Satélite a costruire il simbolo dell’urbanizzazione. Questo progetto, di cui parleremo più avanti, venne realizzato in collaborazione allo scultore Mathias Goeritz, amico e collega. Il 1974 fu poi l’anno di Casa Gilardi, lavoro al quale seguì immediatamente la prima mostra personale di Barragan al MOMA curata da Emilio Ambasz nel 1976.
Verso la fine della sua carriera lavorativa l’architetto riscosse un certo successo arrivando ad essere considerato iniziatore dell’architettura moderna messicana. Fu proprio la sua bravura, unita ad una certa notorietà consentitagli dalle precedenti esperienze, che gli permise di vincere il premio Nacional de Ciance y Artes (premio nazionale di scienze ed arte del Messico) nel 1976 e il Pritzker Architecture Prize nel 1980.
A questo periodo seguirono gli ultimi lavori come il Faro del comercio per la città di Monterrey e la Casa Barbara Meyer. Poco dopo l’architetto si ammalò di Parkinson, malattia che gli impedì di continuare a lavorare, e fu proprio questo il motivo che lo portò a decidere di tornare un’ ultima volta nella sua città natale nel 1985 per ricevere il premio Jalisco e per inaugurare una retrospettiva dei suoi lavori al museo Tamayo di Città del Messico. Il 22 novembre del 1988, pochi mesi dopo aver ricevuto il Premio Nactional de Arquitectura, morì nella sua residenza di Tacubaya e ad oggi i suoi resti sono conservati nella Rotonda de Los Jaliscienses illustre a Guadalajara.

Fino ad ora abbiamo posto la nostra attenzione su alcuni dei più importanti progetti di Barragan nel campo dei complessi abitativi mentre in questo paragrafo prenderemo in considerazione un lavoro di diversa natura ma accumunati ai precedenti dall’inconfondibile stile dell’architetto.
Si tratta del progetto per le torri della Città dei Satelliti, progettate con l’aiuto dello scultore Mathias Goeritz per Queretaro Highway, di Città del Messico. Si tratta di cinque altissime torri astratte ideate per divenire simbolo pubblicitario del complesso di Ciudad Satellite e che hanno poi con il tempo assunto il ruolo di guardia verso l’entrata nord della città. Nella progettazione delle torri, lo stile di Barragan, il quale predilige elementi architettonici prismatici e astratti, incontra la scultura di Goeritz che sin dalle sue origini è legata a elementi che rievocano forme molto alte. Nel corso degli anni i due condivisero molte idee nel campo dell’arte e non solo, ragion per cui le torri risultano nascere dal semplice cristallizzarsi dei loro stili simili ma al contempo diversi: se infatti Barragan ricercava l’appollonico, Goeritz era invece per conto suo indirizzato verso il dionisiaco.
Le cinque torri collocate in uno spazio leggermente inclinato che si contrappone alle colline che circondano la città, hanno altezze diverse: 30 metri la prima, 36 la seconda poi 40, 45 ed infine 50 metri la quinta. Furono costruite metro per metro quasi senza aver bisogno di una vera e propria impalcatura essendo composte da stampi di metallo che vennero impilati gli uni sugli altri fino ad arrivare alla cima. Questa loro particolare modalità di costruzione è resa palese grazie alle linee orizzontali che scandiscono l’altezza delle torri. Per quanto riguarda la loro forma triangolare, grazie all’inclinazione del terreno d’appoggio, essa conferisce alla struttura un aspetto surreale di movimento cosicché il visitatore spostandosi intorno ad esse abbia la percezione che si muovano cambiando profilo ed altezza. Da una parte appaiono infatti lastre piane, dall’altra torri a base quadrata dai colori estremamente sgargianti.

Giulia Pelassa

 

La guerra di Paolo

Dicono che la ricerca della felicità duri tutta la vita, che, per quanto ci si possa trovare vicini, questa ci sfuggirà ancora e ancora; più che una ricerca, da come lo descrivono, sembra un inseguimento. Bene, Paolo aveva corso veloce, perché era ad ormai pochi centimetri da essa.
Ma, prima di raccontare ciò che stava per accadergli, è necessaria un’introduzione appropriata.
Paolo era il classico ragazzo di paese con poche storie da raccontare. La sua famiglia si era disgregata con il passare della sua tenera età: i suoi litigavano sempre e, pensando che sarebbe stato meglio per il bambino, sua madre si allontanò da lui e dal padre. Questi però lavorava parecchio, dalle sei di mattina alle sette di sera. Ed ecco la combinazione perfetta perché Paolo, crescendo, si facesse attrarre dalla vita di strada. Paolo però aveva un pregio: non era condizionabile, era testardo come un mulo. Nessuno riusciva a modificare i suoi modi di fare o il suo pensiero. Fu così che si salvò la vita, schivando proiettili che gli si presentavano sotto forma di piacevoli passatempi o di lavoretti innocui per persone poco raccomandabili. Paolo era molto più forte di quanto si rendesse conto, era un adolescente con la consapevolezza di un adulto, ma con gli occhi innocenti di un cucciolo.
Il suo comportamento così al di fuori della norma per un ragazzo della sua età aveva incuriosito un sacco di persone, ma poche erano rimaste davvero. Solo due tra queste potevano considerarsi suoi amici intimi, anzi, amiche: Greta e Lucia. La sensibilità di Paolo si sposava più facilmente con quella dell’altro sesso: era malinconico ma simpatico, molto più socievole quando ci si trovava da soli con lui che quando si era in gruppo. Uno a cui affidare i propri segreti con la sicurezza che se li sarebbe portati fin nella tomba. Non che non avesse amici maschi, ma era pessimista rispetto alle qualità del genere maschile, era remissivo ad intrattenere conversazioni particolarmente serie con essi. Anche se non sempre era stato così, fino alla terza media aveva rivolto la parola a due persone appartenenti l’altro sesso, una delle quali era la sua insegnante di musica, che lo aveva preso in simpatia. Poi era arrivata la prima cotta, non ricambiata, che gli aveva permesso di scoprire quanto fosse importante per lui confrontarsi con le ragazze.
Immaginatevelo: bruttino, non particolarmente muscoloso, a combattere per non abbandonarsi alla strada. Era tentato, ma sapeva che suo padre si sarebbe sentito responsabile e lo rispettava troppo per causargli un simile dolore. E poi suo padre aveva sempre fatto il possibile perché Paolo fosse felice e perché non gli mancasse nulla, a costo di sacrificare del tempo che avrebbero potuto trascorrere insieme lavorando. Così facendo aveva però rischiato che il ragazzo si buttasse via, ma era troppo stressato per rendersene conto.
Quando iniziò la meravigliosa stagione delle prime volte, Paolo conservò, in qualche maniera, la propria innocenza. Era spesso preso in giro per questo suo trovarsi in una sorta di bolla, ma non gli importava. Era felice, lo era davvero. In Greta e Lucia aveva trovato qualcosa che lo stimolasse, senza che venisse giudicato. Poteva dare sfogo a ciò che aveva da dire, e ne aveva parecchio. Però, parlando, non era in grado di esprimerlo appieno. Così decise di provare a scriverlo, e fu una benedizione: le parole sgorgavano così spontaneamente da fargli sembrare di essere un’altra persona. La frase di Ernest Hemingway che aveva schernito tempo prima gli tornò in mente, e si rese conto che aveva ragione. “Scrivere non è difficile. Basta sedersi davanti ad un foglio e sanguinare per un paio d’ore”. E Paolo sanguinò parecchio. Sanguinò per mesi senza quasi fermarsi, e compose un libro.

Come tutte le belle storie, deve per forza esserci un intoppo da qualche parte. Il suo fu scoprire di essere gay. So cosa starete pensando e, no, non sono omofobo. Lasciate che vi spieghi. Per lui non era un problema, come avrebbe potuto. E nemmeno per Greta e Lucia. Per suo padre lo era eccome, invece: si era spaccato la schiena perché fosse “normale” (parole sue, Dio me ne scampi) e come ricompensa lui era diventato “Uno di loro”. Non la pronunciava nemmeno la parola gay, gli provocava ribrezzo solo il suono che questa assumeva. Non giudicatelo, non era un uomo cattivo. La sua famiglia lo aveva avvelenato con quest’ideologia, e ormai era troppo tardi per estirparla. Il rapporto tra i due di conseguenza andò gradualmente scemando: Paolo, giustamente, non sopportava il pensiero stereotipato del padre, e quest’ultimo era convinto di aver sbagliato qualcosa nell’educare il figlio, e se ne vergognava atrocemente.
In una situazione del genere non esiste una scelta corretta né, tantomeno, una errata. Quella di Paolo, però, fu parecchio avventata: scappò di casa. Aveva poco più di diciassette anni. Si trasferì momentaneamente nell’abitazione del suo ragazzo, ma poco dopo si lasciarono; si trovò improvvisamente senza un luogo in cui trovare rifugio e con una manciata di spiccioli nel portafoglio. Fu la settimana più lunga della sua vita: dopo un giorno e mezzo terminò i risparmi, ma il suo orgoglio gli vietò di tornare strisciando dal padre. Era solo contro il mondo, che allo stesso tempo si stava però mobilitando per cercarlo. Suo padre si era pentito dal momento esatto in cui aveva messo piede fuori da casa e, per provare a trovarlo, denunciò la sua scomparsa.
Ma, come si dice, non tutte i mali vengono per nuocere: mentre Paolo cercava di rubare un pezzo di pane dentro un supermercato, fu scoperto da un giovane commesso dall’accento ispanico; avete presente il tanto desiderato amore a prima vista? Tra loro andò più o meno in questo modo, con l’eccezione che il primo appuntamento fu un inseguimento attraverso il parcheggio del supermercato. Come terminò? Ovviamente in modo romantico: il commesso placcò Paolo, che lo pregò di lasciarlo andare. E così fu, e il fuggitivo, essendo in debito, offrì un caffè al benefattore, pur essendo cosciente di non potersene permettere nemmeno una goccia. Il commesso, che per informazione si chiamava Miguel, non sembrò particolarmente stupito della storia di Paolo, cosa che disturbò in qualche maniera il ragazzo. Venne il turno di Miguel di raccontare la propria vita: ed ecco che, con una semplicità inaudita, tutti i pezzi del puzzle che componevano l’esistenza di Paolo iniziarono a combaciare. Si innamorò subito, e in quel momento capì davvero che cosa avrebbe voluto e dovuto essere. Erano entrambi timidi, ma avevano un disperato bisogno di contatto fisico. Spero non sappiate di cosa parlo, ma è quella sensazione che si scatena quando ci si sente persi e si ha bisogno di aggrapparsi fisicamente a qualcosa, di stringerlo abbastanza forte da impossessarsene. Quella sera stessa finirono a letto insieme, e, per quanto sembrasse affrettato, la sintonia tra di loro era evidente.
Fu un nuovo inizio. Il giorno seguente Paolo tornò a casa, e il padre lo abbracciò come non lo aveva mai fatto prima. Si scusò, ma era così felice da non riuscire a scacciare via il sorrisetto da ebete che gli si era scolpito sul volto. Ricordava molto bene quel momento, in cui, nonostante non avesse dormito per due notti di fila, si sentì forte; ma non una forza descrivibile, piuttosto qualcosa di così intenso e fugace che, una volta scomparso, ti lascia senza forze e con il fiato corto.
Nonostante il suo talento, Paolo pensava che non sarebbe mai diventato uno scrittore. Era discontinuo in tutto, e, seppur la sua passione fosse considerevole, la costanza era quella spinta in più che gli era e gli sarebbe sempre mancata. Tranne che in un aspetto: aiutare gli altri. Aiutare gli veniva così bene che sarebbe stato uno spreco non sfruttare questo suo talento in modo che gli permettesse di vivere in modo dignitoso. Aiutare ed essere aiutati. Si era sentito solo abbastanza e non gli era piaciuto.

La sintonia tra i due amanti non si scalfì con il passare del tempo. Ogni secondo che passava si rendevano conto di quanto fossero indispensabile l’uno per l’altro, e per loro non esisteva nulla di meglio. Paolo convinse Miguel a riprendere gli studi, e questi si diplomò dopo un anno circa.
Volevano costruirsi un futuro stabile, concedersi la sicurezza che a loro, per motivi diversi, non era spettata. Ma trovarono qualche intoppo, anzi, trovarono un muro di cemento armato ad aspettarli. La discriminazione a cui gli omosessuali sono sottoposti non è una novità; certo, nel 2019 nessuno si osava criticare ancora apertamente gli omosessuali, si sarebbe ritrovato contro uno tsunami di falsa indignazione. La verità è che la battaglia contro l’omofobia non era stata nemmeno iniziata checché se ne dicesse. La tolleranza era quasi nulla, figuratevi il rispetto. Non potevano sposarsi senza che in tutto il paese si scatenassero un’indignazione ed un distacco totali.
Si trovavano davanti ad un bivio, ma entrambe le strade erano pericolanti: nascondere il loro orientamento sessuale e nascondersi, provando a vivere come le persone “Normali”, come le definiva il padre di Paolo; oppure esporsi, senza rinnegare la loro indole, correndo di fatto il rischio che le poche porte che la vita gli avrebbe aperto si sarebbero rivelate basse e strette. Avevano venticinque anni ormai, e dovevano compiere quest’ingiusta scelta. Paolo, testardo com’era, non dubitò mai del fatto che si sarebbe esposto; Miguel, meno coraggioso, aveva paura. Paura di amare, ecco a cosa si era dovuto ridurre. E la paura gioca brutti scherzi, è risaputo. Passarono mesi, e il rapporto dei due si raffreddò sempre più. Litigavano sempre senza un vero motivo. Un giorno Paolo trovò un biglietto sul proprio comodino: “Non ti ho mai meritato. Sii tutto quello che vuoi e puoi essere”. Fu un colpo duro. Ma Paolo lo era di più.

Scrisse, guidato dalla rabbia, pagine e pagine di critica contro un mondo razzista e oppresso dalla paura del “Diverso”, anche se di diverso non aveva un bel niente: aveva un naso, due occhi, due braccia e due gambe. E un cuore enorme. Ecco, quello era il suo difetto: avere un cuore troppo grande per una gabbia così piccola.
Avrebbe potuto rassegnarsi, ma non ne volle sentir ragione. Il suo essere così testardo lo salvò di nuovo. Scrisse per mesi senza praticamente fermarsi. Chiamò il suo libro “Tutti sbagliano”, in cui perdonò tutti coloro che avevano avuto pregiudizi nei suoi confronti, a condizione che si impegnassero nell’ampliare la loro elasticità mentale. Lo presentò ad un suo vecchio amico, che era diventato editore, e questi lo pubblicò senza indugiare. Fu la seconda più grande soddisfazione della sua vita, la prima ve la racconterò a momenti. Ebbe un discreto successo, e poté così formare un’associazione che rappresentava i diritti degli omosessuali, riuscendo, con il tempo, a sensibilizzare parzialmente la considerazione nei confronti dei gay. Ovviamente si fece dei nemici, ma era inevitabile. Li ignorò sempre, lasciando che gli insulti ricevuti si ritorcessero contro gli accusatori.
Aveva però tralasciato la sua vita sentimentale. Ma sentiva di non essere pronto ad impegnarsi prima di poter amare senza che ciò avesse ripercussioni negative sulla sua vita. Gli mancava, però, qualcuno in cui riporre il suo spropositato amore.
Ed è qui, amici, che possiamo ricongiungerci a ciò che vi ho narrato nelle prime righe. Vi ho detto che Paolo stava per provare una felicità che mai avrebbe pensato gli fosse stato concesso di provare. Ed è così: decise di adottare un bambino. Sebbene le normative sull’adozione non fossero molto definite, il suo gesto, essendo ormai una sorta di personaggio pubblico, sarebbe stato forte. Dovette lottare anche per quello, ma alla fine vinse. Il tragitto che dalla macchina lo portò ad incontrare il suo futuro figlio gli rimase scolpito nella mente: il vento, che trascinava pigramente le nuvole con sé, l’odore della pasticceria accanto al centro adozioni, e la macchia di caffè che si stagliava fiera sulla sua camicia a quadri.
Ed eccolo lì, giunto al momento che si sarebbe rivelato il più felice della sua vita. Nessuna sensazione raggiunse mai quel grado di intensità, mai quella forza spiazzante che rende un uomo invincibile e completo. Lo chiamò Miguel, per non scordarsi da dove tutto era iniziato.
Forse, se sono stato sufficientemente abile nel farvi apprezzare la sua storia, sarete curiosi di come questa possa essere terminata. Ma io non lo ritengo importante. Credo che, in qualsiasi modo questa vicenda possa essersi conclusa, Paolo sarebbe stato felice. Aveva combattuto per gran parte della sua vita e aveva vinto, tutto il resto si poneva in secondo piano. Ed è questo che deve aver insegnato a suo figlio, a non aver paura di mostrarsi per come si è, senza curarsi di essere accettati, perché è così che si trova la forza di apprezzarsi davvero.

 

Simone Arciuolo

Body Liberation Front

“Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando. È l’effimera configurazione delle cose nel momento in cui ne vedi insieme la bellezza e la morte.”

(Muriel Barbery)

 

Car*, fa abbastanza caldo lì da voi? Perché ora comincia il nostro # Bodyliberationfront. Quando ti dicono che tu non dovresti/potresti indossare short, costumi da bagno, magliette scollate e vestitini corti e aderenti perché non hai le forme “giuste” (giuste per chi?) puoi serenamente rispondere con un bel vai a quel paese. Siamo qui, come ogni primavera/estate (e non solo) a svolgere il nostro bel corteo di corpi liberati. Comunque tu voglia vestire, qualunque peso e misura tu abbia, vogliamo vedere le tue cicatrici, le tue smagliature, la tua panza e la cellulite. Vogliamo vedere le tue ferite autoinferte e la tua voglia di far respirare la pelle troppo oppressa da canoni estetici insopportabili. Vogliamo invitarti a uscire, prendere il sole e a non nasconderti perché siamo insieme, tutte quante, ciascuna con il proprio corpo da liberare. Inviaci la foto che ritrae la parte di te che vuoi mostrare e raccontaci la tua storia. Scrivi a abbattoimuri@gmail.com e noi pubblicheremo tutto :*.

 ps: ovviamente tuteleremo il tuo anonimato e la tua privacy. a meno che tu non voglia mostrare il tuo viso.”

 

 

E’ questa la call lanciata dalla pagina Facebook “Abbatto i muri”. Più che una call, forse un vero e proprio arruolamento spontaneo nell’Esercito per la Liberazione dei corpi.

La campagna, che sta colorando la pagina in questo inizio di bella stagione con colori, storie e vite diverse, si svolge nel massimo rispetto della sensibilità di tutti (e sarebbe così bello poter interagire con la stessa educazione, lo stesso rispetto e la stessa stima per la storia degli altri su tutto l’internet). Spesso sono giovani donne con un passato difficile, ma anche ragazze perfettamente a loro agio con il corpo, con quel meraviglioso mezzo che permette loro di esprimersi con i loro i simili.

Sono le storie di chi quel corpo l’ha odiato, torturato, perdonato, accettato e, forse, anche imparato ad amare.

Le Breton scrive che “Senza il corpo a donargli un volto, l’individuo non esisterebbe. Vivere significa ridurre costantemente il mondo al proprio corpo, attraverso il simbolico che esso incarna. L’esistenza dell’individuo è corporea. Passa attraverso il corpo. E l’analisi sociale e culturale di cui è oggetto, le immagini che ne rivelano le profondità nascoste, i valori che lo distinguono, ci forniscono informazioni anche sulla persona e sui cambiamenti sperimentati dalla sua definizione e dai suoi modi di esistere, da una struttura sociale a un’altra”. E dunque perché, date le mille variabili che entrano in campo se parliamo di società, individui e valori, dovremmo essere felici di ridurre la nostra espressione estetica (che è  un’esperienza del tutto personale) a una retorica del bello tacitamente imposta dai media?

L’estetica è, appunto,  “sempre un’esperienza privata. Ogni nuova realtà estetica rende ancora più privata l’esperienza individuale; e questo tipo di privatezza, che assume a volte la forma del gusto (letterario o di altro genere) può già di per sé costituire, se non una garanzia, almeno un mezzo di difesa contro l’asservimento.”

La mia idea di bellezza non sarà mai legata a una fotografia, a un corpo vuoto, né, platonicamente, alle idee di una persona… La bellezza la troverete nel modo di toccarsi i capelli di una persona, nella sua voce o nel profumo della sua pelle.

 

Carlotta Firinu

 

Frida: che cosa si nasconde dietro l’icona?

Frida Kahlo, Autoritratto tehuana, 1943

 

Frida Kahlo (Coyocàn 1907 – Coyocàn 1954). Sarà capitato a tutti almeno una volta, camminando per le strade, di vedere in una vetrina, su una maglietta, in un cartellone pubblicitario il volto della pittrice messicana Frida Kahlo. Al tempo dei social media il suo è un vero e proprio caso mediatico del mondo dell’arte; opere in apparenza semplici dai tratti sgrammaticati e dai colori accesi diventano il perfetto soggetto di gadget, post e molto altro per la loro immediatezza. Ma che cosa si nasconde dietro ai suoi tanti autoritratti? Chi era veramente Frida Kahlo? Questo sarà l’argomento dell’articolo di oggi.

 Nata nel Messico della rivoluzione, Frida fu figlia di un fotografo tedesco, Willehelm Kahlo, e di una giovane ragazza messicana, Matilde Calderon. Fin dalla prima infanzia la sua salute fu estremamente cagionevole a causa di un attacco di poliomielite che le compromise in parte l’utilizzo della gamba destra ma ciò non le impedì di condurre una vita da “vagabonda”, come lei stessa la definisce nelle sue lettere agli amici. Frequentò la Escuela Preparatoria e fin dall’età di 16 anni prese attivamente parte alla vita politica del Messico iscrivendosi al partito comunista ed arrivando addirittura a falsificare la sua data di nascita facendola coincidere con l’inizio della Rivoluzione Messicana del 1910.

Ma, come ci racconta la pittrice, saranno due incidenti che le capiteranno nella vita e che le causeranno terribili sofferenze a riflettersi sulle sue opere. Il primo, avvenuto il 7 settembre 1925, la vede vittima di un terribile scontro stradale tra un tram e il pullman su cui Frida, allora diciannovenne, stava viaggiando. Nell’urto la giovane fu sbalzata fuori dal mezzo e il suo corpo attraversato da parte a parte da un palo di ferro che le lesionerà la spina dorsale ed il bacino costringendola per tutta la vita a continue operazioni, ad indossare busti di ferro e soprattutto a passare lunghissimi periodi distesa a letto. Un autoritratto del 1944, La colonna spezzata, ci mostra una Frida il cui corpo, martoriato da chiodi, è sostenuto da un busto e da una colonna architettonica classica spezzata in più punti, visibile tramite uno squarcio lungo tutto il petto, che sostituisce ed indica la condizione della sua spina dorsale. Proprio come la colonna classica, l’artista accetta il suo disfacimento irreversibile certa di lasciare memoria della sua esistenza tramite la sua arte. Molte altre sono le opere che rispecchiano questo infinito calvario.

Veniamo al secondo “incidente” della vita della pittrice messicana: il matrimonio con l’artista Diego Rivera.

Frida e Diego convoleranno a nozze nel 1929, lui artista quarantatreenne affermato, lei giovane ragazza di ventidue anni. Il loro sarà sin da subito un rapporto estremamente travagliato, ricco di liti e tradimenti che portarono addirittura ad un divorzio nel 1940, a cui seguì un nuovo matrimonio tra i due. Anime gemelle legate in modo inscindibile a livello mentale, saranno l’uno il sostegno dell’altra e il loro rapporto influenzerà notevolmente la produzione di entrambi. In Autoritratto tehuana del 1943 Frida si rappresenta come una vestale in bianco con una corona di tessuto ad incorniciarle tutto il volto sul quale appare, come un terzo occhio, il volto di Diego.  Come una sorta di nutrimento per la mente di Frida, Diego permette di far germogliare sulla testa di quest’ultima una corona di fiori le cui radici si diramano su tutta la tela, come ad indicare un rapporto non solo fisico, ma soprattutto mentale, dove lui diviene sostentamento dei pensieri di lei e si riflette nelle sue creazioni, qui i fiori, che sottendono le opere d’arte.

In conclusione, dietro ai numerosi autoritratti di Frida Khalo si nasconde un’insuperabile serie di sofferenze, passioni e moti dell’animo che si concretizzano sulla tela per mezzo del colore. La sua produzione è pertanto un mezzo per espiare il male ed il tormento che caratterizzò la sua travagliata esistenza, così come il bello che la caratterizza, ma anche una sorta di testamento della sua vita lasciato ai posteri.

Giulia Pelassa

FONTANA: lo spazio oltre la tela

Nell’articolo di oggi parleremo di una delle figure più emblematiche e discusse della storia dell’arte contemporanea: Lucio Fontana. Nato a Rosario di Santa Fè in Argentina nel febbraio del 1899 l’artista visse in un periodo storico piuttosto travagliato per l’umanità. Cresciuto a cavallo delle due Guerre Mondiali si trovò ben presto a fare i conti con un mondo sconvolto dai massacri e  dall’instabilità, caratterizzato dall’assenza di certezze. Fu proprio nel contesto della guerra che Fontana comprese quanto non solo nel mondo, ma anche nell’arte, nulla fosse più durevole, così come la vita tranquilla era ormai scomparsa e che la creazione artistica avrebbe da quel momento in poi  dovuto adeguarsi  a due nuovi fattori: movimento e rapidità. Spinto da queste osservazioni nel 1946 firmò insieme ad un gruppo di giovani studenti dell’ Accademia Altamira di Buenos Aires Il manifesto Blanco, punto di partenza per il movimento spaziale. Fin dalle prime righe del testo si evince una concezione dell’arte latente, che di lì a poco avrebbe subìto un cambiamento netto nella forma, così come nell’essenza. Secondo Fontana nel mondo contemporaneo, trasformato dalla scienza e dalla tecnica, non vi era più posto per le forme tradizionali dell’arte  che da quel momento in poi  avrebbe dovuto manifestarsi in una nuova sintesi. Queste idee prendono corpo nelle ricerche spaziali dell’artista, che già attorno al 1947, avvertì, per dirlo con le parole del celebre critico Gillo Dorfles (1910-2018), “ l’urgente necessità di proclamare l’insufficienza del quadro a cavalletto, della distinzione tra quadro e statua e sentisse per contro l’importanza di creare un’arte capace di trascendere gli angustissimi limiti della tela per estendersi nello spazio”. Spazio inteso in una dimensione più vasta, tale da diventare creatore di un’atmosfera e di interagire con l’architettura.

E’ proprio in questo contesto che nascono i famosi buchi e tagli. Contrariamente a quanto spesso si pensa, lo strappo non è la prima tappa della rivoluzione di Fontana: egli infatti passa prima per il foro. Questi ultimi, realizzati su superfici monocrome, risultano essere caratterizzati da una gestualità ancora accentuata, dove l’approccio dell’artista è del tutto mentale. La serie dei buchi, così definita dalla critica, permette di fissare un disegno bidimensionale e al tempo stesso di costruire una struttura plastica dove il vuoto, generato all’assenza della materia, proietta lo spettatore verso il nulla che sta dinnanzi.

I tagli invece sono veri e propri squarci con cui il rapporto dell’artista con la tela tende ad allontanarsi. Si tratta di un gesto estremo, rivoluzionario, che marca il passaggio da un’epoca dell’arte ad un’altra diversa e al tempo stesso aprirà la strada ad altre sperimentazioni. Si tratta quindi del superamento della superficie quadro, della materia, che non è più ciò che preserva l’opera dall’immortalità. Questo compito viene da qui in poi affidato all’ “atto creativo”, che diventa eterno pur durando una frazione di secondo.

In conclusione, contrariamente a quanto si pensa, i tagli non nacquero con l’intento di distruggere e di privare di contenuto l’opera, ma per creare una nuova dimensione. In essi non vi è volontà di imporsi al pubblico per portarlo a formulare interrogativi sociali, morali o artistici, ma è presente la necessità dell’artista di lasciare libera interpretazione all’osservatore, che riesce ad ambientarsi esso stesso nell’opera.

Giulia Pelassa

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