4 Febbraio 2021 | Vorrei, quindi scrivo
Il discorso tenuto da Liliana Segre, Senatrice a vita e sopravvissuta all’Olocausto, il 27 gennaio al Parlamento Europeo in occasione della Giornata della Memoria mi ha profondamente toccato e, pertanto, ci tengo molto a condividere il suo importante messaggio.
La Senatrice, nata a Milano nel 1930 da una famiglia ebraica e deportata ad Auschwitz assieme al padre, inizia a parlare dicendo che il 27 gennaio è solo una data, una giornata a cui è stata data un’importanza che in fondo non c’è. In realtà Auschwitz non è stata liberata quel giorno, quel giorno l’Armata Rossa vi è entrata ma i nazisti erano già scappati tanti giorni prima. Quando arrivarono i soldati russi si trovarono di fronte a uno spettacolo surreale ai loro occhi, che purtroppo ancora oggi qualcuno non vuole vedere. «Lo stupore per il male altrui, che nessuno che è stato prigioniero ha mai potuto dimenticare»: così è così descritta questa scena da Primo Levi nella Tregua.
Il 27 gennaio Liliana aveva tredici anni ed era operaia schiava nella fabbrica di munizioni Union, dove si producevano bossoli per mitragliatrici. Quella ragazzina scheletrica e disperata non fu liberata il 27 gennaio dall’Armata Rossa ma, come altri prigionieri ancora in vita, era stata obbligata a cominciare la cosiddetta “Marcia della morte”, che durò mesi e mesi: le persone deportate attraversarono la Polonia, la Germania, passarono per altri lager fino ad arrivare allo Jugendlager di Ravensbruck. In quella marcia non ci si poteva aggrappare a nessuno, bisognava camminare, una gamba dietro l’altra. Non bisognava cadere o c’era la morte. Nessuno voleva morire, anzi tutti erano pazzamente attaccati alla vita, tanto da mangiare tutto quello che trovavano. Bisognava andare avanti, camminare e camminare. Ma come si fa a sopravvivere in queste condizioni? «Perché la forza della vita è straordinaria, è questo che dobbiamo trasmettere ai giovani di oggi», dice la Senatrice. Oggi abbiamo tante paure, tante insicurezze, ma forse anche troppi vizi. Dobbiamo saper guardare avanti e combattere con tutte le forze che ci rimangono.
Poi, procede nel suo discorso dicendo che a sbagliare non fu solo il popolo tedesco, bensì tutta l’Europa occupata dai nazisti, nella quale i vicini di casa erano percepiti come dei nemici. Dove la paura faceva sì che la scelta fosse di pochissimi.
Il razzismo e l’antisemitismo ci sono sempre stati, sono insiti nell’animo dei poveri di spirito. Arrivano dei momenti in cui ci si volta dall’altra parte, in cui è più facile guardare il proprio cortile e chi vuole approfittare di questa situazione trova il terreno adatto per farsi avanti. La parola razza la sentiamo ancora oggi: ecco allora che dobbiamo combattere questo razzismo strutturale che resta.
La Segre ricorda inoltre come dopo la guerra fosse una ragazza ferita e selvaggia che non sapeva più come mangiare con la forchetta. Liliana non tralascia il dolore e il tormento portato da questi ricordi difficili, che però sente il dovere di condividere, soprattutto con le nuove generazioni, per ricordare il male altrui.
Conclude il suo commovente discorso evocando l’immagine di una bambina di Terezin che disegnò con le matite colorate una farfalla gialla che volava sopra i fili spinati. Così la senatrice lascia un semplice ma potente messaggio da nonna ai suoi “futuri nipoti ideali”: «Che siano in grado di fare la scelta [della non indifferenza] e, con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra i fili spinati.»
Alice Taricco
2 Febbraio 2021 | Stappapensieri
Da sempre la donna è soggetta a discriminazioni dal punto di vista sociale a causa della caratterizzazione negativa del femminile, una corrente di pensiero piuttosto comune non solo nel linguaggio ordinario, ma, purtroppo, anche nella storia della filosofia: in passato la mancanza di un punto di vista femminile in ambito filosofico poteva essere, in parte, giustificata dalla mentalità retrograda del tempo, che non permetteva alle donne di esercitare molti diritti fondamentali; purtroppo, però, ancora oggi il pensiero femminile è poco presente nei manuali. Da un certo punto di vista, la filosofia può essere considerata complice, se non colpevole, di tale caratterizzazione, avendo propagato la convinzione che la razionalità, intesa come capacità di produrre inferenze logiche valide, sarebbe una prerogativa esclusivamente maschile, ed escludendo in tal modo le donne dalle pratiche scientifiche e dalla sfera conoscitiva.
Aristotele, nella Politica, afferma: «il maschio è per natura migliore, la donna peggiore, l’uno atto al comando, l’altra ad obbedire». Queste parole risultano ancora più discutibili alla luce della definizione aristotelica di essere umano come animale razionale: se a distinguere l’uomo dagli altri animali è essenzialmente l’uso ragione, allora la donna sarebbe da considerarsi alla stregua delle bestie. Anche secoli dopo, nell’ambito della filosofia medievale, vediamo pensatori come Tommaso d’Aquino esordire con: «la donna è un uomo mancato, un essere occasionale», o Agostino sostenere che «la donna è una bestia né salda né costante». Secondo queste definizioni, le donne non sarebbero portate per le discipline prettamente razionali, come la filosofia e le scienze matematiche, ma fortemente legate alla dimensione delle emozioni e, dunque, all’ambito privato della casa e della famiglia.
Secondo Simone de Beauvoir il genere, a differenza del sesso biologico, sarebbe una costruzione sociale, strettamente collegata alle dinamiche e alle norme presenti nella comunità all’interno della quale ci si forma. Dunque, se la condizione di oppressione e discriminazione che caratterizza le donne fosse fondata sul loro sesso biologico, allora non si potrebbe intervenire, ma poiché si tratta di una discriminazione di genere, essa trova le sue radici, e insieme la sua correzione, all’interno della stessa società in cui si sviluppa. Nasciamo femmine (o maschi), ma le nostre pratiche sociali ci impongono di diventare donne (o uomini) e di interpretare, sulla base di ciò, ruoli differenti all’interno della società.
«Donna non si nasce, piuttosto lo si diventa»
(S. de Beauvoir, Il secondo sesso, 1949)
Anche l’etica della cura è strettamente legata all’ontologia di genere e al pensiero femminista: Eva Kittay sostiene che la politica moderna sia caratterizzata dalla rimozione del carattere vulnerabile della nostra esistenza, portando così alla stigmatizzazione della persona bisognosa di cure, e relegando alle donne il compito di prendersi carico dell’assistenza di chi non è autosufficiente, in quanto considerate più portate sulla base di un rimando alla relazione di cura che si instaura naturalmente tra madre e figlio: una relazione assolutamente non reciproca e fine a se stessa, che per molti sarebbe addirittura da considerarsi segnale di un’inferiorità anche morale, oltre che razionale, della donna. Sotto questo punto di vista l’etica della cura necessiterebbe di una teoria della giustizia, che la definisca moralmente e politicamente, poiché alimentando l’idea che la cura sia prerogativa femminile, si alimenta di conseguenza anche il pregiudizio. La questione del diritto dei soggetti più vulnerabili a ricevere delle cure, non può essere d’interesse esclusivo delle donne, ma dovrebbe essere una questione politica, riguardante ogni cittadino, e il fatto che non lo sia evidenzia una profonda problematica sociale: la disparità tra chi politicamente definisce i bisogni di cura (uomini) e chi abitualmente eroga questo servizio (donne, per lo più straniere).
Occorre abbandonare il mito dell’uomo come individuo sufficiente a se stesso: Martha Nussbaum ritiene che per risolvere i problemi legati alla cura, si debba partire dallo scardinamento del pensiero che vede l’uomo come autonomo e non vulnerabile, portando all’esclusione delle persone bisognose di cure dal contratto sociale, in quanto inabili a restituire reciprocamente quanto ricevono.
La cura è un bene fondamentale del cittadino. Occorre adottare una visione della persona che unisca la definizione Socratica di animale sociale a quella di Marx di uomo come creatura bisognosa di una pluralità di attività di vita, affrontando la questione della cura anche dal punto di vista della giustizia sociale, e, in questo modo, abbattendo gran parte dei pregiudizi che, ancora oggi, tengono la donna legata ad una dimensione privata e familiare.
Denise Arneodo
19 Gennaio 2021 | Vorrei, quindi scrivo
La felicità non è qualcosa che decidi.
Non è un paio di calze che compri in saldo.
Non è il bicchiere di vino che ti versi il venerdì sera.
E non sei nemmeno tu, che giochi nella mia vita come fosse Scarabeo: parole che s’incastrano e s’illudono di essere vere ma sono in una lingua che nemmeno riesco a leggere.
Felicita è un nome femminile ma di femminile non ha proprio niente: non ha la sinuosità di un paio di gambe che avanzavano, non ha la luce di un paio di occhi che vedono per la prima volta un tramonto dopo giorni di pioggia, non è leggera come una chioma liscia che nasconde un volto timido. La felicità non è donna.
La felicità non sono io che cerco di muovermi in questa vita.
La felicità sono io che mi fermo, in silenzio e mi guardo allo specchio. Me la disegno io, segno i contorni di un corpo che mai mi è appartenuto, magari colorato d’ambra, d’argento, con lunghe forme che sembrano sfiorare il cielo e fanno invidia ai bianchi peschi che nel tardo mese di giugno fioriscono.
Ah, che bella la felicità: è la Venere di Botticelli bruna, è la Dafne di un Bernini senza tempo, è la femmina che mai potrò essere.
La felicità non esiste.
O meglio, è un rigido orologio svizzero. Ti concede circa trenta secondi di idillio per poi lasciarti in balia del vuoto, in cui ti rompi nello specchio sul quale avevi disegnato.
Mezzanotte, non hai più tempo. Lo specchio si rivela l’amara realtà che non hai mai voluto vedere, che hai sempre sfiorato senza mai vivere, è l’insicurezza che hai voluto toglierti di dosso ma che ti pulsa in cuore, che non puoi abbandonare. La vedi la luce sullo sfondo?
Un sogno che si allontana. Sei tu che non mi hai ascoltato, che non hai voluto prendermi per mano e dirmi: «la felicità non esiste ma esisti tu con una matita in mano che fai delle tue sporgenze quel che vuoi, che fai di me che ti guardo uno spettatore silenzioso nella Galleria degli Uffizi, che mi porti a vedere una stella cadente che racchiude la vita che tieni nel cassetto sinistro vicino al letto».
Che favola immacolata, che lieto fine tanto aspettato.
Ma sono frantumi. Solo cocci sparsi su un pavimento di carta.
Tu non ci sei, non ci sei mai stato, hai suonato alla porta di casa mia e una volata di vento ti ha portato via, un’onda del mare in inverno mi ha fatto credere che pronunciassi il mio nome ma era solo una goccia in un mare in tempesta.
Un giorno mi domandai se le anime si possano scegliere: mi piacerebbe andare al mercato e comprarne una estremamente attenta, loquace, non diffidente delle idee che mi possano nascere da un sorriso, che mi guardi con quell’aria spaventata che Dorian aveva quando guardava il suo dipinto, così terrorizzata e affascinata. Ecco, quanto vorrei un’anima che mi guardi così, che abbia una paura tale da divenire folle nel guardarmi, da dirmi «non c’è volta in cui ti guarderei e insieme smetterei di guardare, mi fai tremare per l’orrore della profondità dei tuoi occhi: dentro ci ho visto le verità che non mi sono mai detto».
Un occhio che nasconde un segreto.
Ma quanta voglia hai tu di guardarmi? Nessuna.
La felicità non si decide. È un rigido orologio svizzero. Ti concede trenta secondi e poi… ti accorgi che le lancette non ci sono, che i numeri sono infiniti ed il meccanismo sei tu: ingranaggio di qualcosa che non c’è e che ti sei illuso ti potesse dar sollievo dalla consapevolezza a cui non c’è riparo per solitudine di un uomo. Uomo che contempla un susseguirsi di stagioni, aspettando la brezza di un’estate che sembra profumare di felicità ma è solo l’ennesimo gelido inverno che non lascia altro che una lacrima ghiacciata sul viso.
Ricordatelo: la felicità non esiste.
La prossima volta che devi prendere una decisione: nasci e muori sola e mai nessuno verrà a trovare la bellezza che racchiudi dietro quella lacrima ghiacciata.
Ma a volte sono solo balle. La felicità non esiste perché ce la costruiamo noi. Pennello in mano ed egoismo nell’altra, prendiamo un ricordo piatto e lo distruggiamo, lo modelliamo, lo facciamo girare a ritmo di musica. Azzeriamo l’odio, l’insofferenza, la malinconia, tutti i “avrei potuto” e ci fermiamo.
Un secondo, in silenzio.
Guardiamoci negli occhi e nelle mani, guardiamo di nuovo per ricordarci che non va sempre tutto male, che non è una vita di merda la nostra, che non solo perché perdiamo per un attimo il volante della nostra strada allora tutto andrà in catafascio. Che anche se dentro abbiamo qualche fiore del male, possiamo comunque andare in un campo di margherite, che anche se non riusciamo più a parlare, possiamo comunque ascoltare la musica e stare in silenzio, che anche se non riusciamo più ad abbracciare non vuol dire che qualcuno non ci guardi le spalle.
Ricordiamocelo a vicenda, che magari qualche volta si perde di vista ma abbiamo ancora l’arte per salvarci dai nostri pensieri.
Siamo felici, soprattutto adesso, soprattutto quando magari pensiamo di essere i soli a soffrire. L’arte non rimane perennemente la stessa, non esistono quadri riprodotti in serie: la felicità è il museo di quadri in cui ci muoviamo, non l’album di foto tutte uguali che guardiamo a lume di candela. Godiamoci le sfumature della nostra crescita, dei nostri sbagli, dei nostri segreti. Siamo tutti felicità ma dobbiamo avere il coraggio di provarla, perché a volte è molto più facile chiudersi nel dolore e nel silenzio e far finta che un quadro valga l’altro, che un profumo sia insipido e che uno sguardo sia vuoto.
Ricordiamocelo, che siamo artisti. Che a disegnare possiamo prenderla tutti la sufficienza. Magari anche con la lode.
[Ho voluto accodare ad un pezzo scritto tempo fa una continuazione, per ricordare anche a me stessa come basti togliersi dagli occhi cosa faccia male, per capire che non serva molto per trovare la propria arte. Non c’è nulla di più bello che stare nel proprio museo].
Testo a cura di cecilia Capelli.
9 Gennaio 2021 | Vorrei, quindi scrivo
Quando le chiedevi «come stai?» lei ti rispondeva sempre «un po’ così un po’ cosà», era un animo impenetrabile con una risata contagiosa e l’amore per la musica che l’ha da sempre contraddistinta. Amava tutti senza fine, era fragile e aveva tante paure ma era sempre pronta a far di tutto pur di non far soffrire qualcuno. Un’amica fedele con cui condividere i segreti più intimi, una donna che non sapeva amarsi abbastanza perché pensava sempre prima al bene degli altri, l’essere umano più dolce e generoso della Terra. Cuoca infallibile da cui tutti imparavano nuove ricette ma nessuno è mai riuscito a raggiungere il livello dei suoi piatti, era come se ci fosse sempre un tocco magico in più.
Oggi se le chiedi se va tutto bene cade il silenzio, non lo sa neanche lei, si guarda intorno in cerca di una risposta e qualche volta riesce a dire un debole sì. Se accendi lo stereo e c’è la sua musica preferita, inizia a canticchiare sottovoce delle parole e quel momento vorresti che non finisse mai. Non si può tornare indietro a quelle conversazioni così preziose e profonde che conservo nel cuore come un ricordo indelebile. Ormai non c’è più niente di lei, la sua anima è volata via. Il signor Alzheimer se l’è portata via quando più ne avevo bisogno. Ora ci sono solo il suo corpo, la sua presenza e il silenzio. Un silenzio assordante che la ingabbia nei suoi pensieri e lascia solo tanta rabbia intorno. È un processo lento che non sai quando o come finirà ma sai che non c’è modo per arrivare ad un lieto fine. Puoi rallentare il processo con delle medicine che però per il signor Alzheimer non sono altro che caramelle gommose.
Piano piano tutti quei piccoli gesti quotidiani che si considerano normali e facili diventano un’impresa. Bisogna essere forti a starle vicino, avere pazienza e soprattutto tanto amore. Là dentro in quel silenzio assordante deve essere una galera: poter sentire tutto ma non poter dire niente, capire tutto ma non riuscire a rispondere. Deve essere come stare in una bolla, senti tutto molto lontano, attutito e non ci sei mai veramente. Confusione, incertezza e smarrimento si percepiscono incrociando il suo sguardo. L’unica cosa che il signor Alzheimer le ha lasciato è il sorriso, ogni tanto sfoggia ancora la sua dentatura splendente.
Forse non le ho mai detto abbastanza quanto sia incredibilmente importante per me: grazie per essermi stata accanto e avermi amato così tanto. Ora è il mio turno, mi prenderò cura di te.
Se anche a voi Mr. Alzheimer ha rubato una persona cara, non siete soli, armatevi di tanto coraggio e dategli una bella lezione. Buona fortuna!
Alice Taricco
5 Gennaio 2021 | Stappapensieri
«Il fine e la realizzazione della storia dell’arte sono la comprensione filosofica di che cosa sia l’arte, una comprensione che si ottiene nello stesso modo in cui si può raggiungere la comprensione in ciascuna delle nostre vite, cioè dagli errori che commettiamo, dai falsi sentieri che seguiamo, dalle false immagini che abbiamo finito per abbandonare finché non abbiamo imparato ciò in cui consistono i nostri limiti, e poi come vivere al loro interno».
(Arthur C. Danto, After the End of Art)
L’ontologia dell’arte nasce nel corso del ‘900 per applicare gli strumenti filosofici dell’ontologia (che studia ciò che è) all’ampio dominio della realtà delle forme d’arte, tentando di rispondere in maniera esaustiva alla domanda «che cos’è un’opera d’arte?» in un mondo in cui gli artisti avevano cominciato a produrre non solo tanta arte, ma anche un’arte particolare e completamente altra rispetto a quella del canone tradizionale descritto dal Vasari: come si può giustificare la presenza all’interno dello stesso dominio ontologico di opere tanto eterogenee, come la Venere di Botticelli e l’Orinatoio di Duchamp?
Nel ventesimo secolo si presenta nel mondo dell’arte un problema nuovo, un problema di concettualizzazione, di riconoscimento ontologico delle opere d’arte, per cui gli strumenti del senso comune non bastano più, e viene dunque chiamata in aiuto la filosofia. Questa nuova tipologia di produzione artistica richiede infatti un cambiamento alla radice della definizione stessa del concetto di arte, che renda possibile l’inclusione o l’esclusione normativa di un determinato oggetto dalla categoria ontologica che contiene gli oggetti artistici.
Il problema del riconoscimento ontologico delle opere d’arte non è però soltanto un problema teorico. Nella sua opera scultorea Bird in Space Constantin Brâncuși rappresenta un oggetto, ma non lo imita: la struttura affusolata riporta all’idea di qualcosa di aerodinamico, ma non rappresenta affatto un uccello come si enuncia nel titolo, ed è alla dogana per il trasporto dell’opera negli Stati Uniti che si presentano i primi problemi ontologici. I doganieri non riconoscono l’oggetto come un’opera d’arte, bensì come utensile, e lo classificano come tale, con tutti i problemi di tipo fiscale che ne conseguono: le opere d’arte, infatti, nel loro trasporto, sono soggette a tassazioni più basse rispetto agli oggetti d’uso quotidiano. Anche Andy Warhol, con le sue celebri Brillo Boxes, è andato incontro ad un inconveniente simile. Dopo la sua prima importante esposizione a Manhattan, nel 1965 decide di esporre le sue opere anche in Canada, ma alla dogana la situazione si presenta simile e allo stesso tempo opposta a quella di Brâncuși; se in Bird in Space i doganieri non avevano visto nulla che rimandasse all’imitazione di un vero uccello, in questo caso, invece, vedono qualcosa che erano abituati a vedere tale e quale ogni giorno sugli scaffali dei supermercati, e basando la loro idea di arte sui canoni tradizionali non potevano considerare una creazione artistica qualcosa che non solo non era originale, ma una vera e propria copia in serie di qualcosa di già esistente, con limitate modifiche alle proprietà esteriori dell’oggetto. Secondo la tradizione romantica l’artista era caratterizzato da genio e originalità, e di conseguenza un’opera d’arte non poteva essere uguale a nient’altro. Le Brillo Boxes, infatti, non erano state un’invenzione di Warhol, ma di un designer che le aveva create in maniera funzionale alla pubblicità e all’utilizzo che se ne sarebbe fatto.
Il problema ontologico dell’arte è stato posto per la prima volta da Arthur Danto: l’ontologia dell’arte va ripensata sulla base del fatto che nella classe dell’arte gli artisti chiedono di inserire oggetti che al senso comune non sembrano arte, deviando irrimediabilmente dal corso narrativo che prima la definiva. Il filosofo si focalizza in una critica della filosofia dell’arte che si trova costretta a venire a patti con la caratteristica forse più imbarazzante dell’arte contemporanea, che ogni cosa è possibile, intervenendo, ma solo in maniera descrittiva, e fornendo agli artisti gli strumenti per giustificare le loro opere. Le categorie tradizionali dell’arte difficilmente riescono a dare ragione di simili produzioni: le uniche soluzioni sono creare un’impostazione normativa (complicata e limitante) che regoli in maniera netta l’appartenenza di un determinato oggetto alla categoria artistica o la sua esclusione, oppure allargare i confini del mondo dell’arte, affinché in esso vi possano rientrare anche opere che al senso comune tradizionale possono non apparire come tali.
In un secolo in cui le produzioni artistiche generano allo stesso tempo stupore e incredulità, portando gli osservatori a pensare «potevo farlo anche io!», la filosofia si rivela fondamentale risolutrice di problematiche concrete del mondo moderno, e non un mero contenitore di concetti obsoleti.
Denise Arneodo