1 Giugno 2018 | A passo d'uomo
“Il lusso della scelta, il mondo che rimane una questione aperta”
19 anni, nome di fiore, si prende cura di 4 bambine tra i 5 e i 9 mesi e altri 6 che ne hanno 12 o qualcuno di più. Ride quando le dico che non ho mai dato il latte con il biberon o cambiato un pannolino: “Da voi non ci sono bambini orfani?”.
Orfanotrofio di Tosamaganga, Tanzania centrale. 65 bambini tra gli 0 e i 6 anni, 4 malati di AIDS, tutti orfani di madre, morta durante il parto, con un padre che non può, non sa o non vuole prendersi cura di loro.
“I papà non possono dare il latte ai bambini quindi li portano qua”, mi racconta Violette, figlia di un mondo in cui la crescita dei bambini è affidata interamente alle donne che, ai nostri occhi incapaci di astenersi da giudizio, sembrano spesso troppo fredde o troppo distaccate per essere madri. Ma chi lo sa cosa vuol dire essere madre in Africa?
Anga.
Il cielo. Che non smette di farsi guardare. Le nuvole attaccate alla terra.
Il cielo, tutto intorno. Sconfinato: senza confini. Immenso. Maestoso.
Respiro per i polmoni.
Luce per gli occhi.
Infuocato al tramonto, stellato di notte, fa da orizzonte – mai da frontiera – a questa terra rossa.
Regole non scritte.
Sul dalladalla – mezzo di trasporto locale, un minivan con 9 o 12 sedili e una effettiva capacità di 30 passeggeri tra quelli seduti e i tanti in piedi – affollatissimo da togliere il respiro, con la testa piegata di lato per l’altezza sproporzionata alle possibilità del mezzo, una signora mi tocca la schiena e mi dice di passarle il mio zaino, che lo tiene lei sulle sue gambe perché tanto è seduta. La ringrazio e glielo passo.
Il vecchio che trasporta cose.
Nella città di Iringa da molti anni un tanzaniano sui 60-70 anni ogni giorno cammina per le strade della città trasportando oggetti che trova in terra o nei container di spazzatura a cielo aperto dispersi nei quartieri cittadini. Un casco da moto, una radio, una cintura stretta sui fianchi a cui ha attaccato una lunga corda che trascina altri oggetti che strisciano per terra dietro di lui come un cane fedele al suo padrone. Tubi, pneumatici, schermi di computer, cesti di vimini, sacchi di iuta, pezzi di plastica scartati nei cantieri.
Un tempo autista di bus o di camion, ora trascinatore di cose a causa di una maledizione lanciata da qualche suo parente con l’intervento di uno stregone. Mi dicono sia diventato così: pazzo e felice di trascinare oggetti per strada. La stregoneria abita i villaggi africani.
I bambini.
Le urla, i colori, i vestiti. Il loro palese bisogno di affetto, di una mano stretta, di un sorriso, di uno sguardo che accompagni la discesa da uno scivolo. I vestiti che sanno di pipì, la pelle unta di olio, i funghi che crescono tra i capelli rasati. L’amore: credi di essere tu a stringerli al petto e invece sono loro che sorreggono te – ti sei aggrappata. L’amore: pensi di dare e invece ricevi.
Ringrazio per la foto Chiara Ragno.
31 Marzo 2018 | A passo d'uomo
Sta di fianco ai carrelli della Coop perché non sempre trovo da lavorare, è difficile.
Jeans blu, felpa nera e cappellino colorato con la visiera nera.
Risata coinvolgente – saluta tutti, soprattutto chi cammina di corsa.
Cerca di racimolare qualche euro fuori dal supermercato.
Ciao. Posso fare qualcosa per te?
Ciao. Da dove arrivi?
Nigeria.
Da che città?
Perché, conosci le città della Nigeria?
No, in effetti no.
È in Italia da 5 o 6 anni, ma il suo italiano è ancora incerto.
Da noi c’è guerra, lo sai?
Scambiamo due parole, mi chiede che faccio, gli chiedo che fa, poi lo saluto. Mi incammino verso la macchina.
Aspetta, come ti chiami?
Cecilia. Tu?
Senty.
Ciao Senty.
Ciao Cecilia.
È prezioso dare un nome.
Quanto ci sembrerebbe più umana questa benedetta immigrazione se potessimo chiamare ogni donna, uomo, ragazza, ragazzo, bambina, bambino con il proprio nome.
28 Febbraio 2018 | A passo d'uomo
Quasi 95 anni di vita e passi lenti come i ricordi che sbiadiscono. Non sa cosa ha mangiato a pranzo ma gli anni della guerra sono scanditi da date e racconti puntali e precisi.
Il frigo non rende giustizia al personaggio: qualche yogurt, tanto latte e un Bisolvon sciroppo presente tutto l’anno nello scompartimento più in alto del frigo per prevenzione: da bambino ho preso una brutta bronchite e mia madre mi ha mandato ad Andora per guarire con l’aria di mare. Ma i pranzi sono sempre fuori casa con gli amici. La sera, un po’ di latte con i biscotti dopo aver preparato la cena al gatto, che si chiama Cip o Ciop, non l’ho mai capito, teoricamente Ciop è morto qualche anno fa, lui è Cip.
Nasco nel 1923 – e subito capisco che non sarebbe bastato un pomeriggio di ascolto.
Nel 1925 mio padre morì in Francia dove lavorava. Io ero con mia madre, tutto quello che avevo era lei. Nel ’27 ci siamo trasferiti da Roata Lerda a via Roma. Mia mamma lavava i panni per gli alberghi di via Armando Diaz, faceva la “lessìa” con dei grandi catini di legno, la cenere e l’acqua calda. Per lei era più comodo vivere a Cuneo perché si spostava tutti i giorni a piedi da Roata Lerda. Non so come mai non usasse la bicicletta. È venuta anche mia nonna a vivere con noi. La casa era formata da una grande stanza con una stufa al centro e tre letti, uno più piccolo per me. Un giorno stavo preparando il riso per pranzo e credevo che dovesse diventare rosso con la cottura, non sapevo si dovesse aggiungere il sugo, avevo solo 4 anni e lo avevo sempre visto al pomodoro. Vedendo che rimaneva bianco, mi sono messo a piangere a dirotto e ho spiegato a mio nonna la situazione. È stata la prima volta in cui l’ho vista ridere.
Dopo la morte della nonna nel ’29, la mamma chiede aiuto al Municipio perché non riusciva a mantenerlo. Le viene concesso di mandarlo nell’orfanotrofio di via Amedeo Rossi. Un periodo difficile, segnato dalla lontananza dalla madre e dai vermi che non passavano.
I ragazzi più grandi uscivano sempre la sera calandosi dalle finestre con delle corde. Io vedevo tutto perché la mia camera dava sul corridoio dove c’erano quelle finestre. Il direttore un giorno mi ha chiesto di dirgli da dove scappavano i ragazzi e in quale momento della serata. Io ho fatto finta di non sapere nulla. Gli ho detto che avevo paura e mi coprivo la faccia con le coperte. Allora il direttore come punizione per il mio silenzio mi mandò da un barbiere che mi rasò i capelli. Appena tornato in orfanotrofio, tutti i ragazzi più grandi vennero a ringraziarmi e a dirmi di rivolgermi a loro se avessi avuto bisogno di qualcosa.
Eugenio – Genio per gli amici – voleva studiare a tutti i costi. Dopo l’orfanotrofio si trasferisce nel seminario dei padri della Consolata di Favria Canavese. Nel 1942 torna a Cuneo per conseguire l’esame del ginnasio del liceo classico e scopre di dover partire per la leva obbligatoria. Il 10 settembre finisce con gli esami e parte per fare il soldato.
Pensa che per dare l’esame mi sono dovuto iscrivere al Partito Fascista. Senza la tessera non mi avrebbero fatto sostenere l’esame e io cosa dovevo fare?
Il pomeriggio stesso dell’esame viene assegnato al 2° battaglione Alpini di Borgo.
A gennaio del ’43 sarei dovuto partire per la Russia perché toccava alla classe del 1923. Ma è arrivato l’ordine di prepararci per un’altra destinazione, vista la disfatta nel freddo della Russia. Il 23 febbraio 1943 siamo saliti in tradotta con destinazione Gorizia. Da lì ci saremmo poi spostati in Slovenia e in Iugoslavia.
Resta a cavallo tra i due paesi fino a fine agosto, quando il suo reggimento è inviato vicino a Trento. È lì che si trovava l’8 settembre, il giorno dell’armistizio e del caos, quando lui e i suoi compagni hanno ascoltato alla radio durante la libera uscita serale il proclama di Badoglio. Nessuno sapeva più cosa fare, dove andare.
Ci avevano detto di radunarci al campo base e di aspettare l’arrivo dei tedeschi, che probabilmente avrebbero allestito un campo di prigionia per noi. Io sono tornato all’accampamento, ho cercato il mio zaino che era già stato tagliato con la baionetta da qualcuno: avevo dentro dei libri di grammatica latina e un dizionario, che ho trovato per terra rovinati. Sono andato nel magazzino, ho preso due paia di calze nuove e mi sono incamminato per tornare a casa.
Durante il viaggio si libera degli abiti militari e li scambia con i vestiti delle persone che vivevano nelle case incontrate lungo il percorso. Si uniscono a lui alcuni compagni di viaggio, con cui arriva fino a Gorgonzola, dove decide di salire sul treno direttissimo Venezia-Milano, trovando posto in prima classe, in un treno completamente affollato di sbandati che facevano ritorno a casa.
Ad un certo punto il treno si ferma e salgono i tedeschi che stavano cercando noi sbandati. Una signora, seduta vicino a un suo amico, mi dice di infilarmi sotto il loro sedile: loro si sarebbero messi i giubbotti sulle gambe in modo da nascondermi. Il piano funziona: sale un comandante delle SS, io lo vedevo da uno spiraglio, chiede ai passeggeri dove siano diretti e se ne va. Alla stazione di Milano continuo a seguire la signora, che mi porta con sé fino a Biella, dove abitava. Una volta giunto lì, ricordo solo di aver dormito per un giorno intero. Quando mi sono svegliato, una ragazza stava medicando i miei piedi, pieni di piaghe dovuti ai tre o quattro giorni di cammino continuo. Poi mi hanno dato abiti nuovi, una cartella con dei libri scolastici ed un biglietto del treno per Cuneo. Dopo la guerra sono tornato a Biella con mia moglie per cercare quella signora e ringraziarla per il suo aiuto, ma non sono stato capace di ritrovare la casa. E questo mi rincresce ancora oggi.
Dopo il ritorno a Cuneo dalla mamma e un periodo di lavoro presso la Stipel, matura la scelta di prendere la via delle montagne insieme ai partigiani. È una mattina di gennaio del ’44 quando decide con un amico di andare a piedi fino a Valgrana, dove si unisce ad un gruppo di circa sessanta partigiani. Qualche giorno dopo assiste e prende parte all’eccidio di Valgrana, ma si mette in salvo con il suo gruppo ritirandosi verso Cervasca. Il suo comandante era stato ferito alla gamba da un proiettile di rimbalzo quindi si fermano per circa un mese in una borgata di case abbandonate sopra Vignolo.
Torna per qualche mese a Cuneo ma, dopo esser stato catturato dai repubblichini, scappa e trova nuovamente rifugio tra i monti, questa volta in Valle Stura, dove rimane fino alla fine della guerra. A questa parte della sua Resistenza appartengono i ricordi più dolorosi, accompagnati da una voce spezzata e qualche lacrima che riga il viso stanco.
Eravamo oltre il colle della Lombarda, sul lato francese delle montagne. Attraverso la strada e vedo un gruppo di nove tedeschi dirigersi verso di noi, seduti sui muli e pieni di armi. Io subito grido: Angelo, ci sono i tedeschi, scappa! Loro ci vedono e iniziano a spararci addosso. Io, il mio amico Angelo e il brigadiere dei carabinieri ci siamo nascosti in un canale dove eravamo protetti dalle raffiche dei mitra tedeschi. Siamo saliti di corsa fino al distaccamento dove c’era una mitragliatrice Breda con uno di guardia che però non si era reso contro dell’attacco e non aveva aperto il fuoco. Io e il brigadiere abbiamo preso l’arma e ci siamo spostati nel vallone ma appena ci siamo fermati i tedeschi non c’erano più.
Mi racconta dei compagni morti e del ferito caricato su un camion insieme ai cadaveri e trasportato a Vinadio.
I due ragazzi meridionali avevano 19 anni. Uno dei due quel giorno avrebbe dovuto rimanere in punizione legato al palo al distaccamento ma il comandante gli ha detto di scendere in città con noi. Avevano con sé un mitra cecoslovacco con un piccolo difetto: se la piastrina dei proiettili non era perfettamente diritta, si inceppava. Così deve essergli successo e i tedeschi li hanno individuati: li abbiamo trovati con due buchi enormi nella schiena. Gli altri due ragazzi invece avevano dei colpi di proiettile nel petto, sparati a bruciapelo dai tedeschi che hanno usato le loro stesse pistole.
Il peso di questi racconti mi porta a pensare alla spensieratezza della mia vita.
Non ho mai dovuto interrompere gli studi per il servizio militare, non ho mai dovuto smettere di inseguire i miei obiettivi per il rischio di essere imprigionata, non ho mai dovuto camminare per quattro giorni di fila per non essere catturata dai nemici, non ho mai neanche avuto nemici. Non ho mai raccolto i cadaveri di quattro miei amici, non ho mai dovuto sparare ad un essere umano.
E non è tanto l’ascoltare questi ricordi faticosi a farmi male – qualsiasi racconto di un’esperienza di dolore genera empatia e condivisione del peso – quanto più il pensiero che siano ancora eventi quotidiani per migliaia di ragazze e ragazzi nati dalla parte sbagliata del Mediterraneo, vissuti in questo stesso momento in cui io respiro, in questo preciso istante in cui tu stai leggendo.
30 Dicembre 2017 | A passo d'uomo
Frutta, verdura e maionese. Un frigo essenziale quello di Viola, badante rumena di 46 anni, a Cuneo da 7.
Io compro le cose da mangiare ma mangio solo quando mi ricordo. Se mi alzo la mattina alle 5 per andare a lavorare mangio per non cadere giù, come si dice.
Mandarini, banane, insalata confezionata, cipolle, limoni, verza, peperoni e carote. 3 o 4 barattoli di maionese. Una confezione di pesce. Una bottiglia di Coca-Cola e una di spumante.
Sono vegetariana da 26 anni. Quando ero giovane mi sentivo sempre stanca. Non ero più grassa di adesso, solo 3 o 4 kg in più, ma avevo il colesterolo alto. Per stare meglio ho deciso di cambiare alimentazione. Mangiavo male perché quando dovevamo fare gli straordinari al lavoro i capi ci portavano pizza e energizzanti. Ma questo non mi faceva bene. Anche perché era tutti i giorni così.
Viola arriva in Italia nel 2002, quando dalla lira siete passati all’euro. Dopo svariati lavori in fabbriche italiane e tedesche in Romania nella sua città Sibiu, trova lavora in un hotel di Firenze grazie alla sorella. Si trasferisce lì per tre mesi e poi torna a casa. Fa avanti e indietro molte volte perché all’epoca non era possibile rimanere per più di tre mesi consecutivi in Italia. La Romania non era ancora nell’Unione Europea.
Mio marito si è indebitato con una banca perché ha chiesto un prestito per ristrutturare la casa di sua mamma. Per prendere i soldi ha messo come garanzia la casa dove viviamo, che però è della mia famiglia. Io ero d’accordo perché volevo aiutare mia suocera. Però erano davvero tanti soldi. Adesso mancano ancora più di tre anni di pagamenti e se non paghiamo ogni trimestre, la banca si prende la casa.
Intrappolata dai debiti del marito. Consapevole ma pur sempre in gabbia.
Ho sempre trovato lavoro in Romania e ho sempre cercato di lavorare tanto. Anche in Italia l’ho sempre trovato. Però ho rifiutato quando mi hanno chiesto di andare a letto con qualcuno.
No aspetta. Cosa? Ti hanno chiesto di prostituirti?
Sì certo.
Mi dimentico sempre che noi cuneesi siamo capaci di far finta che alcuni fenomeni semplicemente non esistano. Tipo la prostituzione. Ma anche le nostre strade sono popolate di ragazze nigeriane o est europee, e così alcune case in Cuneo vecchia. E le nostre strade sono popolate di altrettanti clienti di queste ragazze. Ma è talmente tipico pensare che sia qualcosa che non ci riguarda che mi stupisco di questa offerta di lavoro che ha ricevuto. Ah, dolce ingenuità sabauda.
Ho incontrato delle persone che mi hanno detto: Conosco un lavoro molto pagato ma prima devi venire a letto con me. E io gli ho detto: No grazie, vai, questa è la strada.
Ha fatto per tanti anni la badante. Mi viene da chiederle se le piace come lavoro.
Dipende dalle persone.
Mi racconta della signora Maria, che era malata di Alzheimer e aveva bisogno di due badanti perché non camminava più e non dormiva mai. La malattia della signora l’aveva resa violenta con loro. A volte le prendeva a schiaffi. Spesso le insultava o le sgridava. Ma c’era anche una parte più tenera e ogni tanto si lasciava scappare dei complimenti.
Con me è andata diversamente perché la signora mi ha presa come una bambina quindi mi mandava a scuola, mi metteva a fare i compiti oppure a cantare. Lei cantava benissimo e io le sembravo solo una ragazzina. Durante il mio primo giorno la signora doveva andare in bagno e io dovevo portarla. Allora l’ho presa dalla poltrona, l’ho messa sulla carrozzina e l’ho accompagnata.
Ma hai improvvisato i movimenti?
No perché in Romania facevo volontariato con persone anziane e con persone disabili quando uscivo dal lavoro. Ad un certo punto l’altra badante è tornata in Romania perché non ce la faceva più. La signora Maria la sgridava sempre. Allora sono rimasta io, 45kg, da sola con la signora in una villetta di più piani per 8 mesi. Sono stata fortunata perché riuscivo a calmarla e a tranquillizzarla. Le tagliavo i capelli, le facevo la tinta: era una signora bellissima e molto curata. Di notte aveva paura e urlava di continuo. Io andavo da lei e le parlavo per farla calmare. Ogni tanto mi insultava e mi diceva: Sei una zingara. Io facevo finta di non aver sentito e le dicevo: Cosa? Allora lei mi diceva: Sei brutta! E io ci scherzavo su, le rispondevo ridendo: Ah grazie!! Ma sapevo che era dovuto alla malattia, non aveva senso prendersela. Anche perché poi dopo dieci minuti mi diceva: Che bella che sei!
Ora Viola fa diversi lavori. Quasi tutte le mattine si occupa di un anziano, alcuni pomeriggi guarda dei bambini oppure fa le pulizie. Non ha molto tempo libero. Ma quello che ha lo trascorre principalmente da sola.
Quando vengo a casa dal lavoro cosa faccio? Pulizia, per non annoiarmi. La domenica vado a messa, ogni tanto vado a fare la spesa, faccio delle passeggiate con la musica nelle orecchie. Sono una persona solitaria, ma ero così anche in Romania. Mi manca la mia famiglia, certo, soprattutto i miei bambini, anche se ormai non sono più bambini perché hanno 20 e 25 anni. Se vedi, in casa non ho nessuna foto perché sono malinconica. Io li chiamo sempre, parlo con loro, ma cerco di sopravvivere alla distanza per non uscire di testa. In fondo sono qui per un lavoro e non mi ha obbligato nessuno. Sono forzata a restare perché non si può giocare con una banca. E adesso anche mia figlia è all’università. Mio figlio grande l’ha già finita, ora lavora e mi aiuta. Ma io non voglio chiedergli soldi. Ha 25 anni, sono io che dovrei aiutare lui, non il contrario. Però io faccio sacrifici perché sono bravi, se lo meritano. Studiano e si impegnano. Io posso tornare anche domani in Romania e trovare subito un lavoro però là non guadagno abbastanza: è questo il problema. È difficile stare qua però mi va bene di fare un sacrificio per la mia famiglia.
Penso alla parola che ha ripetuto più spesso.
Sacrificio: dal latino “sacrum facere”- fare un atto sacro. Questo è esattamente quello che fa Viola. Una vita di corsa, poco cibo e poche ore di sonno, 4 o 5 lavori insieme per saldare il debito del marito e far studiare i suoi “bambini”. Ho conosciuto Viola come badante ma scopro ora che è innanzitutto e soprattutto una mamma.
7 Dicembre 2017 | Senza categoria
Un esperimento: prendere due città a caso nel mondo e confrontare alcune delle loro particolarità. Due città che non hanno nulla in comune, tranne me.
Cuneo, nel cuore del Piemonte, e Iringa, nel cuore della Tanzania centro meridionale, sono posti che ho abitato, luoghi in cui ho vissuto. E ora mi ritrovo a cercare un po’ di Africa qui in Italia, mentre, quando ero là, mi scoprivo spesso alla ricerca di un po’ di Italia in Africa. Dopotutto, prima di fare proprio qualcosa di molto diverso da quello
a cui si è abituati, si tende sempre a ricercare ovunque ciò che sa di casa. Qualcosa che ci faccia sentire appagati come sanno fare solo le montagne che incoronano Cuneo nelle limpide giornate invernali, quando la nebbia tenta di nascondere le cime innevate ed i raggi di sole la sfidano con arroganza. Camminando nel centro di Cuneo mi sento innanzitutto
molto sola. Ho i miei spazi. Posso muovermi liberamente, senza scontrarmi con qualcuno ogni tre passi. A Iringa questa sensazione si prova solo a qualche kilometro fuori dal centro città. La gente, in centro, si riversa in strada, e se deve passare non chiede il permesso. Semplicemente passa. E saluta. Da quando sono a Cuneo, accolgo sempre con grande stupore i saluti di chi non mi conosce, ma mi dice ciao. Se per sei mesi la normalità è stata accennare qualche parola in swahili per augurare una buona giornata, adesso la normalità è passare accanto alle persone, come se la loro vita non mi riguardasse. Come se non avessi bisogno di un loro saluto. Come se, ormai, sentire di appartenere ad una comunità cittadina fosse un concetto medievale.
Il mercato è il luogo in cui avviene la vita, in Africa. È il luogo massimo del ritrovo, è dove si incontrano gli altri.
I mercati hanno un luogo fisso, con le stesse persone negli stessi banchetti, sempre. I prodotti venduti sono cibo e, in alcuni casi, utensili per la cucina o vestiti, ma solo nei mercati più grandi. In quelli di quartiere o di villaggio si trovano soltanto frutta e verdura. Le verdure sono perfettamente ordinate una sull’altra, per comporre piramidi di pomodori o di carote. I frutti sono minuziosamente posti uno accanto all’altro, arancia su arancia, avocado vicino ad avocado fino a formare una composizione circolare in un cesto di vimini. C’è cura nei prodotti esposti. Devono essere accattivanti, e poi si può discutere del prezzo. Va contrattato, non c’è niente da fare. Per quanto poco tu possa conoscere la lingua locale, in questo caso lo swahili, i numeri sono la prima cosa utile da imparare per non essere in una situazione di svantaggio nei confronti dei venditori. Il caos è una prerogativa del mercato, sia esso a Iringa o a Cuneo. Ma il caos di Iringa è un caos coinvolgente. Ti senti parte della vita che scorre, ti senti riempito dai colori delle stoffe che indossano le signore che vendono i propri prodotti. Forse perché sei ospite, forse perché sei bianco e sei guardato da tutti, forse perché tutti sanno che hai più soldi di un comune venditore di piselli e vogliono che tu, quel giorno, compri da loro. E sentirsi parte della vita che scorre nel mercato ha un significato preciso. Vuol dire che il giorno in cui hai deciso di cucinare le melanzane alla parmigiana e fai la spesa nel mercato del quartiere – se così si può definire – in cui vivi, che proprio quel giorno è sprovvisto di melanzane, finirai con l’attirare l’attenzione di tutto il mercato per trovare l’unico banchetto che ha qualche melanzana da parte.
E va proprio così: i venditori iniziano ad urlarsi da un banco all’altro, chiedendo se qualcuno ha le melanzane quel giorno oppure no. E ti prendono letteralmente per mano e ti portano da un angolo all’altro del mercato-labirinto in cui sei finito fino a trovare il ragazzo che, secondo il vicino di banchetto del venditore a cui ti sei rivolto per primo, ha le melanzane. E così le compri, per altro andate anche un po’ a male, e puoi cucinarti la parmigiana quella sera stessa.
Ma anche il mercato di Cuneo ha il suo fascino. Attira persone da tutto il Comune, e non solo. I pullman di francesi che ogni martedì approdano nell’altipiano non mancano mai. E quindi si cammina tra i diversi banchi sentendo parlare un po’ italiano, un po’ piemontese e un po’ francese. Se penso al mercato mi vengono in mente le giornate estive dell’adolescenza, in cui andarci in bici era una specie di rituale di passaggio verso il mondo dei grandi. E provare vestiti su vestiti, tutti uguali da un banco all’altro, e non trovarne neanche uno che stesse bene. Passeggiare in via Roma scortati sui due lati dai banchi dei venditori trasmette un senso di protezione, nonostante anche lì ci sia del caos, ma è un caos piemontese, stazionario, ordinato, rispetto alla corrispondente versione africana. E se proprio si vuole evitare il contatto con la marea di gente che si riversa in via Roma nei martedì di sole autunnale, basta camminare sotto i portici. Vanto sabaudo, elemento tipico piemontese, porto franco per i camminatori seriali nei giorni di pioggia. Anche i portici sono un luogo di incontro, e sono quanto di più lontano esista da una città tanzaniana come Iringa. I portici nascono dall’esigenza di edificare abitazioni sopra le botteghe, sviluppando verticalmente la vita sociale, che andava a mano a mano crescendo, costruendo piani su piani negli edifici di via Roma, prima, e corso Nizza, poi.
Anche i mezzi di trasporto meritano un confronto. La prerogativa dei pullman nelle ore di punta, sia a Cuneo sia a Iringa, è l’essere sempre completamente pieni. Da non riuscire a muoversi e respirare. Nei pullman arancioni si sta schiacciati, ma si respira. A Iringa i pullman sono dei pulmini con nove sedili dietro e due davanti, di fianco al guidatore. I posti totali sono 12, autista compreso, ma mediamente si sta sopra in 25. Le regole della fisica non valgono per gli spazi africani. In posti dove mai avrei immaginato potesse starci un essere umano, gli africani riescono a farne stare almeno due e un sacco da 25 kg di patate. Ovviamente si rinuncia al proprio spazio vitale. E si rinuncia alla comodità e a qualsiasi possibilità di movimento. Se sei seduto, tre volte su quattro qualcuno ti appoggia sulle gambe una borsa oppure un bambino. Se sei in piedi, puoi fare lo stesso tu con chi è seduto, mettendo il tuo zaino sulle cosce del malcapitato vicino a te, senza chiedere niente. Si fa così. Molto spesso mi è capitato che fossero proprio le persone sedute a offrirsi di tenere la mia sacca oppure le mie borse della spesa. E le fermate esistono, ma se hai bisogno di scendere in un posto lontano dalle solite fermate, basta chiedere. L’autista si fermerà. E lo stesso concetto vale per quando si vuole prendere il pullman. Bisogna solo accertarsi che vada nella direzione desiderata, e poi è sufficiente un cenno con la mano per far fermare il mezzo di trasporto anche lungo la strada principale, dove macchine, camion e autobus sfrecciano piuttosto veloci. Più di una volta i pulmini, che in Tanzania si chiamano daladala, hanno fatto un pezzo di retromarcia per farmi salire. E per pagare il prezzo del trasporto si aggiustano i conti direttamente sopra. Infatti c’è sempre un ragazzo che si occupa di aprire e chiudere la porta, chiedere alle persone lungo la strada, urlando, se hanno bisogno di un passaggio, riferire ad alta voce le fermate principali, dicendo all’autista se e dove fermarsi. È sempre lui che chiede i soldi della tariffa, senza proferire parola ma soltanto usando il ticchettio delle monete che tiene in mano e che porta sotto gli occhi dei passeggeri, i quali conoscono quante monete devono lasciare e le tengono preparate in tasca o in un pezzo di stoffa nascosto nella gonna.
Ma anche i pullman arancioni o blu che girano per la provincia Granda hanno il loro fascino. Maestosi, un po’ scassati, pieni nelle ore di punta e deserti nel resto della giornata. Uno ogni ora, all’incirca. Sono nate e morte amicizie al loro interno, nei viaggi di ritorno a casa dalle superiori. Perennemente con l’ansia di aver dimenticato l’abbonamento, che, in realtà, viene controllato al massimo tre volte in tutto l’anno scolastico. Il timore di dimenticare lì sopra la sacca delle scarpe da ginnastica o il dizionario di latino dopo la versione in classe. Questi pullman finiscono per essere un rifugio per gli studenti, un vero e proprio momento rituale quotidiano. Insomma, sono molto più di un semplice mezzo di trasporto. E questo è molto diverso dal corrispondente tanzaniano, perché sotto l’equatore i pulmini non sono altro che un modo come un altro per arrivare più velocemente a casa, ma il mezzo di trasporto preferito restano i piedi.
*Questo articolo è stato tratto dal decimo numero del magazine di 1000miglia, scaricabile al link https://www.1000-miglia.eu/wp-content/uploads/2017/11/1000MIGLIA-MAGAZINE-NOVEMBRE-2017.pdf
Foto di Chiara Ragno e Alessia Actis