24 Giugno 2019 | Vorrei, quindi scrivo
Il 13 giugno è uscita in 26 sale italiane la pellicola di Agustina Macri “Soledad”, che racconta la “Vita urgente” di Maria Soledad Rosas, suicidatasi dopo esser stata ingiustamente accusata, insieme al compagno Edoardo Massari, di ecoterrorismo contro la TAV. Il film, accolto da forti contestazioni, non sarà proiettato a Torino… Ma è un importante spunto per riflessioni profonde, in un mondo che si rifiuta di condividere e lottare.
Antigone:“Non sono nata per condividere odio, ma per amare con chi ama.”
Antigone, Sofocle
Era il 22 giugno del 1997 quando Maria Soledad Rosas, ventitreenne, arrivava in Italia con l’amica di famiglia Silvia Granico. Giunse a Torino affamata di vita, con uno zaino carico di sogni e Amore… Ma lei, forse, nemmeno lo sapeva. A Buenos Aires aveva lasciato una famiglia affettuosa ma opprimente, qualche frequentazione sbagliata e gli errori universitari. Fu per caso che, alla ricerca di un tetto, conobbe un gruppo di squatters torinesi, di cui anche Edo, “Baleno”, faceva parte. Iniziò a partecipare alle loro attività, forse senza troppa convinzione, indecisa, confusa e imbarazzata durante le manifestazioni di dissenso alle forze dell’ordine: seguì semplicemente la corrente delle altri voci. Poteva essere una fase, scandita dalla neonata relazione con Baleno. Ma non sarà così.
Il loro fu un Amore con la A maiuscola, libero da etichette, convenzioni sociali, di quelli che danno la vita a idee e sogni, che si rifiutano di ingabbiarsi in una conversazione sterile al tavolo di un ristorante, che nascono da ideali condivisi e vogliono restituire altrettanto amore alla comunità. Un amore che si può provare solo a vent’anni e con un’anima pura. Vivo, appassionato, figlio di un Credo, non per forza giusto o sbagliato, ma vissuto.
Sole e Baleno furono arrestati nel marzo 1998, durante un blitz della polizia all’Asilo Occupato di Collegno, e accusati ingiustamente degli attentati alla Torino – Lione. Qui, tra le mura del carcere Le Vallette di Torino, Sole smise di essere una ragazza come tutte le altre, maturando un pensiero razionale e articolato come mai prima aveva fatto. Il 4 marzo del 1998, Maria Soledad Rosas diventa un’eroina tragica: sola di fronte alla giustizia, all’ignoranza e al disinteresse di chi viveva nell’illusione del benessere. Sola perché Baleno l’aveva abbandonata il 28 marzo del 1998, impiccandosi nella sua cella.
Sole si uccise l’11 luglio 1998, a Bene Vagienna, nella comunità Sottoiponti, dove stava scontando i domiciliari.
La bellezza di quest’opera prima di Macri sta nell’assenza di una definita retorica politica. La regista, figlia del presidente Argentino, riesce a regalarci, con un linguaggio diretto e semplice, un film che ha il pregio di non perdersi in dialoghi teatrali e che esprime intere pagine del libro da cui è tratto (Amore e Anarchia, Martìn Caparròs, Einaudi) in poche immagini.
Il contesto storico si presenta attraverso la ricostruzione accuratissima della Torino degli anni ‘90, tra telefoni, manifesti e costumi, senza perdersi in descrizioni didascaliche della scena politica ed economica dell’epoca. Al tempo stesso, il romanzo di formazione di Sole, irrompe con tenerezza e forza tra i muri grigi della Torino Industriale. Non c’è denuncia nei confronti di nessuna delle parti, e i personaggi esprimono i concetti a cui sono associati nelle loro contraddizioni. Il suo suicidio fu un gesto di immenso valore politico, più di qualsiasi adesione partitica. Fu una decisione libera, pensata, sofferta, dignitosa e, credo, non del tutto legata alla perdita affettiva di Baleno. Fu, purtroppo, l’unico gesto possibile dopo la morte del compagno di vita e di Lotta. Soledad non sarebbe mai potuta tornare libera, lasciandosi inghiottire da un mondo che non aveva saputo comprenderla e darle ciò che davvero voleva.
Se l’Antigone di Sofocle fosse stata scritta e ambientata negli anni ‘90, si sarebbe chiamata Sole.
Quindi guardate questo film. E riflettete su quello che volete che siano i vostri vent’anni. Perchè, oggi come allora, il cambiamento è urgente. La vita è urgente.
20 Aprile 2019 | Vorrei, quindi scrivo
Mercoledì 24 aprile, il Centro della Memoria – Archivio Storico di Savigliano racconta la Resistenza attraverso una selezione di manifesti (tra cui un celebre manifesto di propaganda nazifascista realizzato da Gino Boccasile), documenti, fotografie, manufatti e videointerviste.
Quando la Storia si studia a scuola, tutto sembra intrappolato tra le pagine dei libri. Quelle fotografie in bianco e nero sono un fermo immagine, lontano nel tempo e nello spazio. Ma la Storia non è Trattati né date da ricordare: è scritta dalle persone, ed è nostra, di tutti noi. L’Archivio non è soltanto un luogo fisico, ma un mondo parallelo in cui i personaggi del passato tornano in vita, i loro volti nelle fotografie diventano più nitidi, più simili ai nostri. Questa è la sensazione che si ha nell’osservare la documentazione del Biennio ‘43-‘45, che l’archivio storico di Savigliano esporrà mercoledì 24 Aprile, durante una consultazione guidata, in occasione della Festa della Liberazione.
L’8 Settembre 1943, Badoglio annunciò via radio l’Armistizio e le truppe italiane attive su tutto il territorio iniziarono a disperdersi, mentre da Sud avanzavano gli alleati e il Nord era in mano ai tedeschi: pochi giorni dopo Mussolini, liberato dai tedeschi, costituì la Repubblica di Salò, coadiuvato dal segretario del partito, Pavolini.
Le fonti sono i ricordi di chi la Resistenza l’ha vissuta, di quei ragazzi nati dal 1921 al 1926, che T. Isaia, nel suo lavoro “Sappisti – La Resistenza nel Saviglianese, Savigliano, 2000”, definisce “giovani”, nonostante gli anni trascorsi.
Uomini, ma anche donne, spesso poco più che bambini, che si avvicinarono ai primi gruppi partigiani, talvolta senza la minima preparazione tecnica e l’adeguato equipaggiamento che consentisse loro di affrontare le offensive nazifasciste e gli inverni gelidi. Le loro memorie fanno parte di 14 videointerviste realizzate dal Centro della Memoria in collaborazione con la sezione saviglianese dell’ANPI nel 2010, indicizzate e consultabili sul portale www.tiraccontolastoria.san.beniculturali.it. Il lavoro di raccolta della memoria continua e, sempre nell’ambito delle manifestazioni per la Festa della Liberazione, martedì 23 aprile sarà allestito direttamente in Archivio un set per intervistare nuovi testimoni della storia saviglianese (che potranno prenotarsi telefonicamente al numero 0172711240).
Sarà possibile immergersi totalmente nel periodo che Primo Levi chiamò “il tempo remoto delle certezze” ascoltando i canti della Resistenza, riarrangiati dai grandi cantautori della musica italiana e fare un viaggio in un’Italia lontana, attraverso gli occhi dei “Ribelli”, che hanno amato, sofferto, e, per citare uno di loro, Mario Montani (nome di battaglia Oreio), non hanno fatto niente di eroico. Però di ragionato e passionale tanto. Gli eroi non nascono, lo diventano nelle varie occasioni.
In un periodo storico in cui la Memoria e la conoscenza sono sottovalutate, colgo l’occasione per ringraziare l’Archivio Storico di Savigliano nella persona della direttrice Silvia Olivero, e soprattutto chi ha combattuto, non solo con le armi, ma anche con una macchina da scrivere, un libro, una cinepresa… Affinché oggi potessimo ricordarci di come siamo diventati liberi.
28 Gennaio 2019 | Cuneo... Chi?
“Perchè fare tutta questa fatica? Per il piacere della libertà”
“Il vento contro”, Daniele Cassioli
È una grigia mattinata di novembre. I ragazzi dell’istituto De Amicis sono seduti assonnati e distratti in una sala della Provincia. Io e le mie colleghe, alla nostra prima intervista pubblica, ci chiediamo se riusciremo a mantenere alta la loro attenzione… Ma il compito non è difficile, perché quando entra Daniele Cassioli, che sta presentando il suo libro, Il Vento contro, in giro per l’Italia, gli occhi sono tutti fissi su di lui. È un atleta e fisioterapista, non un giornalista né un insegnante, ma per tutta la mattinata riesce a catturare e incuriosire con le sue storie questi ragazzi.
Nato a Roma il 15 agosto del 1986, Daniele è ventidue volte campione del mondo nella sua disciplina, lo sci nautico.
E’ un atleta paralimpico e un fisioterapista, ma, nonostante una vita già decisamente intensa, ha deciso di riscoprirsi anche scrittore, regalandoci un libro che fa lo slalom tra le sconfitte, delusioni d’amore, successi e la scoperta dell’amicizia, quella vera.
Insomma, tra le pagine de Il vento contro conosciamo un ragazzo con una forza fuori dal comune, ma al tempo stesso incredibilmente normale.
A soli 32 anni, Daniele è stato capace di guardare oltre e rendere possibile l’impossibile. Non vede con gli occhi, ma con il cuore: cieco dalla nascita, ha dovuto cercare un modo alternativo di vedere al di là della superficie e dei pregiudizi, dei limiti e delle critiche di chi ha creduto non ce la facesse, raggiungendo traguardi al di là di ogni aspettativa, distinguendo i colori nel suo buio. E in quel buio, la sua guida è stata lo sport. Insieme a buona dose di testardaggine e autoironia.
Conoscetelo insieme a noi!
Perché hai scelto di scrivere un libro?
Il libro parte da un’esperienza di qualche tempo fa: mi sono rotto una spalla e mi è stato imposto del tempo libero. In quel momento ho iniziato ad affiancare bambini non vedenti, mi sono reso conto di quanto poso si sappia della cecità, Ho iniziato a pensare e, quando i pensieri sono diventati troppo ingombranti per stare dentro la mia testa, ho iniziato a scrivere. Forse un po’ per gioco. Ho incontrato DeAgostini e a quel punto è nato il progetto. Con loro ho scelto come impostare la copertina, lo stampo che volevo dare al libro. E così è nato Il vento contro.
Il titolo “Il vento contro” può essere interpretato in vari modi. Sia dal punto di vista sportivo che come metafora della vita. Perchè lo hai scelto?
Il vento contro, elemento essenziale nello sci nautico è anche un qualcosa che ci può ostacolare. Per me questo ostacolo è stata la cecità. Di fronte a un limite, possiamo prendere due strade. Possiamo proiettarci in quel che non abbiamo, dimenticandoci di noi, di ciò che abbiamo. Oppure scegliere una strada che passa attraverso sofferenze, cadute e momenti difficili. Capita a tutti di farsi domande, di chiedersi cosa sarebbe la nostra vita se fossimo più alti, più ricchi, se avessimo altri genitori. Ci proiettiamo in qualcosa che non siamo, in ciò che non abbiamo, pensiamo che, forse saremmo meglio. Ma , come nello sci nautico, la stessa aria che ci frena ci porta in alto e può diventare l’occasione della vita.
Come hai trasformato la cecità da condanna a opportunità?
E’ successo grazie allo sport. Prima ero “Daniele che non vedeva”, “Daniele che non poteva fare alcune cose”. Il bello dello sport in generale è che permette di considerare le persone per quello che sanno fare; chiaramente bisogna allenarsi. Il mio libro parte da una sconfitta, perché è bello imparare dai punti deboli. E’ il modo migliore per crescere. Con l’allenamento, quel cieco che gironzolava sull’acqua è diventato ventidue volte campione del mondo. E’ grazie alle sconfitte che sono arrivato a vincere.
Ad oggi, se esistesse un intervento capace di darti la vista, lo faresti?
Se vedessi non sarei io, non sarei qui, non avrei scritto questo libro. Voi sareste in classe a fare storia, quindi diciamo che conviene un po’ a tutti che io non veda (ride, mentre fa passare tra il pubblico il bracciale con la scritta in breille).
Un capitolo del libro è introdotto da una bellissima citazione di Calvino: “Alle volte qualcuno si crede incompleto, ma è soltanto giovane”. E ti chiedi, poi, cosa sia la normalità, sapendo che una risposta definitiva non c’è. Sentirsi diversi, al di là della disabilità fisica, è una sensazione comune a tutti i giovani. A distanza di anni, come spiegheresti al Daniele delle scuole superiori il tema della diversità?
Da piccolino mi sentivo un po’ diverso, me ne sono accorto a scuola. A differenza dei miei compagni, avevo i libri in breille, un “alfabeto di puntini” ed è molto più voluminoso dei libri in nero, alla fine un vostro libro da duecento pagine per me si componeva di 4 o 5 volumi. La mattina non facevo la cartella ma la carriola.
E’ difficile combattere il pregiudizio del diverso, perché fa paura, ma, grazie alla curiosità, si può sapere che dietro la diversità ci sono persone. La diversità è sempre una ricchezza. Anche nello sport la diversità fa la forza, è alla base della formazione di un gruppo vincente basato sulle competenze di ognuno. E, poi, mi viene in mente il pulmino degli atleti paralimpici: la gente vedeva scendere prima quello in carrozzina, poi quello senza una mano, poi quello cieco… E pensava “Ma questi qui cosa fanno, vanno a Lourdes?!?!”
Perchè consiglieresti di leggere il tuo libro?
L’idea è quella di abbattere il tabù della disabilità, di “rendere meno ripida la montagna del pregiudizio” Il mio libro parla di tante tematiche, dal dolore di una storia finita alle avventure con gli atleti durante il viaggio in Norvegia. Il bello della lettura è avere un rapporto intimo con noi stessi. E poi ci sono io per autografare le copie, non so scrivere le dediche ma il nome sì e ho anche portato una penna multicolore!
Cosa vorresti dire a questi ragazzi, magari immaginando che tra loro sia seduto il Daniele del liceo?
Tante volte, soprattutto tra i ragazzi, il problema non è la mancanza di talento, ma la paura… La paura di sbagliare, del giudizio, di mettersi in gioco, di deludere qualcuno. La paura impedisce alle persone di esprimersi. Io quando ho iniziato a sciare ho bevuto litri e litri di acqua, prima di imparare quello che so fare. Il mio allenatore diceva che se non si fanno sbagli, non si impara. Non bisogna avere paura di sbagliare.
E’ fondamentale chiedere aiuto, perché è una grande dimostrazione di forza.
Perchè hai scelto proprio lo sci nautico?
Quando io ho iniziato c’erano ancora le cabine telefoniche, nel 1995. Vent’anni fa eravamo considerati degli handicappati, non erano tanti gli sport per disabili. Io ho scelto lo sci, ma anche lo sci ha scelto me.
In quei tre secondi di salto, quando sono da solo, mi viene restituita con gli interessi quella libertà che nella vita di tutti i giorni non ho.
Ciò che colpisce del tuo romanzo, è la spontaneità con cui parli di amicizia e amore. I sentimenti sono universali, ma com’è innamorarsi quando si è ciechi?
Alcune ragazze non si sono sentite di intraprendere una relazione con un cieco. All’inizio è stata dura accettare che la persona con cui stai bene nutra dubbi sul rapporto a causa della mia disabilità. L’importante, alla fine, è volersi bene.
Come immagini il mondo?
Il mondo lo vivi. Siamo portati a pensare che tutto passi attraverso le immagini. Nel libro, c’è un passaggio in cui parlo con una mia ex del concetto del bello. Si vive l’energia di un posto, il mondo passa anche dalle esperienze. Al ritorno da un viaggio, ciascuno di noi racconterà esperienze diverse, il bello è bello perché ci emoziona e le emozioni passano attraverso tutti i sensi. Ciò che si vede non è tutto. E’ come la copertina di un libro. Non perdere la voglia di aprire il libro.
Veniamo alla domanda che più ti sarà stata posta dai vedenti: come sono i tuoi sogni?
E’ il nostro vissuto che forma i sogni. Una persona che è diventata cieca, sogna di riuscire a vedere. Così come chi ha perso una gamba sogna di camminare, di essere in piedi. Non vedere non vuol dire fare sogni diversi. Avevo gli stessi incubi di tutti i ragazzi prima della maturità, perché si sognano le emozioni, le realtà che siamo abituati a vivere.
In un’epoca in cui siamo condizionati dall’immagine, dall’apparenza, quanto conta davvero il primo sguardo?
L’immagine è tanto e fa tanto, ma spesso pensiamo che sia tutto. Dietro c’è sempre una persona, e stiamo perdendo la curiosità del conoscere gli altri. Le nostre consapevolezze sono molto più importanti dell’immagine che diamo.
Grazie a Chiara ed Eliana. E a Daniele, alla professoressa Montemurro e ai suoi splendidi ragazzi, che hanno partecipato con entusiasmo ed educazione all’intervista. Auguro a tutti loro di riuscire a sfruttare il loro vento contrario per volare in alto.