La storia per capire, la storia per ritrovare, dove possibile, il giusto ottimismo. Guido Crainz, storico ed ex docente friulano, ha cercato di raccontare ieri a Scrittorincittà 2016, partendo dal suo nuovo lavoro “In Storia della Repubblica. L’Italia dalla liberazione ad oggi”, che cos’è per lui l’Italia di oggi, riletta alla luce di settant’anni di storia repubblicana.
Professor Crainz, nel suo libro ed in un testo precedente fa riferimento costante ad alcune “occasioni mancate” dall’Italia nel corso degli ultimi sette decenni. A cosa pensa?
“A tutte quelle situazioni in cui, a causa dei nostri errori o per ragioni di forza maggiore, abbiamo lasciato al passato ciò che, se vissuto diversamente, avrebbe potuto cambiare il nostro futuro. Occasioni, appunto, talvolta rimediabili, in altre perse per sempre”.
Un esempio?
“Nella conferenza facevo riferimento alla figura di Adriano Olivetti, un uomo, un visionario, considerato non a sufficienza dal governo italiano di quel tempo. Fu lui ad immaginare il primo calcolatore, e fu sempre lui, con il suo esempio, ad influenzare l’azione di Carlo De Benedetti, che nel 1982, mentre il Personal Compuer era insignito negli Usa del premio di “Personaggio dell’anno” davanti ad Et, lanciò il primo Pc italiano. Visioni illuminanti, forse non sfruttate appieno”.
Lei, però, fa nello specifico riferimento ad occasioni mancate e mai più rivivibili. A che cosa pensa?
“Penso alla situazione economica che coprì il quasi trentennio 1945-1973: si stava crescendo e non lo si comprese fino in fondo, sfruttando poco quella congiuntura internazionale. Quella fase è stata di così sviluppo straordinario, che l’idea della redistribuzione della ricchezza sembrava essere sufficiente per l’ottenimento di un benessere generale. Ci si aspettava uno sviluppo continuo e si marciò in questa direzione, fino alla crisi petrolifera del 1973 che risvegliò un po’ tutti”.
Alle condizioni economiche fanno da contraltare, però, gli aspetti prettamente culturali…
“E sono proprio gli aspetti culturali a potersi modificare nel tempo. Nel 1951 in Italia meno dell’8% delle case italiane erano dotate di tutti i servizi. Nel giro di un decennio cambiò tutto, perché per un Paese in quelle condizioni, uno sviluppo di quel tipo non poteva che rappresentare un qualcosa di irripetibile. Sono le energie delle persone, però, che vanno comprese fino in fondo e che posso indirizzare lo sviluppo futuro di una nazione: mentre i giornali d’Oltremanica parlavano ormai da tempo di “miracolo italiano”, alla fine degli anni ’50, il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi metteva in guardia da facili miracolismi, evidenziando una sorta di miopia della classe dirigente che ha poi avuto delle ricadute sullo sviluppo futuro. Del resto, anche la generazione del ‘68 era bollata, fino a qualche giorno prima delle contestazioni, come la generazione delle 3 M, “Macchina, moglie e mestiere”. I presupposti molto spesso ci sono, manca solo la capacità di vederli”.
Spesso, proprio in relazione a queste sue interpretazioni della storia repubblicana, è stato etichettato dai critici come uno storico “pessimista”. Alcuni suoi colleghi, invece, tendono a vedere nell’ultimo settantennio italiano l’esito di un miracolo che porta il nome di Costituzione. Utopia?
“No, su questo punto non c’è dubbio. Ciò che è evidente è però che i padri costituenti si dimostrarono certamente più visionari dei politici protagonisti degli anni successivi. Emblematico è il dibattito sulla parità uomo-donna, a cui il testo costituzionale fa riferimento. Benché in parte già messo in chiaro nel 1948, si dovette attendere il 1963 per vedere le donne in Magistratura e addirittura il 1973 per porre fine al patriarcato. La Costituzione, insomma, fu sì un miracolo, ma anche il frutto delle discussioni successive, che avrebbero potuto portare ad esiti diversi, in base al grado di apertura della società. Le sentenze con cui la Corte Costituzionale confermò la legittimità della disparità uomo-donna sono illuminanti in questo senso: il cavallo di battaglia era il concetto secondo cui i costituenti, secondo l’opinione dei giuristi, avrebbero certamente riservato alla legislazione, in base al “sentire comune” di una data epoca, il compito di interpretare il rapporto tra i sessi, e che quindi, nel pieno degli anni Sessanta, non ci fossero ancora i tempi maturi per vedere parificati i diritti di genere. Insomma, i principi espressi dalla Costituzione, seppur eccezionali, hanno poi dovuto affrontare la prova della discussione, non sempre così semplice”.
La storia, quindi, è fonte di interpretazioni che debbono anche avere il compito di ammonire la società del presente. Dove si può cambiare oggi e quali sono le occasioni da non perdere, soprattutto per noi giovani?
“Forse non sono la persona adatta per ritrovare ragioni d’ottimismo nel presente (ride, ndr). Detto questo, e tenuto conto dei pochi spiragli di luce che si intravvedono pensando al futuro, credo che per prima cosa si debba tenere conto del fatto che giovane non è sinonimo di corretto. Per fare un esempio, parafrasando le parole dell’ex direttore de La Stampa Mario Calabresi, il Movimento Cinque Stelle aprì l’autostrada della politica ai giovani, a differenza di quanto non avevano fatto fino a quel momento gli altri partiti, nel 2013. Non si sono viste, però, grosse innovazioni. Essere giovane non dà per scontati gli elogi, che vanno meritati, pur tenendo conto delle difficoltà affrontate oggi. Si pagano, innanzitutto, gli errori delle generazioni precedenti, un limite che si perpetua nel tempo: già nel 1985, Giovanni Ronchey, non proprio un rivoluzionario, accompagnò una protesta di studenti delle scuole superiori con l’eloquente titolo “I figli del trilione”, facendo riferimento al debito pubblico che quei ragazzi avevano sulle spalle. Nulla di nuovo, insomma, sotto il sole”.
Quando lo sport, che spesso ha saputo raccontare l’irrazionale con le imprese dei suoi protagonisti, ed il cinema, strumento ideale per mettere a nudo l’immaginazione dell’essere umano, si incontrano, non può che nascere qualcosa di eccezionale. È questa l’ultima lezione che la cronaca quotidiana ci ha dato, stupendoci ancora una volta. Già, perché dalla nottata di ieri i Chicago Cubs, una delle più gloriose franchigie del mondo del baseball all’americana, sono i nuovi campioni in carica delle World Series, la massima competizione legata alla mazza, dopo aver sconfitto in finale i Cleveland Indians al termine di una partita combattutissima, chiusa all’ultimo respiro sull’8-7. Che cosa c’entra il cinema? Ricordate la famosa serie “Ritorno al futuro” di Robert Zemeckis? Ebbene, nel secondo film della saga, uscito nel 1989, il celebre regista americano ipotizzava proprio che i Cubs vincessero nel 2015, più precisamente il 21 ottobre, il loro titolo, e che fosse Marty McFly, il protagonista, a scoprirlo, attraverso un’insegna pubblicitaria che ne celebrava il successo, in uno dei suoi tanti viaggi nel domani. Semplice colpo di fortuna con errore di un anno su un tema ovvio, si dirà, paragonabile ad un pronostico sul prossimo scudetto di una delle grandi squadre di calcio italiane o sul vincitore dei 100 metri alle Olimpiadi nelle ultime tre edizioni. Nulla di tutto ciò, però. Perché l’assegnazione del titolo ai Chicago Cubs a quasi trent’anni di distanza dal momento in cui venne registrata la pellicola, in realtà, suonava tanto come una risposta pratica alla domanda: “Allora Robert, dimmi qual è secondo te l’avvenimento più improbabile che possa accadere sulla faccia della Terra?”. I Chicago Cubs, infatti, vinsero l’ultimo titolo della loro storia nel lontano 1908 (108 anni fa!) e non arrivavano in finale addirittura dal 1945, prima di riuscirci proprio lo scorso anno, quello ipotizzato da Zemeckis nel 1989 come vincente, perdendo in finale contro i New York Mets. Insomma, per l’americano medio una World Series vinta dai Cubs era paragonabile ad uno scudetto al Crotone o, perché no, allo sbarco sul nostro pianeta degli alieni. Attribuire meriti divinatori ad un regista in azione quando nel mondo era ancora forte (ma in via d’estinzione) la contrapposizione Usa-Urss ed il mondo non aveva ancora conosciuto il web, pare forse eccessivo, ma quel che è certo è che lo sport ed il cinema hanno saputo ancora una volta sorprendere tutti, confutare l’innegabile, e raccontare al mondo un’altra storia buffa, quasi casuale ma ricca di significati simbolici. Un colpo di fortuna spaventosamente piacevole. Nulla è impossibile, Robert.
Dici lotta al razzismo e pensi a Martin Luther King. Pensi a chi per lottare contro la segregazione ha speso anni della propria vita in carcere e non puoi non immaginare la sofferenza di Nelson Mandela nelle prigioni inglesi. Ti viene alla mente che anche lo sport è stato strumento per questa lotta e ti ricordi di Cassius Clay, alias Mohammed Alì e del mito che i suoi pugni hanno rappresentato per una generazione di ragazzi di colore. C’è chi, però, senza restare nell’immaginario collettivo come gli esempi citati, ha vissuto la battaglia antirazziale convogliando in sé tutte le caratteristiche dei predecessori. Il suo nome era Rubin Carter ma per tutti fu The Hurricane, L’Uragano. Perché come un uragano i suoi pugni scagliati sul ring atterravano avversari, trasformandolo nel giro di pochi anni, all’inizio dei Sixties, in uno dei più accreditati candidati per contendersi il titolo di Campione Mondiale Pesi Medi, il massimo riconoscimento internazionale nel mondo della boxe per chi non supera i 72.57 kg di peso. Pugni sferrati con potenza, per cancellare lo scomodo ricordo di un passato segnato da furti, risse ed atteggiamenti violenti anche, e soprattutto, durante il servizio militare.
Poi, un gradino sotto il raggiungimento dell’Olimpo, quel 17 giugno 1966. Quel giorno, alle 2.30 di mattina, un triplice omicidio nel “Lafayette Bar and Grill” di Paterson, nel New Jersey, avvicinò per la prima volta ed in maniera indissolubile Rubin Carter, detto The Hurricane, e la lotta razziale. A compiere quel terribile atto, forse frutto di una rapina non riuscita, furono due uomini di colore, così dichiararono i testimoni, scappati a bordo di un’auto che, guarda caso, coincideva, per modello, a quella che Carter stava guidando, in compagnia di un amico, qualche isolato più in là. L’arresto, conseguente all’errore nel riconoscimento dei colpevoli da parte di alcuni testimoni, avvenne trenta minuti dopo. La condanna ineccepibile: carcere a vita per Carter e per l’amico Artis. Seguirono due decenni di processi, contro-processi e ritrattazioni dei testimoni, nel corso dei quali Carter, dal carcere, scrisse una forte autobiografia, intitolata “Il sedicesimo round: da sfidante numero 1 a numero 45472”, ricevendo il sostegno dello stesso Mohammed Alì e di Bob Dylan, che gli dedicò una canzone, passata alla storia, intitolata appunto Hurricane. L’ingiustizia a sfondo razziale era sotto gli occhi di tutti, così come la pressione esercitata dai giudici sui testimoni affinché riconoscessero in Carter ed Artis i colpevoli di quella notte, ma solo nel 1985 il giudice della Corte Federale Haddon Lee Sarokin sentenziò che il processo non era stato equo, in quanto fondato su un’accusa “basata su motivazioni razziali”.
Ancora una volta gli Usa, come spesso fecero in quegli anni, condannarono e rinnegarono se stessi, riconoscendo ad un uomo di sport la possibilità di tornare a respirare aria di libertà, che di uno sportivo rappresenta l’essenza. Rubin The Hurricane Carter era ormai troppo vecchio per tornare a combattere ma ricevette comunque la cintura di Campione Mondiale come riconoscimento per la sua lotta sul ring dell’ingiustizia. Gli Stati Uniti, in cui nel 1966 ancora vigeva una legge che poneva delle restrizioni legali razziste sui matrimoni, a circa quarant’anni di distanza dal caso Carter hanno eletto per la prima volta un presidente afroamericano, stendendo per ko (o quasi) un nemico colpito a più riprese nel corso dei decenni da un’infinità di pugni. Proprio come un Uragano.
La storia di Rubin Carter in film, opere e musica.
Libro: “The Sixteenth Round: From Number 1 Contender to #45472”, R. Carter, 1974.
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