La sua pagina personale di Wikipedia lo descrive così:
«Un ciclista su strada e biker italiano (…) Professionista dal 2013, ha caratteristiche di scalatore».
Sintesi nobile, degna di un campione. Di uno di quegli “olympiens”, per dirla con le parole del sociologo Edgar Morin, tanto veri quanto concretamente irraggiungibili dall’immaginazione dei bambini che ne apprezzano le gesta in televisione. Eppure, Diego Rosa, per tutti “Dieg”, è ben altra cosa.
Nato nel 1989, Diego è innanzitutto un ragazzo di ventisette anni, figlio di Corneliano d’Alba, Comune di 2087 abitanti, dove, tra i saliscendi del paesaggio tipicamente langarolo, chi ama la bicicletta diventa scalatore per obbligo. Proprio lì, il ragazzo ha posto le sue radici, per pedalare poi verso terre internazionali, dove il mare si alterna con la montagna, sua amata, e dove ogni sforzo sul sellino si mescola indissolubilmente con il mito.
Che Diego Rosa sia un campione umile, lo si può capire facendo un “salto” sulla pagina Facebook del “Diego Rosa Fans Club”, dove gli amici di sempre ne raccontano le imprese e le fatiche ma anche i momenti semplici, quelli in cui, proprio con gli amici, si prende delle meritate pause o fatica sulle “sue” strade in compagnia. Lo si intuisce, però, anche avendoci a che fare, magari per un’intervista – come nel nostro caso –, in cui Diego, in totale libertà, si è divertito raccontandoci quali sono stati i passi che lo hanno portato in meno di quindici anni a trasformarsi dal ragazzino di Corneliano al Rosa della nazionale olimpica italiana, “braccio destro” di sua maestà Vincenzo Nibali ed astro nascente del ciclismo italiano.
Ciao Diego e grazie per la disponibilità. Di te sui pedali ed in tv, sappiamo quasi tutto. In queste poche righe, proveremo a raccontarti in “tutto il resto”…
“D’accordo, ci proviamo (ride, ndr)”.
Partiamo dalle origini. La biografia che hai riportato sul tuo sito personale parla di un inizio con il calcio, come un po’ tutti i bambini del resto. A quanto pare te la cavavi pure bene, tanto che il tuo allenatore provò in ogni modo a convincerti a non abbandonare. Perché l’addio? È stata mancanza di feeling?
“Diciamo che ho iniziato con le giovanili del calcio, come fanno un po’ tutti i ragazzini da noi. Poi, non è stata mancanza di feeling: mi divertivo, ma sulla bici mi divertivo di più!”.
Ecco, appunto, le due ruote. Chi ti ha spinto a scegliere questa strada?
“La scelta di correre in bici è arrivata davvero per caso. Avevo 12 anni, a scuola è arrivato un volantino che ci invitava a partecipare ad una gara di Mountain Bike ad Alba, nei giardini dietro all’enologica. Per gioco abbiamo deciso di partecipare in quattro o cinque compagni di classe. Io ho vinto e da lì ci ho preso gusto, tanto che non sono più sceso dalla bicicletta”.
Insomma, un amore a prima vista. I tuoi inizi, però, non sono stati sulle due ruote da strada, ma sulla mountain bike, appunto. Che cosa ti ha insegnato?
“La MTB è stata una parentesi bellissima e divertentissima della mia carriera. Al contrario di quello che tutti possono pensare, l’allenamento per una gara di XC è molto più meticoloso e complicato di quello su strada: ti porta a conoscere i tuoi limiti e a capire come superarli di continuo ma ti insegna anche ad avere il massimo controllo della bicicletta, anche in situazioni difficili”.
Da lì, è stata un’escalation di emozioni e successi, con tre tappe fondamentali nella tua carriera sportiva. Il 2008, con il passaggio alla bici su strada; il 2012, quando sei stato ingaggiato dal fortissimo Team Astana; il 2015, l’anno del tuo primo successo tra i professionisti, nella Classica Milano-Torino. Quale anno pensi sia stato più significativo per te e per il tuo percorso?
“Il 2012, senza dubbio. La scelta di passare alle ruote strette è stata una bella scommessa che sono davvero contento di aver vinto”.
Da lì in poi, il Diego Rosa campione. Come si riesce ad essere tale ed a vivere normalmente? Cosa ti senti di consigliare ad un ragazzo che prova un “dannato” amore per le due ruote?
“Montarsi la testa non è molto utile per un ciclista: servono sacrifici continui, anche perché si è sempre sotto esame. Bisogna rimanere con i piedi ben piantati a terra, senza distrarsi dal lavoro. Per i ragazzi che hanno l’amore per la bici posso solo dire di divertirsi e fare quello che si sentono. Io sono arrivato a 27 anni, sono professionista e quando esco in bici continuo ancora a divertirmi un sacco, come quel ragazzino che sfidò i compagni in una gara di mountain bike”.
In cosa la tua vita è cambiata ed in cosa no da professionista?
“La vita da professionista è diversa dalla vita che chiunque potrebbe immaginare per il proprio futuro. Mi ha cambiato tutto. Ora, vivo a Montecarlo, prendo aerei di continuo e giro il mondo, mia moglie ha dovuto cambiare lavoro per seguirmi e tanti aspetti del vivere quotidiano sono cambiati per forza di cose. Per il resto, sono lo stesso ragazzo di prima che a 27 anni esce ancora tutti i giorni in bici. Il tutto, con una differenza non da poco: faccio qualche chilometro in più”.
Una domanda d’obbligo: essere ciclisti significa anche essere itineranti. Raccontaci in qualche parola la provincia di Cuneo rispetto ai tanti posti che hai visto. Pregi e difetti del suo paesaggio e delle sue persone?
“Come dicevo prima, abbiamo la fortuna di girare tutto il mondo con la nostra bici ed ovunque andiamo, troviamo un’accoglienza diversa da parte dei tifosi. Devo dire che nella nostra provincia il ciclismo è molto più sentito di quanto si possa pensare: basta guardare quanta gente troviamo tutti gli anni sulle strade del Piemonte in qualsiasi occasione per averne la conferma. Colgo anche l’occasione per ringraziare tutti quelli che hanno partecipato alle diverse uscite del mio Fans Club, ogni trasferta si trasforma rapidamente in una grande festa. È questo il bello del nostro sport”.
Ultimo quesito, legato alla grande emozione dei Giochi Olimpici di Rio 2016 a cui hai preso parte. Se ti chiedessi di descriverci che cosa sono stati in tre parole?
“Un sogno. Un orgoglio. Una delusione”.
C’è tutto Diego in quest’ultima risposta. Il bambino sognatore arrivato là dove tanti coetanei vorrebbero essere. Il figlio di Corneliano d’Alba, orgoglioso di rappresentare la sua terra in lidi lontani e su strade sconosciute. Il campione, sempre alla ricerca del risultato e della gioia sportiva, che, se mancata, non può che produrre delusione.
Diego Rosa in pillole
Nato ad Alba il 27 maerzo 1989, la sua passione per la bicicletta è nata con la mountain bike. Dal 2009 al 2011 ha corso con il team di Mtb Giant Italia Team, raggiungendo risultati importanti, tra cui la partecipazione al Cross Country Under 23 nei campionati del Mondo del 2011 in Svizzera. È del 2012 il passaggio al ciclismo su strada al Team di Bergamo Palazzago-Elledent-RAD Logistica, che lo consacra nel palcoscenico Under 23 italiano, grazie ad alcuni successi prestigiosi come quello al Giro della Regione Friuli Venezia Giulia. L’anno successivo, il passaggio al professionismo, con l’ingaggio del Team Androni Giocattoli-Venezuela, con il quale si mette in mostra partecipando, tra le altre competizioni, al Giro d’Italia. Attirata l’attenzione delle principali compagini internazionali, nel 2015 viene ingaggiato dal Team kazako dell’Astana, uno dei più rilevanti nel palcoscenico mondiale a due ruote, capitanato da Vincenzo Nibali. Con la maglia azzurra si classifica quinto alla Strade Bianche 2015, vincendo poi, l’1 ottobre dello stesso anno, la grande classica Milano-Torino, primo trionfo da professionista, proprio sulle strade piemontesi che lo avevano lanciato. Seguono, tra le altre, la prima partecipazione al Tour de France, chiuso al trentasettesimo posto nel 2016, ed il secondo posto al Giro di Lombardia. Infine, Diego Rosa è stato inserito nella Nazionale Italiana di Ciclismo che, guidata da Davide Cassani, ha preso parte alla gara in linea della XXI Olimpiade dell’era moderna disputata a Rio de Janeiro nell’agosto del 2016. Dal 2017 correrà per il Team Sky.
Come sembra lontano il Ventesimo secolo. Un tempo in cui l’euro non era ancora realtà ed in cui il termine Unione Europea aveva ancora un valore prettamente positivo. A diciassette anni di distanza da quella vetta invalicabile che doveva essere il 2000, tanto è cambiato, con un’unità politica continentale che scricchiola da Nord (Regno Unito) a Sud (Grecia), sfregiata internamente da una serie di partiti-movimenti che ne inneggiano alla morte. Uno di questi, forse il più rilevante in questo preciso momento storico, è oggi al centro dell’attenzione, pronto com’è ad impossessarsi dello scettro del potere in Francia, lanciando la crociata dell’anti-europeismo. Stiamo parlando ovviamente del Front National, impresa della famiglia Le Pen, che ha lanciato negli ultimi anni la figura della figlia d’arte Marine. Il 7 maggio proprio lei, forte del suo 21.53% ottenuto al primo turno, proverà a scalzare il favoritissimo Emmanuel Macron (23.75%) nella corsa cruciale, non solo a livello francese, all’Eliseo. Un momento storico, che potrebbe segnare la storia dell’Europa intera, scatenato da due figure apparentemente rivoluzionarie, ma molto distanti tra loro.
Eppure, riavvolgendo il nastro della memoria con un immaginario rewind, è possibile ritrovare proprio a ridosso dell’epocale sorpasso del 2000 un caso che ha fatto scuola, ponendo ancora una volta lo sport al centro delle grandi dinamiche politiche. Già una volta, infatti, un Le Pen, il “buon vecchio” Jean-Marie, si ritrovò ad un passo dalla Presidenza della Repubblica francese e già in quel caso fu un appello al popolo all’unità repubblicana da parte di tutti i partiti a spegnere sul nascere le sue pretese. A sorridere fu Jacques Chirac, sospinto dall’82.21% degli elettori, chiamati a raccolta dai loro partiti di riferimento. L’anno era il 2002.
Dal 5 maggio 2002 al 7 maggio 2017, una distanza di quindici anni annullata in un baleno. Con una differenza. La Francia del tempo era ancora figlia di quella che aveva visto nell’Europa un futuro e che trovò alleata fondamentale nella nazionale di calcio transalpina, emblema di una generazione sportiva, quella degli anni ’90, frutto del percorso di integrazione degli immigrati di prima generazione, provenienti dalle ex colonie transalpine. Fu la cosiddetta “équipe black-blanc-beur” (come i colori dei volti dei suoi componenti, originari di Francia, Africa Centrale, Africa del Nord e Dom) a guidare la riscossa repubblicana, con un vero e proprio appello pubblico del capitano del tempo, Marcel Désailly (i più appassionati se lo ricorderanno al Milan a metà anni ’90) affinché si muovesse verso le urne sostenendo Chirac, per salvaguardare l’unità repubblicana francese ed il percorso di amalgama tra nazionalità diverse.
Qualche anno prima Le Pen aveva definito “intollerabile” definire francese una nazionale composta da individui provenienti da altri Paesi, che non sapevano o non volevano cantare la Marsigliese. La risposta di Désailly, originario della Guyana francese, e di tutta la nazionale bleu è riassunta da alcune sue dichiarazioni del tempo:
“I giocatori della nazionale francese, con diverse origini condannano unanimemente le nascenti idee di razzismo ed esclusione. Vedono i comportamenti che mettono in pericolo la democrazia e la libertà come intollerabili ed indifendibili, soprattutto in una Francia multietnica e multiculturale”.
“Voi giornalisti non siete abituati a un calciatore che prende posizione, ma nonostante non gradisca questo assalto mediatico non potevo tirarmi indietro: sono il capitano della Francia e non ho dubbi sul fatto che certe cose vadano dette. Credo sia incontestabile che Le Pen sia a capo di un partito fascista”.
Come lui fecero Zidane, Pires e molti altri simboli della generazione più vincente della storia transalpina, reduce al tempo dal doppio trionfo al Mondiale 1998 ed all’Europeo 2000, influenzando in modo significativo l’esito di quella tornata elettorale. La storia fatta da un loisir.
Febbraio, il mese breve che ci siamo appena lasciati alle spalle, è, da anni immemori, per noi italiani il mese del Festival di Sanremo. La kermesse, fiore all’occhiello della programmazione annuale Rai, ha raccontato gli ultimi sessantasette anni della storia nostrana attraverso parole accompagnate da melodie che sono entrate nella mente di ognuno di noi, simboli di generazioni e di epoche diverse tra loro. Ma quanto, sport e musica, artefatti umani tra i più pregiati soprattutto nel ventesimo secolo, hanno saputo dialogare in tutti questi anni? Abbiamo provato a capirlo attraverso un giochino divertente, che ci ha portato a saltare dal Dopoguerra al Sanremo dei social network, dalle montagne canadesi ad un paese dell’Emilia Romagna.
La nostra storia parte dal lontano 1959, quando, mentre alla nona edizione del Festival trionfavano Domenico Modugno e Johnny Dorelli con “Piove (Ciao ciao bambina)”, sempre di pioggia si parlava nel testo originale di “Come pioveva”, canzone arrangiata dai produttori del programma “Il musichiere” e presentata con una performance goliardica dal duo di “amici-nemici” Coppi e Bartali. Accompagnati sul palco dallo storico conduttore Mario Riva i due ciclisti cantavano (non proprio con una tonalità eccellente) la loro amicizia al di fuori delle mille battaglie sportive vissute sui pedali, a cavallo tra gli anni ’30 e ’40, partendo da un “C’eravamo tanto amati” per poi ironizzare su un tema che sarebbe diventato centrale nei decenni successivi, quello del doping nello sport. Un video da lacrimuccia.
Lo avevamo detto, il nostro è un viaggio nel tempo e nella storia e ci porta ad una data precisa: il 27 febbraio 1988, giorno della finale di Sanremo. Sono le ore 22 del sabato sera più atteso dagli italiani, che si sono ormai abituati a convivere con il piccolo schermo e che stanno per assistere al crollo di quel muro che quando Coppi e Bartali cantavano era ancora là da venire. Sul palco dell’Ariston Miguel Bosè e Gabriella Carlucci sono ormai pronti a svelare il vincitore tra i tre favoritissimi: Massimo Ranieri, Toto Cutugno e Luca Barbarossa. Trionferà il primo, con “Perdere l’amore”, ma non prima che, a grande richiesta del pubblico presente al Palarock (sala in quegli anni legata all’Ariston), la serata fosse interrotta per assistere all’impresa di Alberto Tomba, detto “La bomba”, che a Calgary, sulle montagne nordamericane che facevano da contorno alla XV Olimpiade invernale dell’era moderna, stava per affrontare la seconda manche dello slalom speciale da favorito. Tomba, sospinto da un pubblico di 20 milioni di spettatori, trionferà, riscrivendo la storia dello sci: l’Italia che cantava un romantico amore perso ne aveva appena trovato uno nuovo a ritmo di rock e sterzate.
Nemmeno un anno e mezzo dopo, nel giugno 1990, un’altra pagina da leggenda. Questa volta a scriverla sono due giovani cantanti, pronti a spiccare il volo verso una carriera che non si discosterà mai però troppo da quel testo: Edoardo Bennato e Gianna Nannini. Difficile definire le emozioni di quel giorno, se non rievocandole con il nome che le celebra da sempre, “Notti magiche”, e con un video, forse un po’ lungo, ma che meglio di altri racconta i brividi di caldo vissuti in quei giorni. L’Italia ospita un Mondiale e dice “Ciao”, come il nome della mascotte della rassegna, al mondo tutto, esultando con Totò Schillaci, simbolo del riscatto del Meridione negli anni in cui per molti lo Stivale era soprattutto sinonimo di mafia, e cantando a squarciagola versi diventati leggenda.
Da uno stadio maestoso come San Siro agli Stadio, per chiudere il nostro cerchio. Già, proprio il gruppo che lo scorso anno ha sbancato l’Ariston, emozionandolo con “Un giorno mi dirai”, è il filo conduttore del nostro viaggio, perché ha nel nome stesso ed in molti suoi singoli l’emblema del forte rapporto che lega note e prestazioni sportive. Tifosissimi del Bologna, a Sanremo Gaetano Curreri e soci hanno portato nella cittadina ligure e nelle case di milioni di italiani anche e soprattutto il loro amore per le imprese sportive, racconti ed esempi di vita in un’epoca sempre alla ricerca di riferimenti, riportando in auge due testi su tutti: “Gaetano e Giacinto”, dedicata a Gaetano Scirea e Giacinto Facchetti, indimenticati campioni di calcio e simboli di lealtà sportiva, e, soprattutto, “… E mi alzo sui pedali”, in ricordo di Marco Pantani. Proprio nel mese del “Pirata” di Cesena, morto nella notte di San Valentino di tredici anni fa, non si poteva che chiudere così.
Il tema della Pillola sportiva del mese di febbraio è Zaire. Metterlo in chiaro sin da subito è fondamentale. Già, perché parlare di Zaire nel 2017 significa riaprire con sole cinque lettere una ferita importante esattamente nel cuore di un continente, l’Africa, per secoli afflitto da mali da cui a fatica sta oggi cercando di uscire. Zaire è una storpiatura. Deriva dal nome con cui i colonizzatori portoghesi definivano il fiume Congo, “Zaire” appunto, utilizzando con superficialità il termine congolese “zneri”, letteralmente “il fiume che inghiotte tutti i fiumi”. Il suo nome, appartenente ad un tempo lontano, divenne presente dal 27 ottobre 1971, quando Mobutu Sese Seko, dittatore rimasto al potere fino al 1997 (guarda caso, anno in cui lo Zaire è tornato ad essere Congo), decise che era tempo di essere africani, dimenticando nomi stranieri e denominazioni ambigue e ritornando al passato. Da Repubblica Democratica del Congo, quindi, il cuore dell’Africa divenne Repubblica dello Zaire. E dove sta lo sport?
Il 22 giugno 1974, nel caldo estivo dell’allora Germania Ovest, proprio undici figli di quella storpiatura stavano giocando su un campo di calcio al cospetto dei campioni per eccellenza, quelli della nazionale del Brasile, nella maggiore competizione sportiva dopo le Olimpiadi, i Campionati del Mondo di calcio. E proprio lì, quel giorno, uno di quei ragazzi dalla pelle scura lanciò al mondo un monito che il mondo non ha forse realmente mai compreso.
Lo Zaire, per il pubblico europeo una allegra compagine dalle divise gialle, verdi e rosse, rappresentava in realtà uno dei principali investimenti fatti da Mobutu, con l’obiettivo preciso di portare l’Africa e le sue eccellenze nel mondo. Appena due anni prima, nel 1972, aveva vinto la Coppa della Nazioni Africane, unico successo nella storia del paese a livello calcistico, e da tempo ormai era la potenza sportiva del continente. Quella spedizione, quindi, doveva essere innanzitutto una copertina, come sarebbe stato qualche mese dopo il famoso incontro di boxe tra Foreman e Mohammed Ali a Kinshasa. I risultati, però, prima di quel 22 giugno, raccontarono ben altro: nella prima partita contro la Scozia arrivò una sconfitta per 2-0, poi aspramente peggiorata dal 9-0 patito contro la Jugoslavia. Quindi, appunto, il Brasile, in un match che, da un punto di vista sportivo, poteva raccontare ben poco. Finì 3-0 per i sudamericani, ma quell’incontro passò alla storia per tutt’altro: all’ 85’, sul 3-0 per il Brasile, Ilunga Mwepu, terzino destro dello Zaire, si lanciò all’impazzata su un pallone fermo, che attendeva di essere colpito dal brasiliano Rivelino, per una punizione in favore dei verdeoro, e lo calciò lontanissimo. Non avrebbe potuto, il regolamento non lo prevedeva e non lo prevede tutt’ora. Mwepu scatenò da quel momento l’ilarità di tutti gli amanti dello sport e quel gesto divenne uno dei più famosi della storia ottuagenaria del Mondiale di Calcio. Ancora oggi, sono molti i video che su Youtube raccontano quell’atto, ritenuto tra i più come “simpatico” e poco altro.
Così è, indubbiamente, ma in pochi si sono chiesti il perché di quel gesto. Zaire simbolo di un mondo non civilizzato, che non conosce le regole? Mwepu impazzito? La realtà è tragicamente un’altra. Quegli undici uomini, copertina di una nazione che rinasceva dopo secoli di dominio straniero, l’avevano tradita perdendo, e nei giorni precedenti il quartier generale del loro ritiro era stato invaso dalle forze di polizia della madrepatria, che li avevano minacciati: “O perderete con il Brasile con non più di tre gol di scarto, o per voi sarà dura tornare in Zaire”. Alla base alcune promesse non mantenute: Mobutu aveva assicurato ai giocatori moltissimo denaro in caso di partecipazione a quella rassegna iridata, ma i soldi non si erano mai visti. Che non fossero mai stati inviati o che se li fossero intascati i membri dell’entourage della nazionale, poco importa. Quel che è certo è che i giocatori dello Zaire dalla partita con la Jugoslavia avevano rifiutato di giocare un calcio degno del loro nome, quasi per ripicca.
Il tutto fino al 22 giugno. Lì, non si poteva più sgarrare: perdere significava morire, perché una dittatura non ama giocare. Eccoci giunti alla conclusione del nostro racconto. Solo il video sopra può fare il resto. Racconta di una barriera che sembra una fila di condannati a morte; di alcuni giocatori brasiliani pronti a sparare, a mo’ di un plotone d’esecuzione; di un uomo che vide in quel gol in più o in meno la vita o la morte. Mwepu, figlio della storpiatura europea, storpiò il gioco degli europei, contravvenendo alle regole. Ma il suo era un monito, non uno scherzo. Lo Zaire non stava più giocando. A trentatré anni di distanza da quel momento e a venti dalla data in cui, con la morte di Mobutu, lo Zaire è tornato ad essere Congo, un sorriso per quelle immagini va accompagnato con le giuste riflessioni.
Nota: tante sono le interpretazioni di quel gesto, Mwepu, morto nel 2015, non ha mai raccontato esplicitamente il perché. Questa comunque, alla luce dei fatti accaduti nei giorni precedenti, resta la più plausibile.
La “Chape” non c’è più, perché non sempre le favole hanno un lieto fine. Quel che è accaduto a Medellin, Colombia, lo scorso 28 novembre, non ha bisogno di ulteriori commenti, perché tanti hanno detto e tutti sanno. Settantuno le vittime di un aereo di linea che in quelle condizioni forse non avrebbe mai dovuto volare, sei i sopravvissuti.
Troppi i morti per pensare che fossero tutti giocatori di calcio. Non lo erano tutti, ma quando ad essere colpito è quel mondo che riempie di gioia e di lacrime gli occhi di milioni di appassionati in tutto il pianeta, non è possibile non fermarsi. Con il quadrimotore LaMia Airlines 2933 non hanno smesso di volare solo i sogni di giovani padri di famiglia, promesse dello sport più bello che esista o ragazzi sul viale del tramonto all’ultima grande chiamata sportiva della loro carriera.
Con loro, infatti, siamo feriti tutti. Il calcio del “Chape”era il calcio “bailado” dei brasiliani, fatto di samba e di allegria, ma anche il calcio dei pivellini, che stavano per contendere ad una squadra ricca di storia come l’Atletico Nacional la seconda coppa più importante del Sudamerica. Non sempre le favole hanno un lieto fine, ma sono pur sempre favole e come sempre destinate a durare in eterno nella memoria di chi le ha vissute.
Erano ragazzi, prima ancora che calciatori. Il loro ricordo ferma ogni altra parola:
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