Lo sport nel 2018: 12 consigli culturali per viverlo al meglio! (II parte)

Come promesso, rieccoci sei mesi dopo. Ci eravamo lasciati con l’inverno e con il freddo, ci ritroviamo con la pioggia che non tende a placarsi e con l’estate alle porte. Come filo conduttore, ancora una volta il binomio sport-cultura: quali saranno gli eventi sportivi della prossima metà anno che ci terranno incollati al divano? Proviamo a scoprirli, ancora una volta facendo un tuffo tra video, immagini, scritti e tanto altro che hanno saputo rendere in concreto le grandi emozioni regalate dallo sport.

Si riparte da luglio, che sarà, va bene, il mese della finale Mondiale. Ecco perché abbiamo citato la Coppa del Mondo di calcio già sei mesi fa: fa troppo male tornare a parlarne, mentre noi italiani assisteremo da spettatori alle gesta delle altre nazioni. Meglio voltare pagina.

Luglio: ma che ce frega del Mondiale. C’è un altro sport a cui siamo legatissimi e che ci porta in migliaia nelle strade: il ciclismo. E luglio è per il ciclismo una sorta di “mese maximo” per via del Tour de France, il re tra i grandi giri delle due ruote. Da Bartali a Coppi, passando per Pantani, fino a Nibali. Con la maglia gialla abbiamo spesso flirtato, sognando ogni anno di vedere un italiano alzare le braccia al cielo negli Champs Elysées lasciando a bocca aperta i cugini francesi. Tour de France che è però anche sinonimo di grandi misteri, non ultimo quello della possibile positività di Chris Froome, il nuovo mito a due ruote. Tra questi, anche quello di Riccardo Riccò, che anni fa ci ridiede il sapore di avere davanti agli occhi Marco Pantani. Poi, proprio una provetta lo condannò: più di dieci anni di squalifica ed una carriera rovinata. È finito nell’oblio, ma ha trovato il modo di essere utile a tutti noi, con un libro uscito pochi giorni fa. Ed è proprio questo che vogliamo consigliare. Leggetelo, capirete quanto sono umani i campioni che ci esaltano.

Consigliato: Cuore di cobra. Confessioni di un ciclista pericoloso, D. Ricci e R. Riccò, Piemme, 2018.

 

Agosto: il mese dell’Assunta è invece da sempre campo dell’atletica, con il picco raggiunto negli anni olimpici. Quest’anno, ad imperversare saranno gli Europei, in scena all’Olympiastadion di Berlino. La voglia dell’Italia è quella di tornare protagonista, magari trascinata da Filippo Tortu, lombardo classe 1998 che sta stupendo tutti e che potrebbe togliersi grandi soddisfazioni. Pippo era però là da venire al mondo nel lontano 1980, quando a Mosca un pugliese portò il tricolore sul tetto olimpico nei 200 metri. Stiamo parlando ovviamente di Pietro Mennea, eroe italiano scomparso cinque anni orsono lasciando un vuoto quasi incolmabile nel movimento. Chi era? Per lui parlano i numeri ed una miniserie, uscita tre anni fa e prodotta dalla Rai. Vederla sarà un buon modo per caricarsi a mille e sognare con i ragazzi che si prepareranno per la spedizione tedesca.

Consigliato: Pietro Mennea – La freccia del Sud

 

Settembre ed ottobre: con l’avvento dell’autunno, torneranno d’attualità anche gli sport di palestra. Quest’anno, al centro dell’attenzione sarà il volley, che invaderà mezza Italia, a partire da Torino, chiamata in causa come città ospitante di alcune gare del Campionato Mondiale (l’altra nazione di casa sarà la Bulgaria). Il consiglio? Nessun libro, nessun video: andate a vederla! Chi scrive ha già avuto nel suo piccolo esperienze dal vivo dentro ai palazzetti: contesti di questo tipo sono impagabili. Vietato perdersi una manifestazione di questo tipo quando è così vicina!

Consigliato: Campionato Mondiale di Volley Maschile – 9-30 settembre 2018

Abbiamo deciso di accorpare i due mesi per via dei molti eventi congiunti che si svilupperanno lungo i sessanta giorni. Resta da seguire anche il canottaggio, che dal 9 al 16 settembre vedrà all’opera tutte le nazioni impegnate nel Campionato del Mondo di Plovdiv (Bulgaria). Sport poco rinomato, forse, ma che all’Italia ha dato momenti indimenticabili. Tra leggenda ed ironia, resta un pezzo della nostra storia il trionfo dei fratelli Abbagnale da Castellamare di Stabia ai Giochi Olimpici di Seul 1988 con telecronaca di Giampiero Galeazzi. Non li conoscete? Obbligatorio recuperare guardandosi il video di 4 minuti e cinquantaquattro secondi su youtube: risate e patriottismo sono garantiti.

Novembre: si chiude in questo mese il Campionato del Mondo di Formula Uno, che si è dimostrato molto più equilibrato degli anni passati, tra colpi di scena e scuderie che hanno riequilibrato i propri rapporti di forza verso l’alto. La faida Vettel-Hamilton è ormai da libri di storia del genere, proprio come lo fu quella tra James Hunt e Niki Lauda negli anni Settanta ed Ottanta dello scorso secolo, tra scandali e litigi, fino al famoso incidente che rovinò per sempre il volto del secondo. “Più sei vicino alla morte, più ti senti vivo”: così Hunt riassume la sua filosofia di vita nel film del 2013 che racconta la loro rivalità. Da vedere.

Consigliato: Rush (2013)

 

Dicembre: è il mese che lentamente introduce alla nuova stagione degli sport invernali, chiudendo un anno solare che ricorderemo come certamente intensissimo, ma è anche il mese da sempre ricordato per l’assegnazione del Pallone d’Oro. Il premio ideato da France Football per individuare il calciatore più forte al mondo è da sempre molto discusso per via de giudici non sempre imparziali e per le diverse vedute degli espertoni di tutto l’emisfero. Divenuto da una decina d’anni strumento di contesa a due tra Messi e Ronaldo, poco più di due lustri fa era in realtà quartiere di casa anche del calcio nostrano, che ha gioito per quattro volte grazie ad un nostro giocatore. L’ultima nel 2006 con Fabio Cannavaro, che la spuntò all’ultimo sul compagno di nazionale Gianluigi Buffon. Proprio nell’autobiografia del portierone che quest’anno ha salutato la Juventus ci sono pagine esilaranti legate a quel secondo posto: tutte da scoprire per comprendere quanto a volte l’amicizia sia messa in difficoltà, se si compete per una stessa palma…

Consigliato: Numero 1, Gianluigi Buffon con Roberto Perrone, BUR, 2010.

33 anni dopo l’Heysel, non è tempo di smetterla?

Ci sono quei nomi propri di città, persone, indirizzi, che vivono nell’anonimato per secoli e poi, un giorno, decidono di entrare nella mente di tutti e di non uscirne mai più, suscitando emozioni sempre forti anche a decenni di distanza. Ci pensi un attimo e sono subito lì, via Fano, lo svincolo per Capaci, Ustica. Ma, perché no, anche Wittenberg, Waterloo, Portella della Ginestra. Nomi dati dall’uomo così, che sembrano nati per essere storia ma che in realtà non lo erano, prima che qualcuno o qualcosa decidesse di renderli immortali.

Lo stadio Heysel fu immaginato e costruito a Bruxelles alla fine degli anni Venti dello scorso secolo, dal Belgio che aveva voglia di sport ad alti livelli e che voleva darsi uno stadio degno degli eventi che desiderava vivere. In più di cinquant’anni di storia ospitò tre finali di Coppa dei Campioni, tre di Coppa delle Coppe e la finale dell’Europeo di calcio del 1972 tra Germania Ovest ed Urss. Era già storia quello stadio ma decise di diventare tragicamente leggenda, proprio come i nomi sopracitati, il 29 maggio 1985.

Quella notte gli occhi di tutto il mondo erano ancora una volta puntati sull’Heysel, pronto ad ospitare la quarta finale di Coppa dei Campioni della sua storia. Di fronte il Liverpool, squadra storicamente abituata a giocare ad alti livelli in Europa, e la Juventus, che da poco era riuscita a togliersi qualche soddisfazione internazionale ma che, spinta dalla famiglia Agnelli, puntava al trofeo più ambito.

Attesa trepidante, voglia di vivere il grande calcio, ma poi fu tragedia. I tifosi del Liverpool non erano appassionati di tutti i giorni: erano gli hooligans della Kop, la più terribile tifoseria del mondo, figlia del lavoro duro nel porto della città e di quella tradizione d’Oltremanica che, proprio negli anni Ottanta, vedeva il calcio come arena del Ventesimo secolo e come occasione per sfogare frustrazioni e disagi successivi alla crisi di fine anni Settanta. Una sorta di lotta di classe sfogata sugli spalti, un modo per rispondere alla crudezza della vita in età thatcheriana, coltivando nel frattempo ideologie al limite, tra odio verso l’altro e disprezzo dei ceti più abbienti. Proprio quegli hooligans decisero di fare come sempre anche quel giorno: assalti e provocazioni costanti al tifo italiano presente in una fetta dello stadio, con la voglia di impaurirlo, magari di scagliare anche qualche pugno, come quasi nell’ordinario. Lì, il fattaccio: i giovani ragazzi italiani che, spaventati, si ammassarono lungo il muro delimitante il settore, la mancanza di controlli da parte delle autorità e quel muro che crollò, portando con sé la vita di trentanove appassionati, morti sul colpo o schiacciati dalla massa inferocita che cercava di scappare, terrorizzata. Trentanove morti per un gioco, per una partita di calcio.

Tutto drammaticamente assurdo. Già, da non crederci. Fortunatamente nel Regno Unito proprio Margaret Thatcher sarà la prima a porre un freno, con severe limitazioni all’interno degli stadi, catapultando il mondo britannico nel futuro e riducendo in modo deciso la violenza tra tifosi, primi, del resto, a vivere il calcio senza barriere.

Che mondo lontano, verrebbe da dire. Ci sono, poi, però, i numeri. Freddi, forti, clamorosamente efficaci senza grandi spiegazioni. Trentatré anni dopo l’incubo Heysel la conta del calcio italiano recita diciassette. Diciassette come le vittime, tifosi, semplici appassionati, ragazzi giovanissimi, poliziotti, provocate dalla violenza per il pallone. Da Nazzareno Filippini, ferito ed ucciso dopo Ascoli-Inter del 9 ottobre 1988, a Ciro Esposito, morto cinquanta giorni dopo essere stato colpito da un proiettile prima di Fiorentina-Napoli, il 25 giugno 2014.

Cosa abbiamo imparato dall’Heysel? A piangere di quel che fu ed a commettere gli stessi drammatici errori? Una decina di giorni fa, Sean Cox, guarda caso tifoso del Liverpool, è stato accoltellato da alcuni ultras della Roma prima della semifinale di Champions League tra le due squadre, lottando tra la vita e la morte a lungo. Ancora il Liverpool, questa volta come vittima. A quasi trentatré anni dall’Heysel la pillola sportiva di questo mese si ferma e si limita a chiedersi se questa chiusura del cerchio non debba e possa rappresentare l’occasione per cambiare una volta per tutte. Perché la storia non possa più appropriarsi di alcuni nomi e renderli drammaticamente leggendari.

Paolo Priolo, un cuneese alle Paralimpiadi di PyeongChang

I giovani italiani, almeno quelli degli ultimi quindici anni, sono stati spesso descritti come “bamboccioni”, “immaturi”, e quant’altro. Un’idea forte a tal punto da avere spinto alcuni critici ad ipotizzare un ritorno della maggiore età a 21 anni, proprio in un’ottica di rivalutazione di quello che è il teenager, delle sue competenze e della sua capacità di saper stare nel mondo degli adulti nel XXI secolo.

C’è un ragazzo, però, oggi trentaduenne, che la maturità, volente o nolente, l’ha vissuta davvero, imparando a sudare, lottare e sacrificarsi per restarci in quel mondo, già a diciotto anni. Imparando a vivere.

Il suo nome è Paolo Priolo, classe 1985 di Monteu Roero, da quasi quindici privo dell’avambraccio destro a causa di un incidente motociclistico. Il nostro orgoglio. Già, perché appena un mese fa Paolo ha vissuto la più grande esperienza che uno sportivo possa sognare: quella di partecipare alle Paralimpiadi di PyeongChang, specialità snowboardcross, come unico piemontese presente nella spedizione azzurra.

Partiamo proprio dall’esperienza sudcoreana, Paolo. Che cos’è stata per te? Porta un po’ dello spirito olimpico anche a noi!

“Per me le Paralimpiadi sono state la realizzazione di un sogno, l’affermazione della mia carriera agonistica, la miglior ricompensa per tutti coloro che mi sono stati vicino e mi hanno accompagnato a questo grande evento. Siamo stati al centro dell’attenzione di migliaia di persone e questo, anche a settimane di distanza, crea grandi emozioni, come se fossi ancora là. In ogni momento ti rendevi conto che c’erano un sacco di persone lì per te, pronte ad aiutarti, a darti qualsiasi cosa di cui avessi bisogno, e, più in generale, c’era una grande armonia tra tutti noi atleti, nonostante la competizione, come se fossimo stati una grande famiglia. La lealtà prima di tutto”.

La gara?

“Sono contento, l’obiettivo era il decimo posto ed ho chiuso ottavo, che è per me un gran piazzamento, ma soprattutto lo spirito con cui l’ho conquistato è un punto di svolta, una base su cui migliorare, sicuro di me stesso come mai prima d’ora. Certo, quell’errore inseguendo il fortissimo Mike Minor non verrà dimenticato facilmente, ma ho capito che ho spazio per lavorare sull’allenamento e mettere la mia tavola davanti la sua”.

Parliamo di te. Com’era il Paolo di “prima” e quanto è cambiato dopo l’incidente? Che cosa si pensa quando si inizia il “dopo” e quale consiglio daresti a chi si trova nella tua situazione?

“Prima… beh è successo tutto il giorno dei miei diciotto anni, a causa di un incidente stradale. Com’ero prima? Sicuramente non curante e non consapevole della vita. Da quel momento non è che ho voltato pagina, ma inconsciamente alcune cose ti cambiano dentro: oggi comprendo dei valori che anni fa non avrei saputo apprezzare. Di certo non è stato l’incidente, sono stati gli anni passati e le mille esperienze che conseguentemente a questo ho affrontato, per volontà o per obbligo, negative e positive. Certo quando comincia il “dopo” non sai cosa stai facendo, non sai cosa vuoi fare e dove andrai, ma per fortuna, nel mio caso, grazie a tante persone, è iniziato subito nella giusta direzione, verso la reazione, verso la costruzione di una nuova vita, senza dimenticare quella vecchia, ma adeguandola alla condizione in cui mi trovavo”.

Come sei oggi, a più di dieci anni di distanza?

“Ora è facile parlare, ma per esperienza mi sento di poter dire che un po’ di sana sfida quotidiana, il fatto di reagire trovando il modo di fare una cosa apparentemente “impossibile” a causa della propria limitazione fisica sono piccole vittorie quotidiane personali, che ti aiutano a ritrovare la giusta strada, la voglia di vivere, che avevi perso a momenti, soprattutto in giovane età, dopo certi “imprevisti” di percorso. Oggi posso aggiungere che lo sport è un’ottima “medicina alternativa”, che riduce le distanze tra normodotati e disabili, e spero che il far conoscere le nostre attività sportive favorisca il coinvolgimento sportivo delle persone meno fortunate”.

Essere un atleta paralimpico, che cosa significa? Sono tanti i sacrifici?

“È un piacere ed una fortuna, ma comporta molte fatiche, soprattutto per chi lavora, perché richiede molto tempo e sforzi notevoli per gli allenamenti e limita i weekend di riposo, almeno fisico. Dopo una giornata di lavoro, allenarsi non è facile, ma la passione alla fine ha sempre ragione”.

1000Miglia è un mondo immaginato da ragazzi per ragazzi. Cosa ti senti di dire loro per il loro futuro?

“Lasciatevi appassionare da uno sport o da qualsiasi altra attività nel tempo libero, senza dimenticare la vita reale. Sognate, ma con i piedi per terra, per non dimenticare i veri valori della vita, senza privarvi di una passione, di una cosa che vi fa stare bene, qualunque cosa succeda”.

In ultimo, d’obbligo, obiettivi personali e sportivi?

“L’obiettivo a breve termine è quello di concentrarmi sul mio lavoro, che ho trascurato in questi ultimi mesi per le trasferte e gli allenamenti. Da “sportivo”, invece, dopo una pausa post-paralimpica, riprenderò ad allenarmi per arrivare pronto alla stagione agonistica, che quest’anno ci riserva il Mondiale, dove di certo non mi voglio accontentare dell’ottavo posto”.

Sognate, ma con i piedi per terra. Il nostro orgoglio.

Parlami di sport e ti dirò chi voti

Basterebbe la frase che fa da copertina a questa rubrica per raccontare il rapporto carnale, intimo, per chi non lo ama ridicolo, che lega lo sport e l’Italia in un legame indissolubile. Autore Winston Churchill, ovvero colui che con gli italiani si trovò prima costretto a trattare e poi a combattere, mentre questi pensavano a vincere un Mondiale dopo l’altro e a fare bella figura alle Olimpiadi organizzate dall’amica Germania.

Abbiamo votato. Si è detto (e sbraitato) tanto. Sicuramente le parole non finiranno qui, anzi, verosimilmente sono proprio iniziate con il 4 marzo. Ed eccolo ancora una volta qui, il puntuale riassunto di come lo sport abbia avuto una relazione stabile anche con questo importante evento del mese.

Difficile non partire dalla madre di tutte le vicende sportive ad impatto politico in Italia. Era la prima Italia senza un re, quella di una o forse due (visti gli ultimi verdetti elettorali) repubbliche fa. Per la prima volta si doveva votare per decidere quale immagine dare al mondo di sé e quale linea dare al futuro del Paese e a quei 30 anni successivi che sarebbero stati gli anni della Grande Crescita. Due mondi a confronto, quello della Dc e quello del Pci, che affidarono alle due ruote la loro resa dei conti. Anno 1948, in piazza la tensione alle stelle. Fuori dalla penisola la nazionale italiana a più di un’ora di ritardo dalla vetta della carovana per la vittoria del Tour de France (si correva ancora divisi per Paesi). Poi una chiamata, un misto di verosimile storia fatta attraverso due cornette e leggenda: era De Gasperi che implorava Gino Bartali, “Ginaccio il democristiano” di fare l’impresa, perché il leader comunista Togliatti era appena stato colpito in un attentato, creando scompigli di piazza. Il resto è storia, con un’impresa quasi impossibile di Bartali che si trasformò nel principale antidoto per l’odio intestino italiano: la guerra civile imminente era scongiurata dalla vittoria al Tour de France e l’Italia ringraziò per la prima volta il campione toscano. Passeranno ottant’anni per il secondo “Grazie”, quando si scoprì che proprio in sella ad una bicicletta “Ginaccio” aveva salvato decine di ebrei durante la guerra, pedalando da nord a sud con i loro falsi documenti nel telaio.

Quasi trent’anni dopo fu uno sparo a mettere in crisi quella democrazia raggiunta con tanta fatica (e sangue) dai nostri (bis)nonni. Ad esploderlo nel 1977 un gioielliere romano, che decise di farsi giustizia da sé per sedare una presunta rapina avvenuta nel suo negozio proprio in orario di chiusura. Una legittima difesa ante litteram, insomma. Peccato che ad essere colpito ed a morire fu Luciano Re Cecconi, nato quando Bartali vinceva in Francia salvando l’Italia e poi diventando centrocampista della Lazio campione d’Italia nel 1974. Una squadra strana, di capelloni comunisti e pistoleri neofascisti, come molti racconteranno. La morte del biondo laziale gettò caos in un Paese già afflitto da esplosioni ben più roboanti da otto anni a quella parte, tra terrorismo di destra e di sinistra. C’era chi parlò di uno scherzo finito male, con il gioielliere che sparò per timore, ma molti paventarono un regolamento di conti di stampo politico, a testimonianza della grande tensione del tempo. La verità non è mai venuta a galla.

Terzo ed ultimo balzo del nostro racconto in quel di Milano, venticinque anni fa. A portare il calcio nella politica (e, prima, la politica nel calcio) un noto imprenditore lombardo, che divenne per tutti il Cavaliere. Stiamo parlando ovviamente di Silvio Berlusconi e di quel suo Forza Italia, il primo partito personalizzato (e personale) della storia, nato proprio nel 1993 per tentare un’impossibile scalata a Palazzo Chigi in vista delle elezioni del 1994, le prime dopo l’apocalisse di Tangentopoli. Vincerà, il Cavaliere, trasferendo nelle urne una narrazione che conosceva bene: quella del suo Milan, campione d’Europa a più riprese a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, prima di essere definito “la squadra del secolo” per il suo calcio rivoluzionario. Forza Italia, appunto, come i tifosi cantavano guardando la nazionale, guarda caso vestita d’azzurro, proprio come i nuovi liberali italiani. E poi “la squadra di ministri”, la proverbiale “discesa in campo”, gli “avversari”. Il calcio di un imprenditore, poi divenuto presidente vincente, che trasformava la politica, addomesticandola e accompagnandola nel mondo post-crollo del Muro.

Tre aneddoti, ma ce ne sarebbero a migliaia, in Italia e non. Dagli Usa delle Black Panthers all’endorsement della nazionale francese nei confronti di Chirac nel 2002. Che lo si voglia o meno, siamo la società dello sport, e lì ci raccontiamo. Dimmi che fai nello sport e ti dirò chi sei.

La fortuna di Steven, le lacrime di Joannie, il folle Eddie. Bentornate Olimpiadi!

Finalmente ci siamo. Dopo un conto alla rovescia lungo quattro anni, prenderanno il via proprio nel fine settimana i XXIII Giochi Olimpici Invernali dell’era moderna. I giochi che, tanto per essere sintetici, sono già entrati nella storia per due ragioni: essere riusciti a riavvicinare Corea del Nord e Corea del Sud, ammansendo quel laccato inferocito di Kim Jong-un, ed aver riscritto la storia del nome più impronunciabile per una sede olimpica, con quel Pyenongchang che nasconde più insidie di una discesa sotto la bufera (anche più di Garmisch-Partenkirchen 1936).

Scherzi a parte, saranno di nuovo un crogiuolo di emozioni come pochi altri eventi (sportivi e non) sanno essere nel mondo. Qualche esempio? Come sempre è la pillola sportiva a darveli. Sono nomi di gente comune, perché spesso questo sono state le Olimpiadi: il racconto del ragazzo di tutti i giorni che diventa leggenda, anni di sacrificio trasformati in oro o sfumati per una scivolata all’ultima piroetta. Ed è proprio per questo che le amiamo.

Steven da Camden

Partendo da lui, l’ultimo divenuto primo, il Davide che sconfisse tutti i Golia ma perché i Golia non fecero altro che auto-distruggersi. È servito un video della Gialappa’s per rendere immortale l’impresa di Steven Bradbury, un nome una leggenda. Capello platinato stile Ringo, sguardo da pazzo e quell’insana follia che contraddistingue i baciati dalla fortuna. Questo è Steven da Camden, Australia, dove nacque nel 1973. Pattinatore sgraziato, dopo la vittoria della medaglia di bronzo nella staffetta dei Giochi di Lillelhammer 1994, quando si presentò a Salt Lake City nel 2002 sembrava non avere più nulla da chiedere alla carriera. Poi, l’incredibile. Difficile riassumere, lasciamo al video.

https://www.youtube.com/watch?v=j3i4lsieGQc

Successe sì, successe davvero. Vinse così e come solo i veri eroi sanno fare, salutò tutti da campione, lasciando il pattinaggio. Divenne commentatore, poi automobilista, uomo da francobollo e infine protagonista del programma Tv australiano “Dancing with the stars”. Chissà se avrà vinto anche lì…

Joannie da Montréal

Lasciate da parte l’ilarità suscitata da Steven, perché la storia di Joannie, invece, è storia di lacrime e bellezza. Storia di una donna, o meglio due. Joannie e Thérèse, entrambe da Montréal, entrambe a Vancouver, nell’inverno del 2010, per l’Olimpiade della prima. Joannie Rochette ha ventiquattro anni, specializzata in pattinaggio artistico ed è pronta a far sognare tutto il Canada perché si sente pronta al salto decisivo della sua carriera. Thérèse, invece, è sua madre, donna orgogliosa di 55 anni, che ha scelto di spostarsi perché sua figlia, no, non può restare da sola per un giorno così importante. Poi la tragedia: a due giorni dalla gara Thérèse muore, colpita da un attacco cardiaco, gettando nello sconforto la figlia ed una nazione intera. Eppure Joannie non si sente sola, sceglie di gareggiare, stupisce tutti e giunge terza. Non aveva mai vinto una medaglia olimpica fino a quel momento e mai più ne otterrà altre. Qualche giorno dopo, al funerale di Thérèse, Joannie posa quel bronzo sulla bara della madre e lo lascia lì, per sempre. Quella medaglia è sua, quella medaglia è stata vinta dall’amore.

Michael Thomas da Cheltenham

L’ultimo salto nelle favole olimpiche è nel Regno Unito. Qui, negli anni ’80, Michael Thomas Edwards, per tutti Eddie, un muratore di poco più di vent’anni, decise di fare ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato. Aveva una passione: sciare. Aveva un sogno: partecipare ad un’Olimpiade. Peccato che la sua madre terra non avesse una grande tradizione negli sport invernali, visto che da decenni, ormai, nessuno sportivo fosse in attività. Per di più, scelse di andare oltre: voleva essere ricordato come saltatore con gli sci, non proprio la specialità più comune.

Quella di Michael Thomas diventa a questo punto storia di perseveranza, prima di trasformarsi in leggenda. Dalla seconda metà degli anni ’80 non fece altro che saltare. Si trasferì addirittura a Lake Placid, negli Usa, dove continuò ad allenarsi, perché lui un’Olimpiade voleva farla. E questa arrivò, nel 1988 a Calgary. Michael Thomas Edward c’era, come rappresentante del Regno Unito, grazie ad un regolamento che consentiva ad ogni nazione di portare almeno un’atleta per specialità.

E poco importa se Eddie a quel punto, fece ciò che era più pronosticabile. Nessun “effetto-Bradbury”, insomma. Chiuse ultimo, in entrambe le specialità affrontate, con un punteggio di molto inferiore alla metà di quello ottenuto dal penultimo classificato. Eppure Eddie divenne il più amato, la vera ragione d’interesse di quell’Olimpiade. Salti sgraziati, l’abbonamento all’ultimo posto e dei grandi occhiali da vista sotto quelli da sciatore, che spesso si appannavano durante il volo rendendo più complesso l’atterraggio. Eddie divenne l’eroe normale, l’esempio dell’uomo qualunque che ci prova, ottiene e lotta contro le avversità di ogni giorno.

Eddie, soprattutto, divenne “l’aquila”, così come ebbe a definirlo il presidente del Comitato organizzatore nella cerimonia di chiusura (“In questi giochi, alcuni atleti hanno vinto la medaglia d’oro, alcuni hanno battuto dei record, e alcuni di voi hanno addirittura volato come un’aquila.”). Da lì fu per tutti “Eddie the eagle”, tanto da ispirare un film del 2016 dal titolo “Eddie the Eagle. Il coraggio della follia”, dopo essere stato tedoforo del braciere olimpico per le Olimpiadi di Vancouver del 2010. Una leggenda, appunto.

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