Quanti sono i ciechi assoluti in provincia di Cuneo? Quanti, invece, gli ipovedenti?
Sono domande che, personalmente, non mi ero mai posto, ma quando ho avuto la risposta, proprio mentre stavo buttando giù questo articolo, sono rimasto francamente impressionato dalle cifre, più alte di quanto mi potessi immaginare.
Partiamo dall’inizio, però. Perché questo articolo? Perché a Cuneo, da qualche settimana a questa parte, esiste un piccolo gruppo di ragazzi ciechi assoluti che con costanza e frequenza si ritrovano a Fontanelle di Boves per giocare al coperto a calcio a 5. Qualche giorno fa, in modo del tutto casuale, mi sono imbattuto in un trafiletto della sezione locale de La Stampa, nella quale Simone Zenini, ex presidente ed attuale consigliere della sezione provinciale dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, invitava a gran voce chiunque se ne intendesse di calcio e volesse allenare una squadra a farsi avanti: a questo gruppo di appassionati, di cui lui stesso fa parte, serviva infatti (e serve tutt’ora) un tecnico, per poter acquisire delle competenze e sentirsi davvero “squadra”.
A quel punto ho alzato il telefono, ho chiamato Simone ed ho sentito, con il passare dei minuti, lo spirito giusto, di chi vuole fare qualcosa di importante per agevolare una condizione che di agevole ha poco: “Il prossimo anno l’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti festeggerà i 100 anni di vita. A Cuneo esiste dal 1946, ma c’è tanta strada da fare. Oggi abbiamo 390 iscritti, ma dovremmo e potremmo essere molti di più. Perché lo sport? Perché lo sport è il modo migliore per conoscere se stessi e gli altri, oltre che un’occasione per fare attività uniche”.
Ed è qui che Simone, raccontando di sé, racconta la vita di molti come lui: “Avevo dieci anni, quando sono diventato cieco. Era il 1997, ma pur essendo passati ventidue anni, non dimentico il ricordo del mondo visto con i miei occhi, e questo è un grande vantaggio. Il mondo dei ciechi è molto frammentato e variabile: c’è chi, come me, ricorda il mondo così com’è per un vedente ed è agevolato in alcune attività, pur non vedendolo più. Ci sono poi gli ipovedenti, che in realtà del mondo conoscono tanto e che per questo non potrebbero mai essere equiparati ad un cieco, nemmeno in un campo di calcio. Ci sono, infine, i ciechi dalla nascita, per i quali è tutto più difficile, perché, ad esempio, per loro non è nemmeno così facile capire che cosa significhi doversi muovere in un rettangolo di gioco largo venti metri e lungo quaranta, come un campo di calcetto. La differenza e la complessità stanno proprio qui”.
Ecco perché lo sport può dare una mano: “Fare sport significa capire tanto, soprattutto se in un contesto come il nostro nel quale non mancherebbero gli aiuti di personale formato ed istruttori di qualità. Servono il coraggio di sfidare se stessi e la voglia di fare. Per un cieco è fondamentale accettare la propria condizione così com’è, rimboccarsi le maniche e vivere la comunità, il gruppo. Il calcio a 5 è uno strumento utile in questo senso: creando una squadra giocheremmo su campi nazionali, dalla Liguria alla Puglia, conosceremmo altri ragazzi, ci metteremmo in gioco. Proprio per questo avere un istruttore è per noi fondamentale. Requisiti? Uno solo: che ne capisca di calcio. Non si deve preoccupare, per il resto: abbiamo già gli strumenti per fargli capire quali sono i piccoli accorgimenti da adottare per allenare una squadra come la nostra. Interessati, fatevi avanti!”.
Copio-incollo l’invito: fatevi avanti! L’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di Cuneo, che propone anche altre attività, è sempre disponibile per ogni proposta!
Ps. Avevo esordito con una domanda ed ora vi svelo la risposta. In provincia di Cuneo ci sono 1000 ciechi assoluti ed altrettanti ipovedenti. 2000 persone con una voglia matta di scoprire!
1 secondo e 82 centesimi. Tanto è servito ai meccanici della Red Bull Racing, domenica 17 novembre nel corso del Gp del Brasile, per sollevare la vettura del pilota Max Verstappen e cambiarle gli pneumatici (qui le immagini:
). Un record che ha migliorato di sei centesimi il precedente primato, stabilito sempre da Red Bull e Verstappen, lo scorso anno.
Sapete quanto durava una sosta ai box nella Formula Uno degli anni ’50?
Agli albori delle monoposto, il pit stop aveva una durata media superiore al minuto. Qualche documento filmato del tempo mostra, addirittura, Juan Manuel Fangio, uno dei più grandi piloti della storia, scendere dalla sua vettura per dare una mano tra viti e bulloni ai suoi meccanici, così da ridurre il tempo impiegato nelle varie attività.
Insomma, nel corso di sessant’anni l’ingegno umano ha ridotto di sessanta volte la durata di un’azione che già sembrava difficile migliorare alle origini (provate voi a cambiare quattro gomme ed a rifornire la vostra auto in poco più di un minuto!).
“Ah, la tecnologia. Con la tecnologia si può fare tutto”.
Scommetto che questo è stato il vostro primo pensiero dopo aver letto queste poche righe. E invece no. L’unica “tecnologia” che ha permesso questa riduzione (al di là ovviamente dei miglioramenti della meccanica, che non avrebbero però potuto produrre risultati così netti) è innata in noi sin dalla nascita: l’organizzazione. «L’uomo è un animale sociale», scriveva Aristotele nel suo Politica già nel IV secolo a.c., ed essendo tale si organizza, si definisce attraverso un ruolo nel gruppo e sommandosi agli altri individui ottiene dei risultati.
Chissà se a questo pensarono i dirigenti dello University Hospital of Wales quando nel 2016, al limite della disperazione per i dati preoccupanti che stavano emergendo sulle morti di neonati prematuri nelle loro strutture, scelsero di affidarsi alla Williams. Sì, una scuderia di Formula Uno e non era la prima volta. Già qualche anno prima il Dr. Goldman ed il Dr. Elliot del Great Ormond Street Hospital for Children, nel Regno Unito, avevano seguito vere e proprie “lezioni private” nel quartier generale della Ferrari a Maranello. Con quale obiettivo? Riconosciuta la presenza di errori da parte del personale dell’Unità di Terapia Intensiva dovuti alla pressione ed alla confusione del momento, volevano valutare se e come fosse possibile organizzare al meglio l’attività di intervento per migliorarla.
Le consulenze delle scuderie hanno evidenziato elementi di correlazione incredibili e soprattutto hanno messo in luce tutti i limiti del personale ospedaliero: caos, strumentazione non collocata nel punto corretto della sala, infermieri e chirurghi che si intralciavano nello svolgimento delle loro azioni. Lì, dunque, si doveva lavorare, proprio nel nome dell’organizzazione, anche per ridurre stress e pressione dei medici (sempre secondo i dati raccolti dalla Red Bull Racing, le pulsazioni al minuto di un meccanico durante un pit stop raddoppiano rispetto alle 60-100 a riposo).
Ecco perché, di lì a poco, il sistema ospedaliero per le azioni d’urgenza in Galles è completamente cambiato, attraverso l’introduzione di correttivi apparentemente banali: trolley per il kit più piccoli e snelli, una divisione a priori degli spazi sul pavimento in cui ogni elemento della squadra (15-20 persone) può agire e, soprattutto, tanti nuovi segnali manuali, in sostituzione del dialogo diretto. Organizzazione, rapidità, silenzio.
I risultati? Impressionanti. I due medici citati in precedenza presentarono dei numeri clamorosi: gli errori prodotti con il nuovo metodo erano calati del 42% (dato prodotto su circa 30 interventi), rispetto a quelli causati dal vecchio.
Una vera e propria svolta, che ha generato, come conseguenza indiretta, la riduzione del numero di decessi in quel reparto. E voi, pensate di poter organizzare la vostra vita come un pit stop per ottimizzare le vostre attività quotidiane?
Provate a vedere, intanto, che cosa si può fare nel tempo di una “sosta ai box”, con attori Verstappen e Ricciardo…
Bentornati. Bentornati nella rubrica che parla (o almeno ambisce a farlo) di sport in un’ottica diversa: meno “atletica”, più sociale e storica.
Per darvi il benvenuto, chi vi scrive ha pensato di affidarsi a quel sentimento che più si concilia con i graditi ritorni: l’amore. Ci perdonerete, però, se non sarà un amore fatto di baci, abbracci ed esseri umani con esseri umani.
L’amore di cui vogliamo parlarvi va oltre: è quello per la libertà e per la propria terra, di cui il magnifico mondo dello sport è pieno zeppo, sin dalle sue origini più remote.
Non ci credete? Pensate alla maratona, la più antica tra le specialità olimpiche. Nasce dalla leggenda di Filippide, l’ateniese che nel 490 a.c. corse l’intera distanza che separa Maratona da Atene trascinato dalla foga, per giungere in città ed annunciare ai suoi “nike”, ovvero vittoria contro i Persiani, prima di morire.
Ma di simil-Filippide dello sport è quasi piena la nostra era moderna, disposti a tutto, forse anche a morire, pur di difendere la libertà e la nazione in cui sono nati. L’ultimo caso è giusto sotto il nostro naso, nascosto dalla luce abbagliante dei riflettori della NBA, il più importante campionato cestistico al mondo, e dalla distanza “ideale” che ancora per troppo tempo ci ha separato da quel mondo non troppo lontano da noi che si chiama Turchia.
Stiamo parlando di Enes Kanter, la cui descrizione “mediatica” sostanzialmente recita così: colosso turco di 211 centimetri per 111 chilogrammi, entrato in NBA già a diciannove anni (nel 2011) ed oggi pluri-milionario giocatore dei Boston Celtics, una delle più note franchigie americane.
Bene, ora estraniamoci un attimo dal nostro mondo fatto di soldi, notorietà e social network. Chi è Kanter? È semplicemente Enes, un ragazzo di ventisei anni (insomma, un nostro coetaneo) che ha sfruttato il suo più grande talento per fare ciò che amava: spedire un pallone a spicchi dentro un canestro metallico sorretto da un tabellone in plexiglass.
La seconda parte della storia di questo ragazzone, però, è ai limiti del drammatico. Nel 2016 Enes decide di iniziare a correre per la propria nazione, proprio come Filippide, ma con i mezzi che ha a disposizione: il 17 luglio, dopo il fallito golpe militare, denuncia pubblicamente Erdogan e da lì la sua vita cambia per sempre. Nel giro di tre anni perde tutto: il padre, a cui la Turchia revoca il passaporto quasi subito, lo rinnega pubblicamente per riconciliarsi con l’opinione pubblica nazionale, il fratello Kerem, anche lui cestista, viene abbandonato dalla federazione turca e si rifugia a Badalona dove gioca oggi, la famiglia è perquisita a più riprese.
Enes, intanto, perde tutto ciò che può perdere un cittadino: prima l’amore dei concittadini, quindi il passaporto e la serenità, dovendo rinunciare a più trasferte in Europa per il timore di essere ucciso dalle spie del proprio Paese. In Turchia, oggi, Kanter è trattato come un falso idolo nell’Antico Testamento: da tre anni le sue partite non vengono trasmesse in tv e chi ha osato votarlo per l’All Star Game o tenere un suo poster in casa o ufficio è stato perquisito, minacciato e persino arrestato.
Oggi Enes, Enes il milionario, è questo. Ma lui non molla: “(Erdogan è) un megalomane, soffocatore della democrazia, l’Hitler del 21esimo secolo. (…) Il mio obiettivo è essere la voce per tutte quelle persone innocenti che non ne hanno una”.
La sua corsa non è finita e ci auguriamo che duri ancora a lungo. Così come speriamo possa avere pace Hakan Sukur, quarantotto anni, ex capitano della nazionale turca di calcio nel momento più alto della sua storia: quando nel 2002 giunse terza al Mondiale, commuovendo il mondo con una bellissima festa finale insieme alla Corea del Sud, appena sconfitta.
Quando giocò per l’Inter non esitò a scegliere il numero di maglia 54: era la sigla della targa della sua città, Adapazari. La sua nazione riassunta in un numero, così come le sue origini. Ma ora la sua terra gli ha voltato le spalle: negli ultimi anni ha detto no alla “dittatura” di Erdogan ed ha perso tutto. Oggi è vittima di un mandato di cattura internazionale come oppositore politico ed è lontano proprio dalla sua amata Turchia, senza nulla, perché tutto gli è stato sequestrato.
“La mia è una lotta per la giustizia, per la democrazia, per la libertà e per la dignità umana. Non mi importa di quello che posso perdere se a vincere è l’umanità” – ha scritto su twitter.
Da Hakan ed Enes il nostro augurio che la ripartenza di questa rubrica possa anche coincidere idealmente con il ritorno alla pace ed ai diritti in una terra tanto bella quanto dannatamente instabile.
Nei giorni scorsi ha fatto scalpore il viaggio istituzionale in Italia di Xi Jinping, dal 2013 (e verosimilmente a vita) presidente della Repubblica Popolare Cinese.
Sessantasei anni, espressione di un’ideologia politica moderata rispetto a quella più marcatamente di stampo comunista tipica della Cina, Xi, da quando è al potere, ha messo nel mirino un unico obiettivo: dare al macro-Stato asiatico un ruolo centrale nell’economia internazionale, attraverso accordi strategici che potessero stimolare investimenti significativi. Si spiega così la Belt and Road o “Nuova via della seta”, ovvero la creazione di una rete di accordi commerciali con i Paesi del continente asiatico e con quegli Stati europei che guardano al Mediterraneo.
Tra cui, appunto, l’Italia, che in pompa magna a fine marzo ha presentato al Mondo questo nuovo accordo commerciale. Uno scambio di tecnologie, prodotti e competenze apparso ai più come impari, perché fortemente a vantaggio della Cina e delle sue mire espansionistiche da un punto di vista economico.
Eppure c’è un settore in cui, per assurdo, sarà l’Italia a fare la voce grossa, tra export e diffusione di competenze di prim’ordine: il calcio.
Già, perché tra i tanti accordi “stimolati” dal memorandum tra i due Paesi non si parla solo di aziende, commercio, turismo e delle famose arance esportate dal Belpaese alla potenza asiatica, che ne è già il terzo produttore mondiale. C’è anche il nostro tanto amato pallone, che ha potuto soddisfare per inverso le sue mire espansionistiche verso un mercato che conta miliardi di persone.
Ma cosa prevede l’accordo?
In primis, l’esportazione di competenze. L’Italia fornirà alla Cina un team di figure specializzate in molti settori, per consentire al partner asiatico di crescere, anche a livello di risultati. Probabile, quindi, un’emigrazione di cervelli, tra tecnici, istruttori, preparatori e chi più ne ha più ne metta.
Quindi, l’esportazione della nostra massima innovazione degli ultimi anni: il Var. Il Video Assistant Referee, tanto bistrattato, sta lentamente diventando qualcosa di fortemente invidiato nel mondo, soprattutto in quella Cina che ha talmente carenza di arbitri di livello da averne “importati” per le gare più importanti del campionato.
Infine, la speranza di poter aprire un mercato solido per le nostre squadre e la nostra nazionale in Cina. Verosimilmente si disputeranno in Cina amichevoli tra la nazionale asiatica e quella azzurra, ma il grande sogno è quello di poter far disputare un match della Serie A italiana in Asia. Fantascienza? Un simile tentativo di qualche mese fa in Spagna (Barcellona-Girona a Miami) è stato bocciato dall’ “Europa del pallone” perché ogni campionato deve essere disputato sul suolo di appartenenza. Staremo a vedere, con il rischio di creare ancora una volta frizioni (questa volta “simpatiche”) tra le istituzioni europee ed i nostri governanti (del pallone).
Quel che è certo, è che il nostro calcio piace nel mondo, soprattutto a chi, come la Cina, vuole provare a raggiungere le vette anche in questo sport. Come questa rubrica ricorda nel suo motto, un giorno Winston Churchill disse: “Mi piacciono gli italiani: vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e vanno a una partita di calcio come fosse la guerra.” Per una volta, forse, (per il calcio) potremmo averci azzeccato.
Ci sono persone e nomi che si legano inscindibilmente ad una terra, la rendono nota nel mondo e anche quando il vento non è più in poppa come un tempo perché i successi sono lontani, da questa terra vengono cullati e celebrati ogni giorno.
Per la provincia di Cuneo, una di questi è Stefania Belmondo, la nostra ragazza venuta dai monti della Valle Stura e diventata una delle più grandi atlete della storia sportiva italiana, forse la più grande sciatrice in assoluto. Quella che ancora adesso fa battere i cuori. Quella della quale ti ricordi ancora ogni impresa, percependo le sensazioni di quel momento e avendo chiaro in mente il luogo in cui eri quando l’ultimo sci tagliò il traguardo.
Stefania ha provato a raccontarci che cosa sono stati quei quasi vent’anni di carriera e come li ha elaborati nei venti successivi, dall’anno del ritiro, il 2002, ad oggi.
Partiamo da qui, da oggi. Stefania, ti sono bastati diciassette anni per capire quello che hai fatto per la nostra provincia e per la città di Cuneo, che fino a poco tempo fa portava ancora i segni del tifo fatto per te, con scritte indelebili sui muri del paese?
“Devo ammettere che colgo di aver fatto qualcosa di importante perché ancora adesso vengo chiamata da tante scuole a parlare, cosa che mi riempie d’orgoglio. È l’indizio che si è lasciato un segno. Devo dire, però, che per me fu la normalità. Sono nata e cresciuta in una famiglia semplice ed umile, per cui anche dopo vittorie di alto livello non è che la mia vita sia cambiata tanto: vivevo per lo sport, ma è stato tutto quotidianità, allenamenti e vittorie”.
Eppure Cuneo, per molti l’emblema dello spirito “bugianen”, per te si è emozionata come non mai, sfiorando le lacrime…
“Forse proprio perché da noi ci sono stati meno sportivi di altissimo livello, sentire in televisione il mio nome e quello della provincia di Cuneo rappresentava un’occasione di vanto da celebrare. Devo ammettere che però ancora oggi mi commuovo quando alcune persone che mi incontrano mi ringraziano per quanto fatto e, nel farlo, hanno le lacrime agli occhi”.
La tua carriera in due medaglie d’oro olimpiche: quella di Albertville nel 1992 e quella di Salt Lake City nel 2002. Qual è la più bella?
“Impossibile scegliere. La prima è stata magnifica, perché la prima di un’italiana ad un’Olimpiade: fu qualcosa di pazzesco. C’erano due pullman dalla mia valle e ricordo ancora i momenti bellissimi vissuti con i miei compaesani. Nella seconda, invece, non dico che non credevo, ma fu qualcosa di surreale. A rendere il tutto più epico fu la rottura del bastoncino, che sembrava avermi tagliato fuori dai giochi. Addirittura, al mio paese i tifosi del fan club avevano spento la televisione e battevano i pugni sul tavolo, convinti che tutto fosse finito. Poi, quasi per caso, hanno riattaccato per assistere al mio ultimo trionfo. Sapete cosa mi lascia più soddisfazione? Larisa Lazutina, seconda classificata, che sconfissi nella volata finale, fu poi squalificata per doping, a testimonianza del fatto che a volte la voglia supera anche le scorrettezze”.
Ecco, appunto, l’uso di sostanze illecite. Quanto possono danneggiare un atleta che vive lo sport correttamente?
“Tantissimo. A livello sportivo, di immagine e anche e soprattutto da un punto di vista meramente economico. Ridevo qualche giorno fa con Elisa Rigaudo, che ha recentemente ottenuto la medaglia d’argento ai Mondiali di Daegu 2011 dopo la squalifica di una seconda atleta che l’aveva preceduta al tempo al traguardo: tantissime delle sciatrici che mi sconfissero in quegli anni, di fatto tutte russe, furono poi trovate positive ai controlli antidoping. Insomma, chissà quante medaglie ho lasciato per la strada per fattori che non potevo controllare!”.
La rivale più forte?
“Yelena Valbe, senza dubbio. Anche lei russa, ma di una forza spropositata senza “aiutini”. Quante volte abbiamo lottato per la Coppa del Mondo! Ancora adesso ci sentiamo e insieme dialoghiamo su tutti questi casi di doping che emergono nel suo Paese”.
Chiudiamo con la ricetta di Stefania: come si diventa campioni?
“Non servono medaglie per essere campioni, ma tutto sta nel sentirsi realizzati. Ai giovani dico: ricordatevi sempre che qualunque sia il vostro obiettivo dovete impegnarvi e dare il massimo. Io, poi, ho sempre aggiunto i sogni: per anni ho sognato di cantare l’inno italiano dopo una vittoria olimpica, poi ho iniziato a lavorare concretamente per raggiungere quel desiderio e solo dopo ce l’ho fatta. Sono i sogni il vero carburante delle nostre azioni”.
Volete avere i brividi? Guardatevi queste immagini.
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